Vita quotidiana al tempo del coronavirus

Sabato sera io e mia moglie siamo stati a teatro a Milano, al Piccolo Teatro Strehler (non lo dico per tirarmela, è solo che ho un abbonamento pensionati _ anche se pensionati non lo siamo ancora, ma grazie ai buoni uffici di due amici ci siamo imbucati in un’associazione benemerita per risparmiare, e poi è comodissimo: andata e ritorno in pullman, posti prenotati… _). Sul pullman meno gente del solito, ed incredibilmente il baretto dove andiamo a prendere il panino prima dello spettacolo, di solito strapieno, era semivuoto e la gentilissima padrona è stata anche lì con noi a chiacchierare cinque minuti, quando normalmente non riesce ad alzare la testa dalla cassa. In sala qualche posto vuoto, ma nemmeno troppi: paura del contagio o dello spettacolo? “La tragedia del vendicatore” di Middleton, coevo di Shakespeare, non è leggerissima, anche se l’allestimento del regista Donnellan ha attualizzato la storia e l’ha “alleggerita”. La notizia della chiusura dei teatri, il giorno dopo, è stata dolorosa anche se non inaspettata.

Ieri siamo andati a fare una bella passeggiata sul lago. La giornata era calda, primaverile, era davvero un peccato rimanere in casa. Di solito scendiamo a Como con il bus, ma stavolta siamo andati in macchina, per ridurre al minimo i contatti: in giro meno gente del solito, meno confusione, ma non il deserto che temevamo: famiglie, innamorati, nonni e nipotini, turisti… gente che fa jogging, che va in bicicletta, in monopattino… ma al bar no, non ci fermiamo: siamo sicuri che li lavino proprio bene i bicchieri? E quello che starnutisce lì, stiamogli un po’ alla larga… ad un certo punto un raggio di sole mi entra e nel naso e fa starnutire me: quasi quasi mi viene da scusarmi, tranquillizzare i vicini, tutto ok ragazzi, è solo il sole…

Ieri pomeriggio mio figlio è venuto a Milano, per incontrare la sua compagnia di amici. Le raccomandazioni che si è dovuto subire erano più adatte ad una partenza per la guerra che per un viaggetto a quaranta chilometri, ma tant’è; poi una volta partito continuavamo a chiederci: con chi andrà? Ma gli amici li conosci? Non è che ce n’è qualcuno di Lodi? Ieri sera è tornato a casa sano e salvo ma un po’ confuso: la società di co-working di Cormano dove lui e i suoi soci hanno preso gli uffici per la loro azienda di grafica ha deciso di chiudere gli spazi per una settimana.

Stamattina sono andato al lavoro. Ho preso il mio trenino pendolari, semi vuoto, poi la metropolitana con addirittura qualche sedile libero. Qualcuno si protegge naso e bocca con la mascherina; qualcuno (come me, che le mascherine non le ho comprate, ma dicono che non si trovino nemmeno a pagarle a peso d’oro) con la sciarpa. Lo so, non serve a niente, se non come invito a starmi lontano.
Rinviati eventi sportivi, chiuse scuole, asili, musei, teatri, addirittura le chiese: i luoghi di socialità, come dice il sindaco di Milano.
Il badge per entrare era disabilitato. L’hanno fatto per tutti gli “esterni”, per tutti quelli cioè che non sono dipendenti, anche quelli, come me, lavorano in questo posto da quasi venti anni; ci sottopongono un questionario dove si dichiara di non essere stati, negli ultimi 15 giorni, in uno dei paesi infetti; passato il controllo salgo al piano dove, delle oltre duecento persone che affollano lo stanzone, ne è presente una decina. Quasi tutte le società (i “fornitori”) infatti hanno invitato i loro dipendenti a rimanere a casa e lavorare se possibile da lì: solo chi non ha il collegamento o ha motivi eccezionali può lavorare in loco. Io in realtà di motivi eccezionali non ne avrei, se non quello abbastanza nobile che se non lavoro non mi pagano: per oggi va così, domani vedremo, se mi danno la linea, le autorizzazioni, bene, se no rimarrò a casa a scrivere qualche puntata di Olena…

Comincio a sentire i colleghi sparsi per l’Italia, è un po’ dappertutto così, chi può lavora da casa, tanti uffici sono chiusi, porte sbarrate…

E mi è venuto un sospetto: ma questo virus non sarà stato creato apposta per non farci più muovere da casa? E’ comodo un popolo che non si possa riunire, incontrare, confrontare… E’ solo il preludio di quello che ci aspetterà da qui a venire, ogni volta che scoppierà una nuova influenza? Sembra che il mondo sia davvero diventato troppo piccolo: da villaggio globale a lazzaretto globale è un attimo…

Comunque, ridendo e scherzando, si è fatta l’ora di pranzo: la mensa ed i bar interni sono chiusi; mangiare i toast delle macchinette è contrario ai miei precetti religiosi: quattro passi fuori c’è il mercato comunale e mi prendo un bel panino alla bresaola (con le ultime due fette di pane rimaste!) ed una birretta Ichnusa; una chiacchiera al cioccolato e due tortelli che domani è carnevale… seduto su una panchina al sole, di rientrare non ho proprio voglia, che faccio? Torno a lavorare o me ne vado a casa?

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31 pensieri su “Vita quotidiana al tempo del coronavirus

    • Però i consulenti nell’istituto bancario per il quale lavoro non li hanno fatti entrare… ed i dipendenti sono stati invitati a rimanere a casa in smart-working. Poi si sa, Roma assorbe tutto, è bella anche per quel fatalismo o quella saggezza millenaria… qui abbiamo sospeso anche le messe, pensa come siamo messi!

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      • Ho letto, ti ho letto ma… da noi scuole aperte solo ieri non mi hanno fatto entrare nella clinica dove è ricoverata la mia nipotina e questo lo trovo un provvedimento giusto, precauzionale.
        Sinceramente tutta questa cascata di notizie mescolate a panzane trovo che siano di intralcio e creino ulteriore panico.
        Ti abbraccio alla faccia de covi19 😊

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