Qui si fa la pipa non canta la raganella

Se qualche tempo fa vi fosse capitato di passare in treno dalle parti di Osimo/Loreto, avreste potuto notare sui muri di un casolare diroccato nei pressi della ferrovia la scritta criptica: QUI SI FA LA PIPA NON CANTA LA RAGANELLA. Mi sono scervellato per anni nei miei passaggi andata e ritorno per capire la logica che collegava l’attrezzo da fumo ai simpatici anfibi. Lo stile delle lettere ricordava quello del ventennio tanto caro ai nostalgici, sebbene il richiamo suonasse piuttosto frivolo rispetto ai roboanti INDIETRO NON SI TORNA o SE AVANZO SEGUITEMI che qualche buontempone aveva trasformato in SE AVANZO MANGIATEMI. Mio padre ricordava altri inviti, di cui forse in tempi di autarchia il più autorevole era  “ITALIANI, MANGIATE PESCE!” a cui gli italiani si sarebbero volentieri adeguati, ma che purtroppo ai tanti che compensavano la mancanza di cibo con qualche nozione storica  ricordava l’invito che Maria Antonietta rivolse ai suoi connazionali, peraltro poco riconoscenti, ovvero quello di cibarsi di brioche in mancanza di quelle baguette di cui andavano ghiotti, specialmente se impreziosite da un leggero aroma di ascella.

Probabilmente la mia ignoranza derivava dal fatto di non essere un amante del fumo; in famiglia non fumava nessuno e dunque non ero predisposto al vizio. Credo mi frenasse anche il fatto che il vizio del fumo, a differenza di quello di mangiarsi le unghie, non fosse gratis. Ad ogni modo, visto che chi lo faceva sembrava provarci un gran gusto, incuriosito mi attrezzai. Sotto la bottega di mio padre c’era un locale adibito a carbonaia. Approfittando del fatto che mio nonno Gaetano mi mandava qualche volta a comprare le Nazionali senza filtro, andai alla tabaccheria di Vittoria e presi un pacchetto da 10. Con due compagni di cui non rivelerò il nome aspettai che facesse sera, e insieme ci infilammo nella carbonaia al buio. Avevamo solo una vaga idea del cosa fare: accendere il cerino non bastava; soffiare non funzionava, ci mettemmo un po’ a capire che bisognava aspirare, ma non che il fumo sarebbe stato meglio non inspirarlo. Credo che ad un certo punto le Nazionali senza filtro siano state dichiarate fuorilegge ai sensi della Convenzione di Ginevra sulle armi chimiche; uscimmo all’aria aperta  violacei, e credo che il pacchetto sia ancora là. Converrà fare una telefonata anonima, e chiamare degli artificieri per disinnescarlo.

In questi giorni infuriano le polemiche sulla teoria gender, o dei generi. Come ho detto, a noi per sicurezza mettevano dei fiocchi blu se maschietti e rosa se femminucce; non dubito che qualcuno potesse fare confusione anche allora, ma a occhio e croce sembrava un numero più contenuto. Comunque sono argomenti troppo importanti e delicati per permettermi di scherzarci su: suggerirei solo di aggiungere alle numerose possibilità di combinazione oggi offerte dal mercato anche una ulteriore variabile fumatori- non fumatori. Questo lo dico soprattutto a vantaggio dei non fumatori: infatti se vi è capitato di baciare qualche volta una fumatrice, forse anche a voi è rimasta quella inquietante sensazione di star leccando un portacenere.

A me successe al mare e preciso, ad evitare ritorsioni, prima di conoscere mia moglie: se dicessi che lo rifarei non sarei sincero. Ero con un amico, poco più che ventenni entrambi, ed avendo visto queste due amiche aggirarsi intorno ad una pista da ballo all’aperto avevamo pensato bene di farci avanti. Il mio amico non brillava per delicatezza e savoir faire, nemmeno per eloquio a dire la verità; ma avendo capito dopo i primi approcci che non avevamo a che fare con due accademiche dei Lincei anche le sue qualità poterono risaltare. Insomma, noi in due, loro in due: il mare, la luna, la spiaggia eccetera, se mi seguite. C’erano tutti i presupposti per un lieto proseguimento della serata dopo il ballo liscio preliminare ma purtroppo il ricordo della carbonaia fu troppo forte e dovetti defilarmi con qualche scusa di circostanza. Il mio amico, che essendo uomo di poche parole stava già passando alle vie di fatto, rimase interdetto: la mia defezione aveva rotto l’armonia e la sua dama, vedendo l’amica ripudiata, si ricompose. Per un attimo vidi i suoi occhi attraversati dalla stessa luce di quelli di Jack Nicholson in Shining mentre sussurra “Sono il lupo cattivo!” alla mogliettina Wendy, sollecitandola con un’ascia ad uscire dal bagno; poi capii che era entrato in blocco, incapace di decidere a chi saltare addosso, se alla donzella per finire l’opera o a me per strozzarmi.

In verità la scampai bella: qualche settimana dopo si aggiravano tutte e due per il paese, alla nostra ricerca. Vi ho già detto che d’estate prima di una certa ora non incontrereste molta gente in piazza, e così accadde a loro; ma tra quei pochi si imbatterono proprio, vedi a volte le combinazioni, in mio nonno con tanto di cappello in testa. Abituato a tempi in cui non erano le donne a correre dietro agli uomini, fu sorpreso ma orgoglioso del fatto che due belle ragazze (secondo lui; niente di che, secondo me) mi cercassero, e noncurante del motivo si offrì addirittura di accompagnarle a casa; per fortuna le due con un barlume di pudore rifiutarono, e tanto non mi avrebbero trovato perché in quel momento ero a trecento chilometri di distanza.

Alcuni conoscenti mi hanno detto che il casolare è stato abbattuto, e con lui la scritta. Se fosse rimasta, tra duemila anni fior di archeologi sarebbero stati impegnati a decifrarla: meglio così, non ci sarebbero mai arrivati. A voi però posso dirlo, perché ora lo so: Non canta la raganella era una marca di pipa, e quel casolare era la fabbrica dove veniva prodotta.

(50. continua)

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Le sirene del ballo

Non penso di essere portato per il ballo. Non che manchi di senso del ritmo, ne di conoscenza rudimentale dei passi principali ma i miei movimenti risultano legati, legnosi, un po’ macchinosi diciamo. A mia parziale giustificazione potrei dire che nel periodo più adatto alla formazione ho potuto far poco per migliorare le mie doti: infatti suonando in un’orchestrina il nostro compito era quello di far ballare gli altri e nella fattispecie del mio strumento, il basso, quello che nello zum-pà-ppà del valzer fa lo zum per intenderci, l’assenza dal palco si sarebbe sentita. Il pà-ppà senza zum non funziona.

Tanto per farvi capire, mia sorella Cinzia già grandina si era iscritta ad un corso di boogie-woogie, accompagnata da un nostro cugino. Poiché questo non si distingueva per elasticità, Cinzia mi chiese di aiutarla a provare qualche passo. Come ho detto non sono un John Travolta ma mia sorella confidava che, dopo aver visto tanto ballare, qualcosina avessi imparato. Arrivammo così al punto in cui la ballerina salta in grembo al ballerino e poi, facendo una capriola all’indietro, gli si ritrova di fronte generalmente in piedi. Io sostengo ancora oggi che la ballerina dovrebbe darsi un minimo di slancio, lei che i ballerini non dovrebbero avere le mani di burro: insomma mi ritrovai con la sorella sottosopra, incapace di fare l’ultimo mezzo giro, e scivolandomi dalle mani atterrò sulla testa. Quella sera la sua fiducia in me venne meno e la passione per il boogie-woogie svanì.

Una delle più formidabili coppie di ballerini che abbia mai conosciuto era costituita dal maresciallo dei carabinieri del paese e la di lui signora. Lui era un omone all’apparenza burbero, tipo un Peppone, con una bella pancia e due piedini piccoli; lei una romagnola snella con in testa uno chignon o ciuccio, come si diceva da noi, che la faceva un po’ rassomigliare a Olivia di Braccio di Ferro. Vederli volteggiare per la pista era uno spettacolo, e se la battevano in maestria con i miei genitori.
Un Capodanno fummo ingaggiati da un locale dal nome pretenzioso, il Mulin (sic) Rouge, in precedenza denominato “da Catirbittu”: una rimessa adibita a sala da ballo, con un soffitto alto non più di tre metri. Al Park Hotel, fino ad allora nostro feudo incontrastato, avevano deciso di cambiare musica (e suonatori) costringendoci all’esilio; il tradimento ci aveva ferito, anche perché solitamente il Veglione era preceduto dalla sontuosa cena, parte integrante del cachet.

Mio padre ci raccontava di quando da giovane, nel periodo della raccolta del granturco, venisse invitato a partecipare alle feste che si svolgevano sull’aia di qualche casa colonica; la cerimonia era quella dello scartocciamento, ovvero del liberare le pannocchie, o tùtuli, dalle foglie che le avvolgevano, in modo da poter in seguito sgranare i chicchi di mais con comodità. A queste feste non mancava mai un organetto, come veniva chiamato, che in realtà era una fisarmonica con pochi tasti; poeti provetti improvvisavano stornelli e si ballava ovviamente con le prosperose ed a volte generose donzellette che tanto attizzavano Giacomino, il tormentato genio recanatese. La tecnica di questi suonatori, abituati del resto a maneggiare ben altri strumenti, non si potrebbe definire sopraffina: per questo il nostro maestro di banda, quando sentiva qualcosa non eseguito con grazia, ci chiedeva se per caso non stessimo scartocciando.

Non me ne vogliano i seguaci della teoria creazionista, ma mi sento più in sintonia con Darwin quando afferma che l’ambiente influenza l’evoluzione; ma anche l’involuzione, se è vero che quella sera da Catirbittu per adeguarci all’ambiente stavamo scartocciando. Ma la gente si divertiva, ed è quello che conta; anche se avevamo un po’ l’espressione di quell’attore che vorrebbe recitare Amleto, e dal pubblico si leva un “facce ride, facce ppà”.
Da poco passata la mezzanotte, dopo il conto alla rovescia e i brindisi di rito, nel bel mezzo di una raspa che in questo contesto non va intesa come grossa lima da legno vediamo con la coda dell’occhio un gruppetto di persone in abiti eleganti affacciarsi nella sala. Nel mucchio maresciallo e consorte; i miei ed altri ballerini. Fu una delle soddisfazioni più grandi della carriera: siamo venuti a ballare, lassù proprio non si riesce. Lasciammo finalmente stare le pannocchie di granturco, e iniziammo a suonare.

(49. continua)

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Mens sana in corpore sano

Mens sana in corpore sano, affermava Giovenale ai suoi tempi e sicuramente sapeva il fatto suo. In anni non recentissimi il duce romagnolo, come ricorda mio padre, aveva declinato il motto latino in un più prosaico “libro e moschetto, balilla perfetto”. Avendo praticato sport fino a quando è stato ragionevole posso ben dire di aver già dato: ora vedere gente di una certa età affannarsi tra palestre, piscine, biciclette e quant’altro confesso mi mette addosso un filo di turbamento. Un po’ va bene, lo concedo: ad esempio le mie amiche coriste che si ritrovano in oratorio a rotolarsi sui tappetini e fare step infondono allegria. Così come gli amici che mettono a rischio le cartilagini residue per sfidarsi a calcetto: la birretta finale vale il rischio. Sul tennis ho già detto, per me due persone che si tirano una palletta per ore da una parte all’altra di un campo non hanno senso: ma è un mio pregiudizio, lo ammetto.
La formazione atletica ai miei tempi non richiedeva più che ci si adunasse al sabato in camicia nera, e magari si saltasse attraverso un cerchio, per di più incendiato. Non avrei forse avuto niente in contrario, anche considerando che per la Befana si allestiva una grande catasta di legna a cui si dava fuoco ed i ragazzi, come iniziazione tribale, cercavano di saltarci da una parte all’altra; ma non si usava più, e tra l’altro anche l’incendio della Befana ad un certo punto fu abolito.
Alle elementari, dove a quei tempi maestri onniscienti insegnavano tutte le materie e quindi anche educazione fisica, la lezione si svolgeva in classe e consisteva nel: a) correre in cerchio b) fare dei piegamenti toccandosi le punte dei piedi c) aprire e chiudere le braccia ritmicamente, respirando (possibilmente). Non ricordo alle elementari di compagni sedentari o sovrappeso; ci si muoveva in abbondanza e l’educazione fisica era un optional.
Alle medie si iniziava a fare sul serio: si correva sempre in cerchio ma in palestra; salto in alto, dove lo stile Fosbury era appena agli inizi; pertica, fune, quadro inglese e spalliera. Ero bravino, ma senza esagerare. Non so perché le ragazze invece di fare pertica e fune dovessero fare la trave: ma forse era un bene, ce n’erano diverse che ci avrebbero bagnato il naso. A sancire il trionfo della nostra preparazione vi erano i Giochi della Gioventù.

Io partecipai nella categoria dei mille metri. Un chilometro che sarà mai, pensavo, abituato a partite di pallone interminabili. Avevo una discreta resistenza ed ero fiducioso in me stesso. In più, un apprendista di mio padre, saputo della mia presenza, non ricordo più a che titolo si mise in testa di insegnarmi a correre: dove io pensavo che bastasse mettere una gamba dopo l’altra il più velocemente possibile, lui mi parlò di falcata, appoggio del piede e respirazione.
Arrivò il momento della gara che avrebbe designato i rappresentanti della scuola per le gare provinciali: per riscaldarmi, previdentemente, feci un bel chilometro gareggiando con i compagni. Partenza! I primi scattarono invasati. Ero abituato ad altri ritmi: spompato dal riscaldamento dimenticai falcate, appoggi e persino respirazione e arrancai in apnea cercando di riprendere i fuggitivi. Tra i quali, ed era la cosa che più mi infastidiva, ce n’era uno che battevo regolarmente: com’era possibile? Dagli spalti mi arrivavano gli incitamenti di mia madre; mio padre ne ero sicuro lì di fianco scuoteva la testa. Quando mi accorsi di stare per essere doppiato, accelerai. Non per fare chissà quale rimonta: solo per portarmi il più velocemente dalla parte opposta della pista rispetto agli spalti, e ritirarmi alla chetichella.
Mia madre poi disse di essersi preoccupata nel non rivedermi, pensava mi fossi sentito male. In effetti bene non stavo, soprattutto nell’orgoglio; ne ricavai comunque delle lezioni per l’avvenire, primo mai sottovalutare gli avversari e secondo mai dar retta a chi ne sa meno di voi.

Mi ricimentai con i mille metri a militare. Verso la fine del corso ufficiali c’erano le prove sportive da superare, se si voleva essere ammessi a comandare una sezione di artiglieri. Sarebbero state più utili prove con fruste e affini, ma invece ci toccò lancio del peso, salto in lungo e mille metri. Ero in una forma fisica smagliante e nessun timore: mi ero allenato insieme a due commilitoni che facevano gare agonistiche e avrei passato l’esame a occhi chiusi.
Nel nostro corso c’era un ragazzo salernitano, simpaticissimo, di taglia abbondante. Un po’ tanto abbondante per i requisiti richiesti, doveva aver avuto qualche spintarella. Il tempo limite per i mille metri erano cinque minuti, e il sergente istruttore gli disse senza mezzi termini che se non fosse rimasto almeno sotto i dieci sarebbe tornato a casa. Mille metri, due soli giri e mezzo di campo, sei mesi sprecati: non potevamo permetterlo. Non ci fu gara; corremmo tutti intorno al nostro amico, spingendolo, spronandolo e insultandolo: non ho mai più visto in vita mia uno rosso in faccia e sull’orlo dell’infarto come lui, così come non ho mai più visto qualcuno più arrabbiato ed orgoglioso del nostro sergente.
“Jatevenne a ‘fanculo, teste di cazzo”, ci congedò affettuosamente.

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Machete

Non è agevole, per chi come me si sia prefisso di scrivere qualche pagina di storielle leggere e poi lasciar lì per non tediare i lettori, pochi o tanti che siano, trovare la giusta concentrazione a meno di staccarsi completamente dal mondo. In un eremo, forse, il lavoro sarebbe agevolato.
Voglio dire, come fai a scrivere qualcosa non dico di divertente ma che almeno faccia sorridere, dopo aver sentito di un controllore al quale hanno quasi staccato un braccio con un machete? Un machete, dico, e a Milano, non nella giungla amazzonica, dove peraltro i controllori sarebbero più rispettati. L’autore, membro di una gang di latinos (sic), si difende dicendo di averlo solo voluto spaventare. Non so cosa intendano le gang di latinos per spaventare. Da noi per spaventare ci si mette dietro una colonna e si fa “buu!”. Senza machete.

Ad esempio, un giorno decisi di fare una sorpresa alla futura moglie, presi il treno e mi recai  inatteso alla stazione di Como San Giovanni. Telefonai a casa, e mi rispose la suocera: non volendo rivelarmi, finsi un improbabile accento siculo e mi presentai come brigadiere De Rosa: la figlia aveva perso la patente, doveva presentarsi subito in stazione a ritirarla. Mi appostai guardingo dietro la famosa colonna, in attesa di poter uscire con un bel “cucù” come un nostro anziano premier qualche tempo fa con la poco avvenente cancelliera tedesca: quando la ragazza arrivò, ma preceduta dalla madre in stile bulldozer, mi spaventai. Non so quanti sarebbero usciti a quel punto dal nascondiglio: io lo feci, e sfido chiunque a non considerarla una dichiarazione d’amore.

Mi sgomenta poi questa naturalezza, quasi fosse il “Come, non lo sai? Ma dove vivi?” con la quale vengo rimbrottato quando chiedo conto di dove siano finiti i miei calzini fino al giorno prima in bella mostra nel secondo cassetto dell’armadio, con cui i media definiscono la banda di delinquenti: la “nota gang MS13”. Nota a chi? E perché, anche se pendolare da decenni, e con migliaia di controllori incrociati anche poco simpatici, dovrei conoscere la gang MS13, o quel che sia? E se è così nota, come sembra, come mai i suoi membri sono liberi di scorrazzare in treno e con borse non contenenti ombrelli, come trovereste previdentemente nella mia, ma armi da taglio adatte alla raccolta della canna da zucchero?

Negli anni settanta andava di moda un genere di film definito poliziottesco, sottogenere del poliziesco, con interpreti come Franco Nero e Maurizio Merli (e parodie con Thomas Milian e Bombolo), dove la sinossi era: banditi scorrazzano per una qualunque città (Milano, Roma, Napoli… le bande non mancavano, tutte autoctone però); la polizia con mezzi e uomini inferiori, dopo sparatorie e inseguimenti,  li acciuffa; qualche avvocato fetente con complicità nella politica e magistratura li fa rilasciare; la polizia si incazza (scusate il francesismo). Allora c’era Vallanzasca in giro, se avete presente. Se avessi fatto lo sceneggiatore all’epoca ne avrei potuto scrivere una decina.

Indegnamente e sommessamente mi sentirei di suggerire ai responsabili dell’ordine pubblico di stornare una parte dei poliziotti utilizzati per bastonare studenti ed operai, lasciandone allo scopo evidentemente istituzionale il minimo indispensabile, e per scortare orde di facinorosi autodenominatisi tifosi lasciandoli invece scornarsi tra di loro, per utilizzarli al meglio contro queste nuove minacce. Vedrei bene la scena di Indiana Jones in cui un arabo avanza con la scimitarra e Indiana, inizialmente ma solo inizialmente, ha in mano la frusta.
Non crediate sia d’animo violento, d’altronde nemmeno nonviolento totale: è che, dalla caduta del muro da tanti osannata, in omaggio alla globalizzazione abbiamo importato tutte le mafie possibili ed ora anche le impossibili; delitti efferati da far sembrare le vecchie associazioni a delinquere nostrane enti di beneficenza. Gorbaciov, cosa hai combinato.

Se le parole hanno un senso, e persino l’avvocato del giovane disadattato dovrebbe rendersene conto prima di far dire stupidaggini al suo assistito, se per tagliare un braccio ad una persona si intende “ora ti spavento” non oso immaginare cosa si possa tagliare quando si intende “adesso ti faccio male”. Magari se lo faccia spiegare prima lui per bene, possibilmente con un esempio concreto.

(48. continua)

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Dindoló de la catena

“Dindoló de la catena, chiama a babbu che vène a cena, e se non ce vole vinì, chiudi la porta e lascilu llì!”.

Le istruzioni per eseguire questa filastrocca sono le seguenti: seduti, dovete prendere un bambino, meglio se di età non superiore ai quattro anni, e mettervelo a cavalcioni delle gambe unite tenendolo per le manine; mentre recitate la tiritera muovete su e giù le ginocchia, simulando un cavalluccio:  e sul “lascilu llì!” fingete di disarcionarlo buttandolo all’indietro. Fingete, ho detto. Qualora vi accingiate all’operazione, munitevi di pazienza: il bambino in questione non dirà mai basta. La cosa è stata sperimentata su me e i miei fratelli, e dunque ve la do per assodata.

Forse a prima vista questo ritornello potrebbe sembrare un po’ troppo fiscale, se non addirittura ingeneroso,  nei confronti di quei poveri babbi che magari avrebbero tutte le ragioni del mondo per non venire a cena: ma la regola non ce la siamo inventata.

Nelle famiglie di una volta cenare tutti insieme, come pranzare del resto, era un rito sacro. Alle otto di sera ci si metteva a tavola e non erano ammesse defezioni , se non per cause di estrema forza maggiore. Chi arrivava in ritardo era accolto dal rimbrotto dei genitori, seguito dalla domanda retorica se si fosse scambiata la casa per un albergo, e dalle risatine dei fratelli subito rimbrottati a loro volta. Una volta a tavola, si mangiava quello che c’era.  Conosco gente, molto vicina a me e di stirpe nordica, che si rifiutava di mangiare il minestrone; quel minestrone, e intendo proprio “quel” minestrone, gli venne riproposto tutti i giorni, pranzo e cena, finché la fame ebbe il sopravvento sull’orgoglio. Non essendo spartani ma piceni, da noi non si forzava nessuno: se il menu del giorno non piaceva, si poteva tranquillamente saltare. Anzi, il gesto sarebbe stato ampiamente apprezzato dai  commensali, ma succedeva purtroppo di rado.

Del resto, avendo dei genitori per i quali in tempo di guerra quella di non mangiare non era una scelta, non ci sembrava dignitoso lamentarci. Ed inoltre, essendo nostra madre una brava cuoca, non avevamo molto da recriminare.

Io, ad esempio, odiavo il formaggio sulla pasta, ma non lo facevo pesare. Ancora oggi, se il grana viene mescolato insieme alla pasta nella marmittona o insalatiera, se avete presente, creando quei filamenti che poi si attaccano in grumi ai denti della forchetta, io non godo. Messo sopra invece, a freddo, si.

Mio padre ha tantissime qualità. L’ho già detto e lo ripeto, con le mani sa fare tutto: ha una fantasia per inventare soluzioni, dove altri getterebbero la spugna, che da piccolo mi faceva dire orgoglioso: “babbu mia ‘ccomoda tutto”. Capitò però un giorno che mia madre non fosse al suo posto ai fornelli. Credo per colpa di mio fratello più piccolo, che pensava chissà perché fosse arrivato il momento di venire al mondo. Ora tutti si sentono chef, ma a quei tempi il compito del capofamiglia in cucina poteva essere tutt’al più quello di affettare il prosciutto: abituato a forgiare cancellate e inferriate, babbo non si perse d’animo. Ci propose un piatto che non si poteva definire della tradizione, ma che evidentemente l’aveva molto colpito: gli spaghetti ai quattro formaggi. Burro e parmigiano li ricordo; gli altri due al momento mi sfuggono, escluderei il gorgonzola che alle nostre latitudini era sconosciuto. Per me, che di formaggio non ne sopportavo nemmeno uno, fu un momento difficile. Non volendo dare un dispiacere al pater, nonché il cattivo esempio ai più piccoli, mi tappai il  naso e mangiai il più velocemente possibile. La tattica aveva i suoi rischi, perché poteva essere scambiata per alto gradimento e soggetta quindi ad assegnazione di bis; fortunatamente babbo era già stato generoso con la prima porzione, e di avanzi non ce n’erano. Ebbi l’onestà di non dimostrare rammarico per la mancanza.

Ora si fanno sacrosante campagne pubblicitarie per invitare la gente a non sprecare cibo. Essendo immersi nella cultura dello spreco, la vedo dura. Noi siamo stati educati bene: abituati a non buttare nemmeno l’insalata avanzata macerata nell’aceto, o tantomeno il pane secco, siamo cresciuti nella consapevolezza della fortuna costituita dall’avere il piatto pieno tutti i giorni, più volte al giorno. Se servono certi richiami, però, si vede che non siamo stati zelantissimi nell’applicazione o non molto convincenti con i nostri figli. Cercheremo di rimediare coi nipoti, non vedo l’ora: “Dindoló de la catena…”

(46. continua)

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Allarme caldo

Sta arrivando l’estate, e come sempre accade da qualche anno a questa parte, porta con se l’ “allarme caldo”. Va da se che l’inverno porterà l’ “allarme freddo”: di “allarmi così così ” per primavera e autunno ancora non si parla ma si sa, non esistono più le mezze stagioni, nemmeno per gli allarmi.

Sembra che lo scopo principale dei mezzi di informazione ultimamente sia quello di tenerci in uno stato di costante ansia. Già abbiamo abbastanza preoccupazioni con crisi economiche, guerre, epidemie, fondamentalismi: dobbiamo pure stare in ansia se d’estate fa caldo. Partono i moniti: attenzione ai bambini e agli anziani; portateli in ambienti freschi (meglio se in supermercati dove già che ci sono possono spendere qualcosa). Ora, a parte che non ho ancora visto statistiche di anziani morti di caldo in Italia, dico, non in sub-Sahel, e quanti invece di complicazioni polmonari legate all’esposizione all’aria condizionata dei supermercati, forse varrebbe la pena riprendere norme antiche ma evidentemente dimenticate.

I miei nonni tutti i pomeriggi facevano la pennichella. Non sulla poltrona, ne sul divano, no, no: proprio a letto. Un’oretta, e ne uscivano ritemprati. La casa era su tre livelli: al piano terra un bagnetto una cantina e una stanzetta di lavoro; al primo piano cucina e stanza da letto, di sopra la soffitta. La chiave di casa era sempre nella toppa, sarebbe stato uno sgarbo verso i vicini, una mancanza di fiducia, toglierla; che ricordi io nessuno se ne è mai approfittato, e se qualche furto c’è stato è stato per opera di forestieri di passaggio. E’ sempre una buona politica avere a portata di mano dei forestieri di passaggio a cui dare la colpa.

Fino alle cinque del pomeriggio in giro non avreste visto molta gente. Si stava in casa, essendo in collina un refolo d’aria c’era sempre; quando rinfrescava, si usciva.

L’altra regola di buonsenso era: se hai caldo spogliati, se hai freddo copriti. Noi veramente portavamo i pantaloncini corti per un bel pezzo, sia d’inverno che d’estate; d’inverno con i calzettoni e d’estate con i pedalini; dotarci di pantaloni lunghi nella fase della crescita più tumultuosa avrebbe voluto dire continuare a cambiarli, cosa inimmaginabile, oppure andare in giro con pantaloni a “zompafossi”, così si chiamavano quelli a cui il malleolo era esposto in bella vista. Tutto doveva durare, e quello che si rompeva si aggiustava. In genere i fratelli minori ereditavano gli indumenti dismessi dai maggiori: per i miei fratelli maschi non fu possibile perché nati a distanza troppo ragguardevole da me, e tempi e gusti erano decisamente cambiati. Indossare i pantaloni corti, comunque, era una condizione sociale. Finchè i pantaloni erano corti si era bambini: con il diritto di indossare i pantaloni lunghi si acquisivano purtroppo anche i doveri dei grandi.

L’indumento virile per eccellenza era la canottiera. Accessorio indispensabile per i lavoratori edili, era preferita a quei tempi alla maglietta della salute, quella con le maniche. A mio avviso in effetti era più confortevole, a patto di procedere a frequenti abluzioni delle ascelle che non andavano per alcun motivo decespugliate. Ora sembra caduta in oblio, come le ghette o la cravatta a papillon. Faceva il paio con le mutande da uomo, cioè gli slip con lo spacco laterale; non comodissimi, per la verità, in caso di urgenze immediate.

Nello spogliarsi attuale riscontro una certa ineleganza. Fortunatamente sembrano passati di moda gli orribili pantaloni a vita bassa. Dovrò chiedere a qualche gastroenterologo quanti attacchi di colite abbiano provocato, di sicuro in me provocavano imbarazzo, specialmente quando seduto in metropolitana mi ritrovavo ad altezza occhi qualche esemplare, meglio femminile ma purtroppo spesso maschile, col pantalone calato fino all’inguine; e non è che col lato B andassero meglio.

A Parma l’arrivo dell’estate si notava dalla lunghezza delle gonne delle cicliste. Vi sarà noto che a Parma tutti vadano in bicicletta, dalla nascita alla morte, così come tutti possiedano un’affettatrice, non di rado a volano. La pausa pranzo durava circa 2 ore – 2 ore e mezza, per permettere ai locali di tornare a casa, mangiare i tortelli di erbetta innaffiandoli di lambrusco o malvasia, e poi dedicarsi al salutare pisolino. Io e il mio amico Massimo, paesano di Gene Gnocchi, essendo gli unici non residenti avevamo molto tempo a disposizione, che impiegavamo per lo più in lunghe passeggiate.

C’era una biondina, che scoprimmo più tardi essere amica della ragazza del ping-pong di cui vi ho parlato, che sembrava facesse apposta a passare proprio all’ora della nostra digestione. Sarà stata un’impressione ma secondo me rallentava apposta l’andatura e, con lieve malizia, interrompeva il ritmo della pedalata, altrimenti fluido. Prendeva un po’ d’aria, insomma, con in faccia un sorriso angelico. Non credo si notasse il leggero filo di bava che scendeva dall’angolino sinistro della mia bocca, cercavo di dissimularlo guardando le vetrine. Per Massimo, essendo affetto da lieve strabismo, non avrei potuto garantire.

(45. continua)

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