Natale con Olena (IX)

Olena è seduta sul bordo del letto della nonna Pina, la centenaria bisbetica alla quale funge da badante, e guarda sbalordita una sua foto in costume da ballerina da saloon, attorniata da entusiasti cowboys, e confronta la fresca bellezza ritratta nell’immagine con la mummia decrepita che ha davanti.
Suo malgrado le sfugge un commento ammirato:
«Voi stata biellissima, signuora Pina»
«Ah, ah, vero?» – risponde la nonna, con una punta di civetteria. – «Ah, ah, lo so che stai pensando: “Ma quanti anni avrà ‘sta vecchia se ha fatto la battona nei saloon?”, eh, dì la verità Natascia »
«Effettivamiente, signuora… » – sfugge ad Olena.
«Ma no, ma no, che pensi! Sono vecchia certo, anzi vecchissima, ma non così tanto… sono nata nel 1914! Centotré anni, Natascia mia… quante ne ho passate!»
«E questa fuoto, signuora? » – chiede una incuriosita Olena
«E’ una recita Natascia, una recita!» – dice la vecchia con sguardo sognante – «Ero un’attrice, cara mia, e mica un’attricetta eh! Una soubrette… questa è stata scattata nel ’35 al teatro Smeraldo, era venuto pure il Duce da Roma per vedermi… e mi ha fatto trovare nel camerino un mazzo di rose rosse. “Con ammirazione, Benito. A noi!” c’era scritto… che signore che era il Duce »
A quel punto Olena, temendo una tirata sui treni che arrivavano in orario, cambia discorso.
«Cosa succiesso? Come mai smesso recitare? » – ed è con un sospiro di rimpianto che la vecchia Pina risponde:
«Qualche anno dopo quella foto, ero in tournée con la compagnia quando conobbi Gervasio, che poi divenne mio marito… mi copriva di fiori, di regali, sai, aveva un piccolo pastificio, e soprattutto mi portava i suoi tortellini… che squisitezza Natascia, avresti dovuto sentire! C’era la guerra sai, e la fame era tanta, tante mie amiche si arrangiavano in altri modi, diventavano amanti dei gerarchi, ma io no, io sono sempre rimasta onesta… e così, quando Gervasio mi ha chiesto di sposarlo, gli ho detto di si. Ho lasciato il teatro, mi sono trasferita a Casalpusterlengo e l’ho aiutato nella sua attività »
«Ma che peccato, signuora Pina!»
«Ah, ah, ma no, che dici, ma che peccato! Siamo stati bene con Gervasio… abbiamo avuto quattro figli, sai? Mi faceva ridere tanto… inventava ripieni che faceva solo per me, per vedere la faccia che facevo… poi Gervasio è morto e Pulcherio, nostro figlio, ha preso in mano l’attività e l’ha ingrandita, ha messo in piedi la fabbrica, e io piano piano mi sono ritirata… e adesso è tutto in mano a suo figlio, mio nipote Evaristo, che ha fatto tutto… » – la vecchia fa un gesto con il braccio, ad indicare quello che c’è intorno, ma con una smorfia di disgusto sul volto – «… tutto questo. »
Olena coglie la sfumatura di disapprovazione nella voce rauca della centenaria, e le chiede:
«Voi non essere cuontenta, signuora Pina? Avere grande fabbrica, magnifica villa, bella vita…» – ma la nonna la ferma decisa:
«Ma che bella vita Natascia, me la chiami bella vita questa? Te la dico io la verità Natascia: mio nipote è pazzo!»
«Perché dire questo, signuora? Il signore pensa al bene della famiglia» – prova a difenderlo Olena
«Il signore, come dici tu, ha perso la testa! Una volta, cara Natascia, i nostri operai li conoscevamo tutti per nome: Gianni, Andrea, Gigi, e le mogli, Rosina, Ada, Peppa… e i figli… e a Natale si faceva festa tutti insieme! Adesso invece ci sono i robot, non ci sono più persone ma “forza lavoro”, con gli operai non si può più avere contatti, sono appestati! E che bisogno c’è di lavorare anche la domenica e le feste comandate, me lo dici tu Natascia? » – chiede la vecchia sorvolando sull’incongruenza di avere una badante che lavora giorno e notte ed in tutte le feste comandate. Olena si sorprende nel trovarsi in sintonia con la vecchia a cui ha nettato le natiche per due anni.

Il vecchio Po si rivolge al rattristato Svengard con queste parole di conforto:
«Glosso uomo del nold, fammi capile. Ti sei addolmentato con le blache calate? Allola te lo devo ploplio dire: sei un glande coglione! »
Svengard annuisce, ripensando a quel momento di cui non andava orgoglioso.
«Sebbene ti abbia avvisato, o Po, di non chiamarmi più glande, in questo caso ti do ragione. Tanto più che non è finita qua » – confessa Svengard, con l’aria di chi vuole liberarsi da un grave peso
«Ah no? Che altla stupidata hai combinato? » – chiede il comprensivo cinese, e Svengard riprende il suo racconto.
«Passarono degli anni, e dopo aver girovagato per il mondo fino a raggiungere persino il castello di Pitino, capitai in Brianza. Cercavo lavoro, e seppi di una fabbrica che cercava boscaioli per tagliare la legna che alimentava il fuoco di enormi caldaie. Il proprietario mi accolse come un fratello, mi affidò l’ascia di famiglia e mi diede poche raccomandazioni: “stai lontano dal fuoco”, “non disturbare i pigmei” e “non rompere le palle”, suggerimenti di cui feci sempre tesoro. Il padrone mi usava anche per vuotare gli enormi calderoni che contenevano delle sostanze strane, perennemente in ebollizione. Fu proprio mentre stavo spostando uno di quei pentoloni che udii la voce. “Caroooo! Sono qui! Qual è l’impasto che devo provare, stavolta?” All’udire la voce rimasi di sasso. Era possibile? Come in trance sentii il padrone rispondere: “Gilda cara, tira fuori la lingua. Moringa e bagna cauda, senti che roba”. La risposta mi tolse ogni dubbio: “Va vè Evaristucciu, ma dopo gliuchimo un pochetto a medicu e infermiera, eh?” . All’udire queste parole non ebbi più dubbi, mi girai e vidi la lingua della donna che amavo intingersi nel cucchiaio che il padrone le porgeva. Un velo mi offuscò la vista, barcollai e il  contenuto del calderone si rovesciò in testa alla mia Gilda.»
«Una glande sfoltuna!» – commentò Po, e Svengard non ebbe cuore di contestargli l’uso del glande.
«Puoi dirlo, saggio Po! La sostanza si appiccicò in testa a Gilda, che urlava di dolore, e non ci fu verso di togliergliela; ella perse tutti i suoi bellissimi capelli rossi. Dalla pena non ebbi mai più il coraggio di parlarle, avrei voluto andarmene ma non ce la feci, e rimasi a raccogliere i cocci del mio amore»
«O che glande poeta tu sei!» – gli dice Po con ammirazione – «Un po’ sfigato, ma glande » – insistendo forse un po’ troppo sull’ultima parola, e continua:
«Ascolta questo mandalino: pallale e falla finita. Anche pelché siamo allivati. Sono 15 euli, glazie»
Svengard scarica il barile dal risció, paga il vecchio Po e lo abbraccia, promettendo di seguire il suo consiglio.

Olena, con l’album di fotografie in mano, sente un prurito all’avambraccio destro. Conosce bene quella sensazione, fin da quando le è stato impiantato il chip di comunicazione e rilevamento. Si alza dal letto dicendo alla vecchia: «Solo un attimo, nonna» e va in bagno.
«Capitano Olena Smirnoff» – si presenta Olena eseguendo il saluto militare
«Capitano, è giunta l’ora di entrare in azione» – dice il colonnello Kutnezof – «sappiamo per certo che il nemico ha sviluppato un’arma potentissima, sfruttando come copertura i laboratori Rana, nel vostro settore»
«Gli ordini, colonnello?» – chiede professionalmente Olena
«Entrare con ogni mezzo e prelevare l’arma. Con questa ritroveremo la nostra grandezza! Faremo piazza pulita dei traditori, dei rinnegati, dei codardi che hanno voltato le spalle alla nostra gloriosa storia in cambio di un piatto di minestra, o di due fette di salame. Viva Marx! Viva Lenin! Viva la Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche!»
La comunicazione è chiusa. Olena, sguardo di ghiaccio, ritorna nella camera della vecchia.
«Signuora Pina, mi dispiace, devo lasciare voi»
Nonna Pina la guarda e osserva lo sguardo limpido, deciso della russa. Si solleva leggermente, e annuendo dice: «Vai, vai, Natascia» – poi quasi sembrando presagire gli avvenimenti: «Che qualcuno deve fermarlo, quel matto. Sono una cosa mi serve, figlietta mia»
Commossa, Olena risponde: «Certo, signuora, cosa desidera?»
«La padella, Natascia, la padella»

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Natale con Olena (VIII)

Avevano appena lasciato alle spalle l’abitato fantasma di Tromello quando il cinese Po, cacciatore di zanzare con la racchetta elettrica per vocazione e guidatore di risció per necessità, rompe il silenzio che durava ormai da Bosco Marengo e si rivolge al vichingo Svengard:
«Glande uomo del nold, tu essele tliste. Libelati l’animo, pallane con Po»
Non deve destare meraviglia il fatto che i due riescano a comunicare; come tutti sanno all’incirca nell’anno 972 una tribù vichinga, guidata da Erik il giallo, raggiunse le coste di Fanchenggang, colonizzandole; per combinazione Po era proprio originario di quei luoghi, dove il dialetto norreno è la seconda lingua, dopo il mandarino ufficiale.
Il nostro Svengard, tirando il risciò alle cui stanghe si era messo dopo dieci minuti dalla partenza, accusando il cinese di andare troppo piano, racconta la sua storia:
«Devi sapere, mio buon Po, che in gioventù andavo a caccia di anguille. Risiedetti per due anni a Comacchio, un luogo infestato di zanzare dove tu, o Po, avresti fatto fortuna, per imparare l’arte della marinatura. Giravo l’Italia in cerca delle anguille migliori, quando cammina cammina mi ritrovai nella Marca, alla foce del fiume Potenza, nei pressi di un antico ponte detto dell’Asola, dove fin dall’antichità si praticavano lussuria e mercimonio. Fu qui che la vidi.» – sospira il vichingo.
«Vedesti una zoccola, o glande?» – chiede il cinese, giusto per capire.
«Non bestemmiare, Po, zoccola sarà tua sorella! Vidi lei… una visione… una fanciulla dai lunghi capelli rossi, in ginocchio in riva al letto del fiume, intenta a lavare i panni. Feci un passo verso di lei, inciampai su una radice sporgente e le caddi ai piedi.»
«Che imbalazzo! E lei che fece, o glande?» – interloquisce Po.
«Po, figlio di un’antica civiltà, se mi chiami ancora glande ti spezzo le gambe» – dichiara uno spazientito Svengard
«Come vuoi, gla… ehm, glosso uomo» – si corregge prontamente il cinese
«Dov’ero rimasto? Ah, si, le caddi ai piedi. Lei si voltò, meravigliata, e mi ritrovai lungo disteso sotto i suoi capelli rossi ed i suoi occhi verdi. Mi sorrise e mi rivolse le parole più dolci del mondo»
«…? » – Po cerca di incoraggiare Svengard, perso nei ricordi. Svengard si riprende e continua:
«Mi disse: “O coccu, che ti sì cascatu? Ti sì sgramatu tutti li ginocchi, fa vedé a Gilda, và” e per meglio vedere mi sfilò i pantaloni. “Fréchete!”, la sentii dire, ed io mi persi nel suo sguardo. Mi svegliai dopo tre ore, e lei non c’era più. »

Nel soggiorno di casa Rana Gilda si aggira inquieta.
«James?» – chiama l’imperturbabile maggiordomo, che appare in pochi secondi. Appena percettibile, una spruzzata di brillantini tra i capelli.
«La signora ha chiamato?» – chiede con la consueta lucidità il maggiordomo.
«Si, caro. Puoi accertarti che il signore non abbia dimenticato l’evento di stasera?»
«Naturalmente, signora.» – James fa tre passi verso l’interfono con il quale ci si mette in comunicazione con il laboratorio. Dopo tre squilli risponde una voce stizzita:
«Che c’è? Non avevo detto di non disturbare?»
«Chiedo scusa signore, la signora voleva rammentarle la serata di gala di stasera al Rotary»
«La che? Ma dico, James, sei fuori di melone? Di che serata vai cianciando?»
«I dervisci rotanti signore. In favore dei bambini denutriti del Salabucistan»
«Dervisci rotanti? Salabucistan? James, ti avverto che stai portando la mia pazienza al limite. Quante volte devo dirlo che non ne posso più di questa gentaglia che continua a mangiare per sfamare i bambini denutriti? Non ci vado al Rotary! Togliti dalle palle e passami mia moglie»
«Solo un attimo, signore» – risponde James senza scomporsi, e poi rivolto a Gilda: «Il signore desidera conferire con lei, signora»
Gilda afferra la cornetta, e con voce suadente si rivolge al marito:
«Evaristo! Non dirmi che ti sei dimenticato della serata di stasera! Ci saranno tutti, Stefi Sabri Moni Lapo Chris John …»
«Basta Gilda, e che cazzo, ho capito! Pure Lapo c’è? E te pareva, quando c’è da mangiare si ritrovano tutti!»
«Evaristo non essere populista. Sono nostri amici, e io ci voglio andare. Non facciamoci sempre riconoscere»
«Sono amici tuoi, non miei. Fosse per me andrebbero tutti accattoni sotto i ponti»
«Ahah! Allora ci rifai! Dammi una buona ragione per non andare, allora!»
«Vuoi una buona ragione? Una buona ragione?» – sbotta il cavaliere – «e va bene, te la do la buona ragione. Gilda, tu sai cos’è un nanometro?»
«Ma cosa dici, perché dovrei conoscere i manometri!» – risponde Gilda, spiazzata.
«Eppure dovrebbe interessarti. E ho detto nanometro, non manometro. Un miliardesimo di metro»
«Manometri, nanometri, ma chi se ne importa! Evaristo non cercare scuse barbine»
«Secondo te, Gilda cara, perché mai terrei rinchiusi da più di due anni dieci ricercatori precari esperti in nanotecnologie?»
«Ma che ne so io! Te l’ho anche chiesto quando li avresti liberati! E che i pigmei cominciavano ad agitarsi, pensando che li avevi sciolti negli impasti! E dopo tutto questo tempo nemmeno in regola li hai messi? E i contributi almeno glieli hai versati?» – chiede Gilda, preoccupata per le sorti dell’Inps.
«Ma chi se ne frega dei contributi! Facciamo un bel condono e chi s’è visto s’è visto. Gilda, ce l’abbiamo fatta! Ci siamo riusciti!»
«Riusciti? Ma a far che, Evaristo?»
«La scoperta che cambierà il mondo! Inonderemo il mondo di tortellini, di ravioli, di cannelloni, lasagne, agnolotti, cappelletti, nessuno potrà resisterci! Tutti vorranno Rana! Tutti chiederanno Rana! Tutti supplicheranno per avere Rana! I nostri ripieni… domineranno… la terra! » – chiude il cavaliere con una risata insana.

Gilda osserva attonita la cornetta. Indietro di un passo James osserva Gilda, impassibile. Gilda si riscuote.
«James?»
«Signora?»
«James caro, è probabile che il signore sia impazzito»
«E’ possibile, signora. Preparo un caffè?»

 

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Natale con Olena (IV)

Prima di continuare osserviamo un minuto di silenzio in memoria di Everardo Dalla Noce. Ha spaziato dall’economia al softball, un esempio per tutti noi.

«James caro, mi reco un attimo dal mio consorte. Pensi che sia presentabile? » – chiede Gilda al compunto maggiordomo
«Lei è sempre impeccabile, signora» – risponde James, fissando avidamente gli occhiali da sole con  montatura arancio costellata di strass che troneggiano sul nasino di Gilda
«Te l’ho già detto che sei un bricconcello adulatore, vero? A proposito James, il caffè era stupendo, come al solito»
«Troppo buona, signora» – si schermisce con modestia James, ripensando alle due palline marroncine sottratte dalla gabbietta del criceto Ciucci ed aggiunte al Lavazza di Totò.

Nella foresta domestica intanto la colonia pigmea è in subbuglio. Il giovane Gnugnu, orgoglio della tribù per scaltrezza e appetito, è sparito. La cerbottana è al suo posto, così come il randello, ma di Gnugnu nessuna traccia. I pigmei, nell’idioma da loro utilizzato per comunicare, che ad un orecchio non allenato potrebbe richiamare il dialetto di Locorotondo, o anche Martinafranca, commentano la scomparsa.
C’è da dire che nel periodo trascorso presso il cavalier Rana la loro cultura ha fatto notevoli passi avanti, e il loro lessico si è arricchito enormemente: “bono”, “bona”, “cotto”, “crudo”, “passa sale”, “duro” ed al momento studiano i verbi transitivi.
I pigmei sospettano infatti di un gruppo di pastori sardi transumanti, ai quali avevano tentato di sottrarre qualche capo di bestiame senza successo, imparando a loro spese che quando un uomo con un randello incontra un uomo con una pattadesa, quello col randello è un uomo morto o giù di lì.

Gilda scende con l’ascensore nel sotterraneo, che si collega con il laboratorio con un tunnel attraverso il quale passa un treno Maglev guidato da Hidetoshi Nakata, vecchio centrocampista in disuso.
Dopo 5 secondi il treno la deposita sulla banchina sotterranea del laboratorio. Gilda scende con agilità ed imbocca l’ascensore per il piano superiore. All’ingresso del laboratorio avvicina gli occhi al lettore di iride, e la porta si spalanca con un clic appena accennato.
«Amoreee!» – cinguetta Gilda – «Eccomi qua, mi cercavi?»
Il cavalier Rana alza la testa dal tavolo su cui sono sparsi decine di libri di erbe, muschi e licheni.
«Gilda sono un po’ perplesso, mi serve un tuo parere» – dice il Rana
«Ma certo amore, c’è qui la tua Gilda, non preoccuparti. Tra l’altro ti ho portato qualche biscottino di mosto, di quelli che ti piacciono tanto» – dice Gilda svelando il contenuto del paniere che aveva portato con se dalla villa. «Li ho fatti con le mie manine, sono ancora caldi» – in realtà i biscotti provengono dal panificio Sigismondi, via monti Sibillini 23 Serrapetrona, un suo lontano cugino a cui Gilda commissiona una fornitura quotidiana. Il cavaliere ne prende uno e lo morde.
«Mmhh, che bontà! Gilda, tu hai le mani d’oro, ma non devi sciuparle così, come te lo devo dire. C’è la servitù per questo! »
«Non è niente amore, lo faccio volentieri. Vuoi che ti dica qualche parolaccia?» – fa Gilda ammiccante
«Magari più tardi Gilda cara, come avessi accettato»
«Sicuru sicuru porcelló de Gilda tua?»
«Gilda ti prego » – resiste il Rana, slacciandosi il colletto della camicia
«Stanotte non facìi tantu lu schizzinusu, quanno te frustavo le chiappe!»
«Gilda!!! Per favore..» – ansima il Rana. Gilda si ricompone.
«E va bene Evaristo, come vuoi. Tanto lo so che non mi ami più come una volta» – declama una melodrammatica Gilda, portandosi il dorso della mano alla fronte.

I pigmei non credono ai proprio occhi. Una gigantessa con stivali di pelle, un buffo costume ed un roditore scuoiato in testa sta trascinando qualcosa con un sottile cordino di cuoio. Dalla cintura della gigantessa  pende una zucca vuota con cui gli uomini del piccolo popolo sogliono coprire e proteggere le pudenda. Un’occhiata più attenta al sacco informe che viene trascinato suscita un moto di orrore nei suggestionabili primitivi: Gnugnu! Del guerriero vigoroso del giorno prima non è rimasto che l’involucro esterno, pelle avvizzita e cadente, un relitto umano con gli occhi fuori dalle orbite, che muove convulsamente le mani davanti a se, singhiozza e grida “agnagna! agnagna!” che come tutti sanno nel linguaggio pigmeo significa “basta! basta!” . Maleficio! Timorosi i pigmei rinculano, non bene come lo farebbe James ma decentemente.
La gigantessa scioglie la zucca, e la getta ai piedi dei terrorizzati indigeni. Il metro e ottantadue di Olena più tacchi sovrasta gli annichiliti tappetti.
«Finuocchietti!» – li apostrofa sprezzante
«Inginocchiate voi di fruonte a me!» – e per meglio convincerli lancia Gnugnu o quel che ne resta ad una decina di metri di distanza.
I pigmei, convinti, si prostrano.
Olena alza il volto al cielo, ed un raggio di sole si riflette nei suoi occhi azzurri andando a colpire la zucca vuota. Un sorriso di trionfo illumina il suo volto.

«Io suono Oliena, vuostro dio!»

 

Evaristo e il cavalier Rana sono la stessa persona? Cosa sono i biscotti di mosto? Che arti ha messo in pratica Olena per soggiogare i pigmei? Lo scopriremo nelle prossime puntate.

COLBA

Dindoló de la catena

“Dindoló de la catena, chiama a babbu che vène a cena, e se non ce vole vinì, chiudi la porta e lascilu llì!”.

Le istruzioni per eseguire questa filastrocca sono le seguenti: seduti, dovete prendere un bambino, meglio se di età non superiore ai quattro anni, e mettervelo a cavalcioni delle gambe unite tenendolo per le manine; mentre recitate la tiritera muovete su e giù le ginocchia, simulando un cavalluccio:  e sul “lascilu llì!” fingete di disarcionarlo buttandolo all’indietro. Fingete, ho detto. Qualora vi accingiate all’operazione, munitevi di pazienza: il bambino in questione non dirà mai basta. La cosa è stata sperimentata su me e i miei fratelli, e dunque ve la do per assodata.

Forse a prima vista questo ritornello potrebbe sembrare un po’ troppo fiscale, se non addirittura ingeneroso,  nei confronti di quei poveri babbi che magari avrebbero tutte le ragioni del mondo per non venire a cena: ma la regola non ce la siamo inventata.

Nelle famiglie di una volta cenare tutti insieme, come pranzare del resto, era un rito sacro. Alle otto di sera ci si metteva a tavola e non erano ammesse defezioni , se non per cause di estrema forza maggiore. Chi arrivava in ritardo era accolto dal rimbrotto dei genitori, seguito dalla domanda retorica se si fosse scambiata la casa per un albergo, e dalle risatine dei fratelli subito rimbrottati a loro volta. Una volta a tavola, si mangiava quello che c’era.  Conosco gente, molto vicina a me e di stirpe nordica, che si rifiutava di mangiare il minestrone; quel minestrone, e intendo proprio “quel” minestrone, gli venne riproposto tutti i giorni, pranzo e cena, finché la fame ebbe il sopravvento sull’orgoglio. Non essendo spartani ma piceni, da noi non si forzava nessuno: se il menu del giorno non piaceva, si poteva tranquillamente saltare. Anzi, il gesto sarebbe stato ampiamente apprezzato dai  commensali, ma succedeva purtroppo di rado.

Del resto, avendo dei genitori per i quali in tempo di guerra quella di non mangiare non era una scelta, non ci sembrava dignitoso lamentarci. Ed inoltre, essendo nostra madre una brava cuoca, non avevamo molto da recriminare.

Io, ad esempio, odiavo il formaggio sulla pasta, ma non lo facevo pesare. Ancora oggi, se il grana viene mescolato insieme alla pasta nella marmittona o insalatiera, se avete presente, creando quei filamenti che poi si attaccano in grumi ai denti della forchetta, io non godo. Messo sopra invece, a freddo, si.

Mio padre ha tantissime qualità. L’ho già detto e lo ripeto, con le mani sa fare tutto: ha una fantasia per inventare soluzioni, dove altri getterebbero la spugna, che da piccolo mi faceva dire orgoglioso: “babbu mia ‘ccomoda tutto”. Capitò però un giorno che mia madre non fosse al suo posto ai fornelli. Credo per colpa di mio fratello più piccolo, che pensava chissà perché fosse arrivato il momento di venire al mondo. Ora tutti si sentono chef, ma a quei tempi il compito del capofamiglia in cucina poteva essere tutt’al più quello di affettare il prosciutto: abituato a forgiare cancellate e inferriate, babbo non si perse d’animo. Ci propose un piatto che non si poteva definire della tradizione, ma che evidentemente l’aveva molto colpito: gli spaghetti ai quattro formaggi. Burro e parmigiano li ricordo; gli altri due al momento mi sfuggono, escluderei il gorgonzola che alle nostre latitudini era sconosciuto. Per me, che di formaggio non ne sopportavo nemmeno uno, fu un momento difficile. Non volendo dare un dispiacere al pater, nonché il cattivo esempio ai più piccoli, mi tappai il  naso e mangiai il più velocemente possibile. La tattica aveva i suoi rischi, perché poteva essere scambiata per alto gradimento e soggetta quindi ad assegnazione di bis; fortunatamente babbo era già stato generoso con la prima porzione, e di avanzi non ce n’erano. Ebbi l’onestà di non dimostrare rammarico per la mancanza.

Ora si fanno sacrosante campagne pubblicitarie per invitare la gente a non sprecare cibo. Essendo immersi nella cultura dello spreco, la vedo dura. Noi siamo stati educati bene: abituati a non buttare nemmeno l’insalata avanzata macerata nell’aceto, o tantomeno il pane secco, siamo cresciuti nella consapevolezza della fortuna costituita dall’avere il piatto pieno tutti i giorni, più volte al giorno. Se servono certi richiami, però, si vede che non siamo stati zelantissimi nell’applicazione o non molto convincenti con i nostri figli. Cercheremo di rimediare coi nipoti, non vedo l’ora: “Dindoló de la catena…”

(46. continua)

36

Viaggio di un poeta

“Son poeta, e sommo”. Non ricordo se la dichiarazione fosse di Dante Alighieri, o Giobbe Covatta: fatto sta che ad un certo punto anch’io mi ero messo in testa che Euterpe, o Erato, o Calliope, o tutte e tre le Muse insieme, mi avessero baciato.

Il mio amico Franco, compagno di banco delle medie, ricorda distintamente, cosa della quale ho già scritto a proposito di un fallito concorso europeo, del gradimento della nostra professoressa di italiano verso i miei componimenti misti. Inframmezzavo i temi con piccole poesie, come quando scopiazzando il coro del Mercadante per i fratelli Bandiera scrissi : “Chi per il calcio muor / vissuto è assai / il cuoio del pallon / non langue mai”. Solo la tenerezza di un’insegnante che vede crescere i suoi virgulti poteva premiare simili boiate, ma certo non stava a me lamentarmi. Franco, vedendo che la cosa funzionava, tentò di imitarmi ma la prof non abboccò. Le sue rime, non del tutto disprezzabili a mio parere, non incontrarono tuttavia il favore del pubblico: un perentorio  4 suggellò la diffida  a riprovarci.

A quei tempi non si usavano gli eufemismi attuali: “buono”, “buonino”, “sufficiente”… un 8 era un 8, e un 4 un 4. Potrà sembrare un’età cinica, ma che un cieco fosse “non vedente” ci sembrava scontato; che un paralitico fosse “diversamente abile” era tutto da dimostrare.

Con Franco avevamo in comune una timidezza di fondo, bilanciata da una enorme grinta. Io ero una mezzala, se siete pratici. Correvo molto, senza combinare granché. A volte giocavo da mediano, e allora avevo licenza di randellamento. Il mondo era semplice: zone e diagonali erano solo concetti geometrici, noi prendevamo un uomo e precorrendo i tempi  lo sposavamo fino alla fine della partita; Franco era un terzino, e dunque gli toccavano le ali. Le ali (Causio, Claudio Sala, Bruno Conti… ) erano quei folletti dispettosi la cui missione era quella di far impazzire i terzini che li avevano in cura, spesso irridendoli con finte e controfinte, per arrivare con la palla fino al termine del campo da dove inventavano parabole perfette per gli attaccanti. Ora non ne fabbricano più.

Credo che fosse proprio in casa del Castelraimondo del mio amico Sandro che l’avversario gli fece un tunnel. Un tunnel, per i profani, è quando incautamente lasci le gambe aperte (l’atto come saprete è ammesso nei luoghi opportuni e con parsimonia) e ti ci fanno passare la palla sotto, lasciandoti alquanto imbarazzato. Nell’azione successiva il reo ci riprovò. Franco lo aspettava: lo fece sfilare e poi lo giustiziò con una scivolata da dietro, resa ancora più plastica dal campo bagnato. Secondo noi era tutto regolare ma l’arbitro, forse condizionato dai contorcimenti del caduto, era dell’opinione opposta e lo ammonì. Il tempo per il poverino di rialzarsi e riavvicinarsi al mio amico con qualche titubanza, che i suoi compagni commisero lo sbaglio di passargli la palla. Credo fosse solo per liberarsene che la buttò avanti e cercò di andare a riprenderla; se quella era la sua intenzione, non poté concretizzarla. Franco l’aveva già atterrato, con un’entrata fotocopia della precedente accompagnata stavolta da un sorriso compiaciuto, ma prendendolo sull’altra gamba. Legge e giustizia non sempre vanno a braccetto: e se pure la punizione era stata giusta, la legge però era a sfavore di Franco, che venne espulso. Perdemmo la partita, ma acquisimmo molto rispetto.

Il nostro allenatore usava un metodo per caricarci davvero singolare: sotto ai sedili posteriori della sua bianchina familiare teneva una collezione di giornalini. Non pensiate chissà che, roba che oggi si potrebbe vendere in parrocchia: i migliori fra tutti erano il Lando (con la faccia di Lando Buzzanca) e il Tromba (con le fattezze di Adriano Celentano nelle vesti di un idraulico), che andavano per la maggiore anche a militare. Risate ce ne facevamo tante: che la lettura ci rendesse più aggressivi, non credo.

L’ultima poesia, credo della mia vita ma chissà, la scrissi qualche anno fa. E’ in dialetto, ma abbastanza comprensibile. Era stata una giornata un po’ faticosa ed avevo corso dalla mattina alla sera; nell’ultima strofa, ogni riferimento a persone esistenti o fatti accaduti è puramente casuale.

‘Na jornata tranquilla

Curri, curri, la sveglia ha sonato,
arzete, daje, cala dallu lettu.
Incubu! Penza, stanotte o sognato
che jìo a fadigà senza esse costrettu.

Sgrighete, sbrighete, è pronto lo latte:
te lavi? Che spetti? Sfreca ‘ssa faccia!
Vestete, su, stai ancora in ciavatte?
Rtròete li pagni (co lu ca’ dda caccia).

Lestu, lestu, che parte lu trenu,
lu sinti lu fischiu? A piedi, te lascia.
Fermatilu, sverdi, tirate lu frenu!
Lu postu? ‘Na grazia, Santa Rita da Cascia.

Camina, camina, li squilli ho sintito,
entra, rispunni, non fa che rettacca;
clienti, lamenti, “Il problema ha capito?”,
reclami, ritardi, la testa se spacca…

Jìmo, Jìmo, adesso se magna.
Pasta? Secondu? Compà, te lo scordi.
In piedi, un paninu, non fa tanta lagna:
la linea manteni, e sparambj li sòrdi.

Scatta, scatta, lu capu è ‘rriatu:
te vole, te cerca, chiama a rapportu.
Rispunni: “Presente!” come un sordatu.
Ne ferie, ne aumenti: oddio, che sconfortu!

Forza, forza, per ogghj è finita.
Lu tramme non passa? Cumincia a ‘vviatte.
Sciopero: certo, ce sta la partita:
loro la vede, de me, se ne sbatte.

Veloce, veloce, se jaccia la cena.
A ‘st’ora se ‘rrìa? Un po’ de creanza,
armeno ‘vvisassi, m’ì fatto stà in pena!
E magna de meno, te cresce la panza!

Mùite, mùite, cambia canale,
de che voi discorre, ce scade la rata?
Te prego, me vojo vedé la finale,
cuscì tu me voi ‘vvelenà la serata!

Veni, veni, sò tutta un bollore,
spòjete, ‘bbracceme con sintimentu,
basceme, caru, facimo l’amore…
Embè? Tutto qqua? Ma ‘spetta un momentu!

Como, 15 marzo 1999

(42. continua)

viaggiodiunpoeta

Viva le lasagne!

Con motu proprio stamattina il mio sopracciglio sinistro si è alzato. Sbirciando il giornale del mio compagno di viaggio (il mio non riporta certe notizie, siamo su altri livelli) un titolo in evidenza l’ha costretto a questa intemperanza, a cui non è solito indulgere: “Genitori contro lasagne e polpette”.

Detta francamente, e con rispetto per la posizione dei suddetti, mi è sembrato un comportamento contro natura. Cioè, si può essere contro il buco dell’ozono, lo scioglimento dei ghiacciai, l’estinzione dei panda ma una battaglia contro lasagne e polpette non mi troverebbe al fianco dei promotori.

Nemmeno mio nonno Gaetano, credo, ne sarebbe stato entusiasta. Tornato dalla guerra d’Africa (dove ricorderete era partito inaugurando il vestito bianco) dove la prigionia e la malaria l’avevano ridotto pelle e ossa, dovette assoggettarsi tutta la vita ad un menu di patate lesse, carote lesse, e pollo (lesso). Tenendo conto che mia nonna era cuoca, un bel supplizio. Nella dieta stranamente era ammesso il vino, credo come disinfettante. Avrei sconsigliato qualcuno dal perorare un boicottaggio di piatti conditi, siano primi o secondi, in sua presenza.

Da noi le lasagne si chiamano vincisgrassi e l’Unesco a mio parere dovrebbe proclamarli patrimonio dell’umanità. Quelli di mia madre, sicuramente.

Da piccolo, nella nostra casetta, capitava che avanzasse del pane e venisse posto a seccare. Il pane secco non si butta, è un peccato mortale: mio padre ancora oggi ama farci colazione. Qualche pomeriggio, per merenda, questo pane avanzato veniva ammollato con l’acqua e condito con lo zucchero; oppure con olio e aceto. Mio fratello, piccolino, non deve aver vissuto tali variazioni al regolamento con animo sereno: ancora oggi sostiene che ci veniva dato quando non c’era nient’altro da mangiare.  Non mi sento di escluderlo: comunque una zuppetta di pane e zucchero non ha mai fatto male a nessuno.

Tornando al casus belli, sembra che in precedenza in qualche piatto siano state trovate tracce di peli di cotenna (di maiale). La protesta fortunatamente non parte da pregiudizi religiosi altrimenti qualche parte politica facinorosa se ne approprierebbe per propugnare menu a base di cotenne pelose, ma esclusivamente sul merito della composizione dei ragù.

In tempi meno opulenti il dialogo sarebbe stato: “C’è un pelo!” “Scansalo e mangia” “No, non mi va più” “Lascia lì, che mangio io”. Il senso di colpa del lasciare cibo nel piatto mentre nel mondo chissà quanti bambini stavano morendo, in quello stesso preciso momento, di fame, impediva il reiterare di capricci. Per noi poi che eravamo in quattro più che fare storie bisognava essere veloci a finirlo, quel che c’era: gli altri non avrebbero avuto pietà.

Un altro punto di vista, fatalista ma non privo di verità, era: “quello che non strozza, ingrassa”. A parte che il concetto di strozzare varia da persona a persona: ad esempio qualcuno potrebbe essere refrattario alle carrube (teche marine si chiamano da noi, chissà perché; cronache antiche riportano che fossero vendute da Pietro de Claudina, insieme alla lavanda africana), e qualcun altro andarne ghiotto perché gli ricordano i bei tempi; il kebab nutre milioni di turchi, ma col sottoscritto è incompatibile. Detto ciò, concordo che magari dal punto di vista nutrizionale una setola di porco non valga granché ma come dire, non c’è ciambella senza buco ne cotica senza pelo.

A proposito di carrube, mi è venuto in mente che quando da piccolo mio padre mi portava a vedere le partite, c’erano i venditori di lupini, semi di zucca e appunto carrube; sono sempre stato un ammiratore dei virtuosi del lupino e seme di zucca. In entrambi i casi, si tratta di togliere la buccia senza l’uso delle mani; l’operazione va fatta con i denti e con la lingua, e la buccia deve essere rigorosamente sputata nel posto antistante. Come esecutore ero scarso, e una buccia su due la mangiavo. Le carrube però proprio non mi piacevano, a mio padre invece ricordavano le fiere di gioventù.

Mi capitò negli anni ’80 di andare a cena, con la mia futura dolce metà, in un ristorante storico di Milano, “La mamma”, vicino al Piccolo Teatro. All’ingresso c’era un cartello che diceva ”attenti alle tartarughine” e quindi entravi in questo locale buio con cautela, guardandoti i piedi: così concentrato non ti accorgevi dell’arrivo del gestore (uomo) che ti urlava un “Buonasera! Io sono la mamma!” facendoti sobbalzare. L’antipasto veniva servito in un vaso da notte, dei pezzetti di bologna e grana; e come frutta, appunto, le carrube, sempre in un vaso da notte. Il locale era tappezzato da foto di gente famosa, e sinceramente pensammo che fossero millanterie per impressionare i turisti. Con sorpresa ma anche tenerezza anni dopo sentimmo addirittura al telegiornale che il locale storico aveva chiuso i battenti. E le tartarughine?

Tornando alle lasagne, credo che l’unico motivo sensato per cui esse, con o senza peli, dovrebbero essere proibite ai bambini sia un altro ma quei genitori, lo dico con rammarico, non ne hanno accennato.

Le lasagne non sono un piatto normale. Sono un piatto della festa. Della domenica, e non di tutte le domeniche ma solo di quelle importanti, un piatto da mangiare tutti insieme in famiglia, un piatto che da solo mette allegria e voglia di stare insieme. Non si può far assurgere un semplice mercoledì, per dire, a livello di domenica. Altrimenti va a finire che ogni giorno è domenica, col risultato di passare le domeniche negli abominevoli centri commerciali. A mangiare, ancora, lasagne e polpette.

(34. continua)

madonna_carrube

Ciao, nì

Mio nonno si chiamava Ernesto Torres e veniva dall’Argentina. Non state a chiedervi come mai non mi chiami Torres anch’io: la storia è lunga, e merita una trattazione adeguata. Magari anche la sceneggiatura di un film, se il pargolo ne ha voglia.
Non l’ho mai conosciuto, essendo scomparso (nel vero senso della parola) verso la fine della seconda guerra mondiale; le sue tracce rimanevano nel modo in cui i vecchi si rivolgevano a mio padre: Nino de Torisse. Inter nos, il vero nome sarebbe Amleto, che la dice lunga sul livello di cultura del nonno; essendo però un po’ troppo complicato per il popolo, come spesso capitava venne storpiato: Amleto-Amletino-Nino e Nino rimase.
C’è anche da dire che Nì, come saprà chi ha seguito le gesta di Renato Zero, era il modo di chiamare tutti i bambini (“Nì, veni da mamma”; “Curri Nì, ch’è tardi”), quindi può darsi che il passaggio sia stato semplicemente Nì-Nino.

Quando ero bambino io, Nino Benvenuti era campione del mondo di pugilato nei pesi medi. Che Nino fosse sinonimo di forza, era fuori discussione.
Una sera Benvenuti venne al paese a fare un’esibizione. Aveva battuto da poco Emile Griffith, un leggendario pugile di colore, al Madison Square Garden di New York. Era la terza sfida tra i due; nella seconda Benvenuti era stato sconfitto dopo aver combattuto quasi tutto l’incontro con una costola rotta. Queste esibizioni erano un modo, per i professionisti, di guadagnare dei soldi extra; ne facevano magari due o tre per sera, in posti diversi. A quei tempi del resto la boxe era seguitissima. Il ring venne allestito nella piazza, strapiena tanto che i bambini venivano issati sulle spalle dei genitori.
Finalmente, dopo vari incontri minori, arrivò il momento atteso e lo speaker annunciò: Nino Benvenuti contro Emile Griffith! Onestamente, sussistono seri dubbi sul fatto che il nero sul ring fosse proprio Griffith: Benvenuti ad ogni modo si concesse al pubblico in tutti i modi, gigioneggiò con tanto di inseguimento all’arbitro e sconfisse lo sfidante-complice nei tre round regolamentari. Qualcuno ora, in tempi decisamente effeminati, potrebbe obiettare che lo spettacolo non si addicesse ad un bambino. Palle.
Gli sport popolari erano tre: calcio, pugilato e ciclismo. Si intuisce il perché: non servivano palestre (nemmeno per il pugilato: bastavano gli scantinati) ne piscine ne attrezzature costose. Cuore, sudore, fatica. Infatti avevamo campioni a bizzeffe.
Pensare che un bambino potesse diventare violento assistendo ad un match di boxe è fuori dalla realtà. Tutt’altro. Si ammirava la preparazione, il coraggio, la tecnica; si imparava a riconoscere i colpi (gancio, diretto, uppercut); ci si immergeva nella pedagogia di questo sport (si combatte tra pari peso; niente colpi bassi; non sempre la forza bruta ha la meglio sulla bravura).

Questa tolleranza, diciamo, forse dipendeva anche dal fatto che i luoghi dello sport erano molto maschili. Virili, direi. Cioè, io non ricordo mamme alle partite di pallone mie o anche dei miei fratelli, pur più piccoli. Discrete, si informavano del risultato una volta tornati a casa, preoccupate che non lasciassimo magliette o calzettoni sudati a macerarsi dentro i borsoni. C’era solo la zia nubile di un coetaneo di mia sorella che si faceva riconoscere, con urli e commenti fuori misura.
Ora invece palestre, piscine, palazzetti, sono territorio di madri in perenne ansia; con mariti magari contenti di aver sbolognato, in un colpo solo, figli e mogli per un paio d’ore.

Se babbo era figlio de Torisse, peraltro, io ero figlio de Nino; ognuno di noi prima di diventare Giorgio, o Marco, o Stelvio era “figlio di”: quando incontravi un adulto infatti la domanda era “de chi sì figliu?” che era anche un modo di inquadrarti in base alla genealogia. Spesso al nome del padre si aggiungeva la professione: e allora diventavo lu figliu de Nino lu ferrà.
Mestiere tra l’altro rispettato, essendo stato del padre del Duce; pur non avendo la cosa influito sulle mie future convinzioni politiche, mi rendeva tuttavia orgoglioso.
Anche la madre era tirata in ballo, di solito quando la richiesta di identificazione partiva da altre donne: “o nì, che sì lu figliu de Ida (la sarta, facoltativo)?”.

Fu con animo travagliato che assistetti alla fine della carriera del Nino nazionale. Da un lato il dispiacere che accompagna il declino di un beniamino di gioventù. Ma almeno aveva perso con un argentino, qualcuno di famiglia.

(18. continua)

ciaonì