La Nato spianerà le buche di Roma!

Per far fronte all’emergenza buche l’amministrazione capitolina ha deciso di ricorrere alle maniere forti e di chiedere l’intervento dell’esercito. A mali estremi, estremi rimedi! Purtroppo, al momento della mobilitazione, ci si è accorti che non ci sono abbastanza soldati per l’opera meritoria, perché a parte quelli che abbiamo in giro per il mondo a cercare di mantenere un minimo di pace tra vicini riottosi o a volte ad aiutare ad inculcare la democrazia, quelli impegnati a presidiare i punti sensibili delle città in funzione anti-terrorismo, quelli impegnati in funzione anti-mafia, per le emergenze non ne rimangono tanti, e dire che tra incendi, terremoti, inondazioni e frane di lavoro ce ne sarebbe parecchio.
L’esercito sembra che non lo voglia nessuno, ma poi tutti lo invocano. Strano fenomeno!

Quanto avrebbe fatto comodo in questi tempi di buche e monnezza incendiata un bell’esercito di leva! Che magari si sarebbe potuto chiamare guardia nazionale, all’americana, o leva civile con funzioni di prevenzione e protezione appunto civile.

Trovandosi quindi in deficit di organico, l’esercito è stato costretto a chiedere aiuto agli alleati della Nato, che si sono detti felicissimi di spianare le buche di Roma, del resto l’hanno già fatto nel l’43, e persino i sette colli se occorre.

Qualche voce solitaria si erge a dire che forse basterebbe assumere qualche stradino o cantoniere, o dotare di pala e bitume i tanti pensionati pubblici che girovagano per l’Urbe, o magari aggiungere una postilla al reddito di cittadinanza: “obbligo pala”, come quando per l’assunzione di un violino alla Scala si mette “con obbligo di fila”. Oppure che le ruspe salviniane, magari affiancate da betoniere e rulli compressori, entrino in azione per obiettivi più impegnativi che campi Rom o baracche di disgraziati. Ma si tratta di bastian contrari, retrogradi che niente hanno a che fare con la modernità.

Dunque avanti, Savoia! Le brecce non ci mettono certo paura: le colonne corazzate non si fermeranno finché i Fori Imperiali non saranno completamente asfaltati. Tappare, e tapperemo!

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p.s. non vorrei sembrare affetto da paranoia, ma veramente mi sembra che la foto-montaggio con il pesce sia stata scattata a Como. Quello mi sembra viale Roosevelt (guarda a volte il caso) ma potrei sbagliare.

 

 

Roma immortale!

In occasione della prossima marcetta su Roma¹, mi sono reso conto che lo Stato Pontificio ha un proprio Inno. Tra l’altro non male, non marziale come quello della ex Unione Sovietica o temibile come il Deutschland Deutschland über alles, ma con una sua forza espressiva. Il compositore fu Charles Gounod e fu eseguita per la prima volta nel 1869, ma dovette aspettare un bel pò di anni per soppiantare la vecchia  Marcia Pontificia di Hallmayr, perché nel frattempo erano arrivati i piemontesi. Se ne riparlò nel 1949, dopo ottant’anni sembrava che i preti si fossero fatti una ragione della separazione tra Stato e Chiesa, ma si sa che i tempi della Chiesa sono lunghi. Ancora oggi sull’Imu se la prendono comoda: a pagare e a morire, del resto, c’è sempre tempo.

Versione originale italiana dell’Inno Pontificio
del testo composto da Mons. Antonio Allegra

Roma immortale di Martiri e di Santi,
Roma immortale accogli i nostri canti:
Gloria nei cieli a Dio nostro Signore,
Pace ai Fedeli, di Cristo nell’amore.

A Te veniamo, Angelico Pastore,
In Te vediamo il mite Redentore,
Erede Santo di vera e santa Fede;
Conforto e vanto a chi combatte e crede,

Non prevarranno la forza ed il terrore,
Ma regneranno la Verità, l’Amore.

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¹ Niente di cruento, per carità. Con il coretto di cui faccio parte parteciperemo ad un convegno insieme a qualche migliaio di altri cantori provenienti da tutto il mondo, in occasione della festa di S.Cecilia patrona dei musicisti. Nel mio caso sia il titolo di cantore che di musicista sono usurpati ma tornare a Roma, qualunque ne sia la ragione, è sempre un piacere. Guiderò un drappello agguerrito di coriste, spero di tornare a casa sano e salvo.

 

Niente sushi per Olena – 13

Dedico questo pezzo ad un amico alpino, classe 1932.

Nonna Pina scruta le lontane montagne innevate. Un velo di tristezza le offusca per un attimo la vista, ma subito si riprende e rischiara la voce, sciogliendo il groppo che le si è formato in gola. Lentamente, a voce bassa, si rivolge ad Olena:
«Natascia, te l’avevo mai detto che ho un fratello in Russia?»
Lo straccio con il quale Olena sta pulendo la sua arma rimane a mezz’aria e la russa, sorpresa, si  volta verso la centenaria.
«Davvero, Babushka? Non sapevo voi avete fratello, dove trovare lui?»
Nonna Pina ignora la domanda, e seguendo il filo dei suoi pensieri inizia a raccontare:
«Eh sì, sono già settantacinque anni che è in Russia»
«Settantacinque anni Babushka? Deve essere molto anziano anche lui, allora»
«Al contrario Natascia, il mio fratellino è molto giovane»
«Non capisco, signora, come può essere giovane? Deve avere…» – Olena, confusa, fa due calcoli – «… deve avere almeno cento anni!»
«E pensare che non volevo farlo partire… come è buffa la vita»

Olena si siede in silenzio, con le gambe incrociate, per non disturbare nonna Pina nei suoi ricordi.
«Mario è più piccolo di me di cinque anni… io del ’14, lui del ’19. Quando entrammo in guerra, fu arruolato negli alpini. Io mi offrii di fargli ottenere un posto al sicuro qua, in Italia, sfruttando le mie conoscenze… ma lui niente, non volle, testardo. “Con che faccia potrei guardare i miei amici”, mi disse… dovevi vederlo che figurino, con la sua bella divisa ed il cappello con la penna nera in testa! A quel tempo si era anche fatto crescere un pizzetto, le ragazze ci andavano pazze, ma lui non si voleva legare, troppo presto diceva, mi voglio godere la vita…» Pina prende fiato, e sospira.
«La guerra doveva durare poco… e invece… qualche mese dopo la sua divisione venne mandata in Albania, e da lì in Grecia. E poi in Russia…»
Pina, ormai persa nella sua storia, continua quasi parlando a se stessa:
«Alpini in Russia… che follia! Loro che amano le montagne, a combattere nelle sterminate pianure russe…»
Olena annuisce, ripensando ai racconti dei suoi genitori.
«E’ stata grande tragedia per tutti, Babushka…»
Pina muove una mano nell’aria con fastidio, a scacciare parole che suonano ormai vuote.
«Gli alpini sul Don… il crollo del fronte, la ritirata, l’accerchiamento…»
«Soldati italiani si batterono come leoni, ma quella era nostra Patria, Babushka…» osserva Olena con rispetto.
«Ah, lo so, lo so!» dice orgogliosamente nonna Pina «Non ce l’ho mica con i tuoi compagni, sai, Natascia? Hanno fatto quello che andava fatto, quando c’è chi ti vuole imporre la sua presenza con le armi. E nemmeno il mio Mario ce l’aveva con loro, sai? Combatteva perché doveva, per portare a casa la sua pelle e quella dei compagni»
«Guerra brutto affare, Babushka…»
«E poi venne quel 26 gennaio del ’43… russi dietro, russi davanti… dovevano sfondare, o sarebbero morti tutti. Che potevano fare? E la divisione del mio Mario, la Tridentina, attaccò…a Nicolajevka»

Pina si ferma, gli occhi appena visibili sotto la fitta rete di rughe delle palpebre. Fissa Olena negli occhi, cercandovi un riflesso del gelo di quel gennaio.
«Sei mai stata a Nikolajevka, Natascia?»
«No, Babushka. Io vengo da Siberia, quattromila chilometri lontana»
Nonna Pina sorride amara:
«Quattromila chilometri… e noi pensavamo di invadervi…» poi con un tono dolce, fragile:
«Natascia, ti posso chiedere un favore?»
«Certo Babushka, tutto quanto volete»
«Quando quest’affare sarà finito, mi accompagni da Mario? Mettiamo un fiore e torniamo»

Olena alza il volto al sole, con gli occhi blu straordinariamente lucidi.
«Io prometto voi di si, Babushka»
La nonna, soddisfatta, sorride, si batte una mano su una coscia e dice:
«D’accordo, allora. Ah, e naturalmente viene anche James. Lui ci sa fare con i fiori»

 

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E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’

Nell’estate del 1980, quando Gianni Togni spopolava con la canzone “Luna”, io stavo felicemente servendo la patria cercando di essere il più possibile credibile, per non farmi sopraffare da militari coetanei e spesso più vecchi per niente disposti a farsi comandare da uno come me, e soprattutto a cercare di non fare troppo la figura del fesso con i marescialli del reparto, i veri dominatori della caserma.

Per sembrare più autorevole mi ero fatto crescere una bella barbetta, che mi donava qualche annetto in più e secondo me non stava male, correggendo anche una piccola sfuggevolezza del mento.¹
Dopo i sei mesi di addestramento a Sabaudia, ero stato mandato in servizio, che durava nove mesi, in una sede alquanto disagiata: Rimini.
Credo immaginiate tutti come le estati a Rimini possano essere un inferno; specialmente poi se alle 17, se non si era in servizio, si poteva andare in spiaggia; ed ancora di più la sera, fino al contrappello di mezzanotte, che per chi non è pratico è la conta dei presenti. Chi non si presentava in tempo veniva messo in punizione, che consisteva di solito  nella consegna ovvero  nell’obbligo di non uscire dalla caserma, o nei casi più gravi dalla camerata.²
Come ufficiali, dirlo adesso mi fa un po’ ridere, rispetto alla truppa eravamo privilegiati; innanzitutto il nostro stipendio non era di quelle striminzite 1000 lire al giorno che spettavano ai soldati di leva, ma era decente tanto che mi permise di mettere da parte qualche soldino (che poi spesi tutto nei primi mesi di lavoro a Parma per pagarmi vitto e alloggio) e godevamo di altri privilegi, come il circolo e la mensa Ufficiali; quest’ultima era situata nella caserma dell’Aeronautica, che era abbastanza lontana dalla nostra; gli aviatori ci squadravano un po’ con la puzza al naso, specialmente quelli di complemento come me che erano solo di passaggio, ed eravamo considerati un po’ dei parvenu.
Nella mensa ufficiali imparai a sbucciare la frutta con il coltello senza prenderla in mano; abilità utilissima in società ma che, non praticando da decenni, ho perso. Adesso se devo sbucciare un’ arancia prima la mordo e poi la sbuccio con le mani, tipo Manfredi in Pane e Cioccolata.

Tanti amici mi hanno chiesto nel tempo perché avessi fatto domanda per fare l’ufficiale. Non ero di certo un militarista, e anzi non avevo nemmeno grandi attitudini militari, in realtà credo di essere risultato agli ultimi posti del mio corso. Non lo sapevo nemmeno io: per la paga, senz’altro; ma soprattutto perché ingenuamente pensavo che se proprio dovessi essere comandato da un coglione, tanto valeva che quel coglione fossi io; non avevo considerato che nella catena di comando di coglioni se ne possono trovare ad ogni gradino ed a iosa; questo vale ovviamente anche nella vita civile, ma se capita da militare non c’è sindacato a cui appellarsi.³

Il 2 agosto 1980 era una giornata normale, una domenica. Il nostro unico pensiero era quello di arrivare a sera, toglierci la divisa ed andare in spiaggia, quando arrivò la notizia: alla stazione di Bologna era scoppiata una bomba.

Ricordo il senso di sbigottimento, lo sbalordimento davanti alla barbarie che era stata commessa, le notizie arrivavano a sprazzi ed i morti e feriti aumentavano sempre più: colpiti ragazzi, famiglie, turisti, gente normale che andava in vacanza o tornava a casa; ricordo la preoccupazione per i commilitoni, che non ne fosse stato colpito qualcuno che andava in licenza; l’angoscia delle persone care, ricordo che mi chiamarono da casa per sapere se stessi bene, io che non avevo nessuna ragione di trovarmi là, figurarsi la trepidazione di qualcuno che aveva una persona cara in viaggio.
Avevo appena vent’anni, come i miei compagni di Bologna che furono chiamati a prestare i soccorsi, soldatini di leva sbalzati in mezzo all’orrore ed alla distruzione; si rimboccarono le maniche piangendo, fecero quello che c’era da fare, avremmo potuto essere tutti lì ed avremmo fatto tutti le stesse cose. Li ringrazio e li abbraccio, dopo tanti anni.

Non mi addentro nella storia, che come tutte le stragi di quella troppo lunga stagione italiana è costellata di depistaggi, connivenze, omertà; di pezzi dello stato che operavano contro lo stato; a distanza di quasi trent’anni si è riusciti ad avere una sentenza giudiziaria definitiva per gli esecutori, ma è notizia di pochi giorni fa che la procura inquirente ha deciso di archiviare l’indagine sui mandanti.

Io non lo trovo giusto. In questi casi non si può ballare tarantelle di “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. Uno Stato degno di questo nome deve avere la forza di andare fino in fondo e scovare le verità “vere”, non quelle di comodo per chiudere la vicenda purchessia.
Lo deve in primo luogo alle vittime ed alle loro famiglie, a tutti quelli che ne furono colpiti direttamente e indirettamente, a tutti quelli che si prodigarono negli aiuti e si videro cambiare la vita, a quelli che si trovarono a scavare tra le macerie sentendo che solo per caso non era toccato a loro. Lo si deve a tutti quelli che hanno servito questo paese, anche se per un brevissimo tempo, e vogliono continuare ad essere orgogliosi di essere Italiani.

(154 – continua)

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Note.
¹ Purtoppo alla mia consorte non piace altrimenti me la farei ricrescere.
² O almeno credo che fossero quelli gli orari, ma la parte di neuroni relativa a quel periodo si è cancellata come una scheda SD difettosa.
³ A mio avviso qualcuno di noi avrebbe potuto essere utilizzato nell’amministrazione dello Stato, non necessariamente militare, anche alla fine del servizio. Tipo una scuola per funzionari statali, tipo quella francese. Mi sembra uno spreco non sfruttare le risorse quando ci sono.
³ La foto allegata potrebbe essere del mio collega Riccardo Malagigi. Lui c’era, e non credo che lo dimenticherà più.

Bromuro

Ai miei tempi per molestare le tedesche non c’era bisogno di andare fino a Colonia. Venivano qua di loro spontanea volontà ben sapendo quello che sarebbe loro accaduto, e se non fossero state molestate almeno un po’ ci sarebbero rimaste  male.

Colonia è una bella città della Germania Ovest. Ci sono stato di passaggio verso l’Olanda qualche anno fa (chi ne avesse la curiosità potrà leggerne la cronaca qua) in vacanza in agosto, e la città mi era piaciuta molto: il maestoso Duomo, il curatissimo e invitante lungo-Reno con tanti locali per mangiare e bere, la città vecchia con il bel municipio, il più antico della Germania. La città è stata pesantemente bombardata nella seconda guerra mondiale: gli operosi teutonici hanno ricostruito tutto com’era e dov’era. Ricordo che appena iniziato il nostro giro di visite ci fermammo presso un carrettino  per ristorarci con un Berliner, il bombolone tipico ripieno di tanta marmellata: l’eccesso della quale rotolò sulla maglietta immacolata costringendomi a girare impataccato tutto il giorno. La cosa non dispose bene il mio animo; per fortuna poco dopo ci fermammo ad un chioschetto e conobbi la birra tipica, la Kölsch, che servono in bicchierini da 0,2 l, che costava ridicolmente poco. L’animo, dopo un paio o forse tre bicchierini, si rasserenò.

La calata estiva delle tedesche, diciamo delle nordiche in generale, molto più avanti in fatto di emancipazione sessuale, destava sempre una certa attesa speranzosa. Non so se sia mai stato misurato il livello di testosterone presente in una caserma, con centinaia di ragazzi di venti anni che in larga parte non erano mai usciti di casa ne tantomeno avuto rapporti sessuali se non con se stessi: per questo si diceva che al latte della colazione venissero aggiunte abbondanti dosi di bromuro per raffreddare i bollenti spiriti, ma non posso confermarlo.

I prodi soldatini, l’ho già detto da altre parti, per essere molesti erano molto molesti, sia fuori che dentro la caserma; ma sapevano bene che c’era un limite tra l’importunio e l’allungamento non autorizzato delle mani, se non di altro. Anche se, diciamocelo, non è che per allungare le mani si possa sempre chiedere il permesso. Specialmente se si era in uno contro uno a volte ci si sentiva anzi in dovere di provarci, magari lei se l’aspettava e si sarebbe fatta la figura del fesso se non peggio: se la và, la gà i gamb, altrimenti si prendeva il meritato schiaffone e si batteva in ritirata. Ma quando la proporzione tra assalitori e difensori non veniva rispettata, la cosa allora come oggi era grave e dalla molestia si passava alla vigliaccheria.

Posso testimoniare che in nove mesi di servizio militare a Rimini, come sottotenentino, non arrivò mai in caserma una denunzia del genere: anzi da ufficiale di giornata, che è quel valoroso che a turno con altri valorosi indossa una fascia azzurra a bandoliera e in virtù di ciò controlla che le sentinelle non si addormentino permettendo così intrusioni o evasioni (nel nostro caso non si trattava di carcerati ma di artiglieri che avrebbero gradito prolungare la libera uscita); vigila inoltre sull’ordinato rispetto della coda in mensa (-“E state in fila, coglioni! Che cazzo fate voi due? Muccillo, lascia stare a Francia!” – “O tenè, ‘stu fitusu voli passari innanzi. A mia nuddu me passa innanzi!” -”Francia, ‘mo sò cazzi tua. Muccillo tienilo, che lo piglio a calci in culo” _ noterete l’elegante intercalare virile, indispensabile per farsi comprendere da tali cercopitechi_ ) e schiera al più presto la guardia per rendere i saluti a qualche pezzo grosso in visita (facendo finta di cadere dalle nuvole, quando in realtà sarà stato avvisato almeno una settimana prima);  in questo periodo, dicevo,  gli unici reclami furono di due vichinghe alla ricerca di due intraprendenti camerati, o in linguaggio più politicamente corretto commilitoni, che le avevano sedotte,   consenzienti e soddisfatte precisiamo,  rilasciando precauzionalmente false generalità. Mazzini Giuseppe e Foscolo Ugo avrebbero dovuto insospettire le due biondone, secondo me: ma evidentemente non era la cultura classica il loro forte. Anche l’identikit fornito non fu esauriente (non molto alti, occhi scuri, capelli neri, pelle scura: mezza caserma rispondeva alla descrizione e io stesso a parte il colore degli occhi da abbronzato sarei stato un sospetto) e la ricerca non diede quindi risultati. Lo dico solo per la cronaca, l’occupazione principale della guardia quando non era in giro a fare ispezione era quella di sfogliare giornaletti sconci.

Fra qualche giorno a Colonia ci sarà il Carnevale, uno dei più belli di Germania, e visto quel che è successo a Capodanno mi permetto di dare un suggerimento alle autorità preposte: usate il bromuro. Mettetelo dove volete, nei Berliner, nella Kölsch, nei Kebab, ma usatelo: meglio prevenire che curare.

(80. continua)

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Macchie

E’ indubbio che un atteggiamento fiducioso e ottimistico predisponga alla risoluzione dei problemi meglio di uno pessimista e rinunciatario. L’ottimismo della volontà, slogan di un noto statista milanese (rubato a Gramsci). Purtroppo per lui, essendosi circondato da gente che non si limitava a rubare slogan, finì latitante, o esule a seconda dei punti di vista, ad Hammamet, dove prevalse il pessimismo della ragione.

Non so se conoscete le macchie di Rorschach. Sono delle tavole, su cui sono stampate appunto delle macchie di colore, che in mano a psicologi esperti riescono ad evidenziare aspetti della personalità del soggetto. Magari il grande pubblico le avrà orecchiate grazie al fumetto “Sturmtruppen” di Bonvi, dove un soldato veniva sottoposto a questo test e in ogni macchia individuava una donnina nuda; ma quando poi al posto della macchia gli veniva mostrata la foto della suddetta  se ne andava sconsolato, ripetendo:  “sempre guerra, sempre guerra…”.

Sono stato sottoposto un paio di volte a questa prova. La prima, in una visita preliminare per essere ammesso al corso per ufficiali di complemento, ad Ancona, insieme al mio amico Sandro di cui vi ho già parlato a proposito della mentalità vincente. In quel caso però la scelta di presentarsi con un “tanto so già che non mi prenderete” non fu vincente, anzi, i manuali del buon candidato la sconsigliano; io invece mi sottoposi all’esame senza pregiudizi. Non vidi donnine e la cosa mi tranquillizzò: tra foglie in autunno, astronavi e nuvole cariche di pioggia in primavera me la cavai.

Poi l’esaminatore passò alla domanda più attinente all’oggetto: quale fosse il condottiero nella storia che più mi avesse colpito. Preso a bruciapelo, pensai che Garibaldi e Napoleone fossero un po’ troppo inflazionati; Attila e Hitler forse non erano le scelte più accattivanti. Mi venne Annibale. “Annibale? E perché?” – c’era della sincera curiosità nella voce del maggiore esaminatore. Non potendo dirgli che il nome mi piaceva, in quanto portato con orgoglio dal nonno del mio amico Antonello, fabbro e antico datore di lavoro di mio padre (nonché una volta in pensione compagno di merende, a cui non mi fecero mai partecipare), improvvisai una risposta plausibile. “Perché aveva idee nuove” – dissi – “mica era da tutti portare gli elefanti attraverso le Alpi per andare a far guerra ai romani”. “Anche se poi ha perso?” –  mi chiese. – “Ha perso, ma almeno ci ha provato.”  Al maggiore la risposta piacque, perché dopo una dissertazione sulle antiche e moderne tecniche di combattimento, alla quale interloquivo dondolando su e giù la testa, mi congedò con un poco profetico: “Noi ci rivedremo, giovanotto!”.

Non che ce l’avessi con i romani, per carità. Solo che per carattere tendo a simpatizzare per quelli che perdono, e di conseguenza a gioire quando i più forti prendono qualche legnata. Sarà l’origine picena. Questo popolo fiero, fondatore tra l’altro (sembra) del mio paese, fu l’ultimo popolo italico a sottomettersi ai romani, e come diceva Nino Manfredi nella commedia Straziami ma di baci saziami: “So piceno, embè? Li piceni gliel’hanno sonate spesso e volentieri alli romani, se lo voi sapé.”

Mia nonna Nunziata (Annunziata) era stata a servizio a Roma. Negli anni ’30 non esistevano le agenzie interinali. Anzi, non sono esistite fino alla fine degli anni ’90 e, considerati i risultati, potevamo continuare a farne a meno. La chiamata avveniva per passaparola: ho sentito che… zia Francesca che è a Roma ha detto… Io ancora adesso, lo confesso, prima di partire per un viaggio sono sempre un po’ in apprensione. Immagino cosa potesse essere, per una ragazzina di quei tempi, analfabeta per giunta, lasciare il suo paesino e la sua famiglia per andare in una grande città. Di cui, quando tornava, ne sapeva quanto prima, perché tutta la sua vita si era svolta  all’interno del palazzo dei “signori”.

Proprio il rampollo di uno di questi signori, un conte nientemeno, d’estate veniva a passare qualche settimana al paesello, dove nonostante l’avvento della repubblica gli era rimasto qualche possedimento. In uno di questi, un giardino o orangerie, c’era un campetto che faceva proprio al caso nostro. Un lusso, visto che spesso ci trovavamo a tirar calci in un vecchio orto in pendenza,  e le partite ne venivano abbastanza condizionate . Sapete come funziona: ci si trova, si scelgono due capitani, e questi scelgono i compagni, uno alla volta, in genere dal più bravo al più scarso (diversamente bravo). C’era anche un milanese, ed è ovvio che romano e milanese militassero sempre in squadre diverse. Al conte cercavamo di picchiarlo a turno, amichevolmente, in modo che non potesse dire che qualcuno l’avesse preso in antipatia, non certo perché fosse romano ma per una forma subdola di lotta di classe; ogni tanto gli concedevamo di fare qualche gol, in fondo campo e pallone erano suoi: ma di partite no, non ricordo ne abbia mai vinte.

(41. continua)

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