Di ritorno dalle ferie, pieno di astio verso tutti quelli che non le hanno ancora consumate e di fraterna empatia verso quelli che non possono farle e giustamente odiano quelli che le hanno fatte o le faranno, voglio dare il peggio di me stesso ed esternare una serie di opinioni politicamente scorrette, come Clint Eastwood che non prova alcun disagio a fare outing a favore di mr. Trump. Perderò molti consensi, ma è il prezzo da pagare per la verità.
Non sono un grande amante della natura. Voglio dire, apprezzo un bel tramonto sul mare, specie se con la giusta compagnia possa essere foriero di un lieto tornaconto, ma oramai il vantaggio è relativo; così come ammiro quei panorami da cartolina che mi accontententerei comunque di ammirare anche solo in cartolina.
Sarà che non sono competente: non capisco un’acca di rocce, concrezioni calcaree o vulcaniche che siano; di erbe riconosco quelle quattro-cinque utili all’alimentazione, meglio se prodotte in orti e cotte in padella; di mare so che è grande e pieno di pesci, la maggior parte commestibili, e che i più buoni se li stanno accaparrando i giapponesi per il loro assurdo sushi.
Mi intriga, invece, il lavoro dell’uomo sulla natura; i campi coltivati, specialmente quelle belle colline ricoperte da vigneti, infondono tenerezza nel mio animo sensibile.
Ammiro quelli che, insomma, la natura sanno dominarla; se vado in montagna non sto troppo a recriminare sulla perdita della primigenia selvatichezza, ma la domanda che mi sgorga dal cuore è: ma come diamine avranno fatto a costruire la chiesetta lassù in pizzo, senza nemmeno un elicottero?
Se mi trovassi da solo in una foresta inostipale non credo che sarei capace di sopravvivere più di qualche giorno; non ho la preparazione da boy-scout, per capirci, che dev’essere abbastanza vasta se spazia dal riconoscere il nord dalla posizione del muschio sui tronchi delle piante alla partecipazione alla Ruota della Fortuna o alla modifica di Costituzioni.
Non sono certo John Rambo, che si nutre di bacche e larve e si ricuce le ferite da solo, in quel cult immortale con Sylvester Stallone, dell’82, che seguiva il grande Rocky del ’76.
Sbaglia secondo me chi legge quel primo film come l’esaltazione del super-uomo militarista, così come chi ravvede nel secondo l’esaltazione della violenza. Tutt’altro, a parer mio.
Il primo Rambo è un film che racconta il disagio della gente che è stata mandata a “servire” la patria, ed al ritorno si trova buttata in un angolo come rifiuti, vergogne da cancellare. E’ un fenomeno che non riguarda solo l’America: in Europa dopo la prima guerra mondiale trattamenti simili li subirono tanti combattenti, che andarono a fornire parecchia manodopera ai nascenti fascismi e nazismi. Se posso azzardare un parallelismo, i recenti attacchi ai poliziotti americani che avevano ucciso dei neri sono venuti da veterani neri, che hanno fatto un ragionamento molto semplice: quando devi mandarmi a morire ammazzato ti va bene che sono nero, e quando torno a casa invece divento un “negro di merda”? E no ciccio, e mó basta.
Rocky invece è semplicemente una favola: Rocky Balboa incarna il mito americano, l’uomo che dal niente può diventare tutto, con il cuore e il duro lavoro; il sogno del paese dove è possibile che il figlio di un immigrato keniota diventi Presidente degli Stati Uniti. Paradossale poi che proprio durante la prima presidenza nera della storia riaffiorino tensioni razziali che sembravano reperti fossili, ma forse proprio strano non è.
Ovviamente mi riferisco al primo Rambo ed al primo Rocky; dopo è arrivata la propaganda reaganiana ed il buon Stallone è stato arruolato: overdose di guerra fredda, ostaggi da liberare (dimenticati naturalmente dagli stessi traditori che non avevano voluto vincere la guerra, i Viet Cong e Ho Chi Min erano particolari trascurabili per gli sceneggiatori unbedded), il perfido Ivan Drago e la giunonica Brigitte Nielsen.
Per un breve periodo, tornato dal militare dove come ormai sapete ho servito da sottotenentino, mi sono ritrovato anch’io con la sindrome di Rambo: là guidavo un carro armato, rispondevo di attrezzature per milioni di dollari, qui non riesco neanche a trovare lavoro come parcheggiatore! Melodrammatico, considerando che non avevo neanche la patente B, altro che guidare carri armati. Di lavoro, comunque, se ne avessi voluto da mio padre a bottega ne avrei avuto a bizzeffe, ma il lavoro come è noto stanca.
Ed a proposito, avete notato come le idee migliori vengano oziando? O pensando, direbbero i filosofi. In questi giorni di riposo ho quindi avuto un’illuminazione sul come risolvere contemporaneamente due problemi che affliggono il nostro territorio: l’abbandono di tanti borghi disagiati e la disoccupazione.
Cioè, sono in vacanza su queste isolette, in Sicilia. Che già la Sicilia è un’isola, andare a cercare isolette mi sembrava eccessivo ma ubi maior etc. etc. , ci siamo capiti.
Che poi, come riflette tra se e se il ginecologo novizio, che sarà mai, vista una viste tutte.
Acqua tutto intorno, un cucuzzolo in cima, paesini disabitati d’inverno che d’estate si riempiono di vacanzieri vocianti; gli autoctoni superstiti passati da occupazioni onorevoli quali quelle di agricoltori o pescatori a venditori di cineserie spacciate per artigianato locale, o ristoratori improvvisati; antiche famiglie di pescatori portano in giro i turisti con motonavi dai nomi altisonanti, fornendo informazioni di dubbia attendibilità.
C’è chi teorizza che l’Italia, essendo un paese così ricco di bellezze, potrebbe permettere a tutti di vivere di solo turismo: una enorme Disneyland, insomma. Personalmente non mi ci vedrei a fare da Cicerone a mandrie di cinesi o russi; nel caso però potrei interpretare un appassionato Pulcinella, accompagnandomi al mandolino e intonando con sentimento canzoni amorose napoletane, con accento plausibile. A proposito di Pulcinella, vi raccontai tempo fa di quando con l’orchestrina di cui ero co-fondatore, l’R7, fummo lì lì per essere ingaggiati da un personaggio che si millantava impresario, tale Ciccio ‘e Napule; questi aveva già in mente un tour, a cui avremmo dovuto partecipare come band di supporto alle star, che sarebbero state lui e sua moglie già avanti con gli anni, ed un chitarrista molto bravo preso dall’istituto dei disabili di Porto Potenza Picena. Non se ne fece niente perché tra le clausole del contratto ce n’era una che recitava che avremmo dovuto anticipare qualche spesuccia, che ci sarebbe stata rimborsata con i proventi delle numerose serate; mi chiedo ancora oggi come sarebbe andata a finire se avessimo accettato: una fulgida carriera ci si sarebbe schiusa davanti o più probabilmente qualcosa di duro ci avrebbe colpiti didietro.
Tornando all’ideona, mi è venuta a Filicudi, in un pomeriggio abbastanza assolato: saputo che l’isola ad inizio ‘900 contava circa 5.000 abitanti, ed ora d’inverno appena 300, con intere frazioni abbandonate, isola già di per se sfortunata alla quale hanno voluto portare il loro contributo gli ex ministri Rutelli e Melandri costruendovi un loro pied-a-tèrre, dove credo che accedano separatamente, nonché Luca Barbareschi, osservando con il pianto nel cuore quei terrazzamenti di uva malvasia abbandonati mi è venuto spontaneo unire i miei due vecchi cavalli di battaglia: la zappa obbligatoria ed il servizio di leva obbligatorio: il servizio di zappa obbligatorio, per ripopolare e ricostituire territori incolti e abbandonati.
Seguitemi perché qua non si scherza: a far data dal 2018 (un minimo di tempo per la preparazione logistica), partendo dalla leva del 2000, zappa obbligatoria per un totale di 300.000 effettivi; esonerati solo quelli con documentati problemi fisici (i piedi piatti non sono sufficienti) o che già si trovino a fare lavori manuali; in caso di esuberi la selezione viene fatta per sorteggio; in carenza, ci si rivolge alla leva precedente, sempre a sorteggio. Corsia preferenziale a chi ha intenzione di andare in Australia a lavorare nelle farm, o magari in Madagascar a fare volontariato: prima bisogna zappare qua ben bene, non vogliamo mandare in giro per il mondo gente impreparata. La durata la stabilirei in dodici mesi di servizio, ad almeno 500 km da casa. Vitto ed alloggio gratuito, ed una piccola diaria giornaliera. Non vogliamo discriminare nessuno: l’obbligatorietà vigerebbe sia per i ragazzi che per le ragazze. Alloggiamenti separati ma non troppo, se si deve ripopolare qualcuno deve pur farlo. Cellulari vietati dall’alba al tramonto; dopo il tramonto chi li usa è solo perché non ha niente di meglio da fare, ed è tutto a suo disdoro.
Credo che chi di dovere dovrebbe prendere molto sul serio questo suggerimento, ben più concreto del generico “i giovani devono lavorare” dell’attuale ministro del lavoro. Da quanto ho capito anche lui vorrebbe farli lavorare a gratis, con molta meno utilità pubblica però.
Il costo, che posso dettagliare in un progettino, sarebbe di circa 2 miliardi l’anno, molto meno del truffaldino jobs act; vantaggi indubbi, tra calo del tasso di disoccupazione e indotto che si attiva. Gestione rigorosamente statale e militarizzata. Non allargherei la mangiatoia a regioni e cooperative, si sa come andrebbe a finire.
Fondamentale è il coinvolgimento di brigate di pensionati: chi meglio di gente del posto, attaccata alla terra e con solido background, per controllare degli inesperti cittadini? Quale migliore occasione per fornire consigli e suggerimenti non richiesti?
Mi è anche tornato alla mente, per risolvere un altro problema che per qualcuno problema non è, cioè quello dell’immigrazione, di ripristinare una vecchia norma in uso nell’Impero Romano, come venni edotto durante un viaggio in Turchia da un maresciallo in congedo dei servizi, non ricordo se segreti o di logistica. Tra quegli antichi civilizzatori era costume concedere la cittadinanza a quei barbari che avessero effettuato cinque anni di servizio militare; certo date le guerre e battaglie che l’esercito romano sosteneva in giro per il mondo conosciuto non c’era la sicurezza di arrivare alla fine, e non credo esista una statistica dei casi di successo; tuttavia l’idea mi sembra buona, e se pure al momento non me la sentirei di affidare dei kalashnikov a chiunque chieda la cittadinanza, una bella zappa non gliela negherei.
Segnalo che, nel parco della stazione di Como San Giovanni, quotidianamente da circa un mese stazionano decine se non centinaia di persone, in prevalenza di provenienza eritree o somale, che rifiutano di farsi identificare perché sperano così di non incappare nelle regole assurde di Dublino e poter partire per il nord Europa, tramite Svizzera. Anime buone li accudiscono come possono. Ma, amici, qui non si tratta di essere anime buone. La Svizzera non li farà passare mai. E’ accettabile tenere delle persone (e sottolineo persone) così? E per quanto, fino a quando non succederà qualcosa che scatenerà una reazione popolare? E’ questo che si vuole? Shock e reazione? Non è ora che diventiamo un paese serio, e le regole che noi stessi abbiamo accettato e controfirmato le facciamo rispettare? Domanda retorica, che giro ai responsabili dell’ordine pubblico, prefetto in testa.
Chiuderò con qualcosa di idoneo a farmi ancor più detestare, seppur cordialmente. Adoro la tauromachia. Disprezzo però il fatto, come ho appreso da fonte spagnola anzi catalana, che quando il toro infilza il torero tutta la famiglia (del toro) venga macellata, lo trovo ingiusto e poco sportivo. Inoltre sono uno sfegatato sostenitore del ponte sullo stretto di Messina, è inutile che si continui a dire che ci sono cose più urgenti da fare se poi non si fanno mai. E poi basta postare foto delle vacanze. Io le vacanze le ho finite! Abbiate pietà.
(105 e 106. continua ma a piccole dosi, non preoccupatevi)
