Ieri sono andato al camposanto a far visita ad un amico scomparto a inizio anno. E’ una vittima del Covid, non del virus ma delle conseguenze che questo ha avuto sul sistema sanitario: infatti a fine anno si sentiva fiacco, insolitamente stanco, e il suo medico non l’ha mandato a fare accertamenti (è l’età, gli diceva) perché aveva paura che in ospedale si prendesse il Covid. Così non si è accorto che il problema era nel cuore, gli è venuto un infarto e la situazione era così compromessa che non l’hanno nemmeno potuto operare. Se ne è andato in tre giorni, non voleva disturbare da vivo, e lo stesso ha fatto nella morte.
I fioristi in questo periodo fanno affaroni, nonostante i prezzi calmierati; soffrono la concorrenza dei supermercati che si sono messi a fare sconti anche su crisantemi e ciclamini. E anche tante associazioni cercano di appellarsi al buon cuore, all’entrata c’erano i volontari della Croce Azzurra e quelli delle Opere Vincenziane, e non gli vuoi lasciare qualche euro?
Sono fortunato perché essendo capitato da queste parti solo 35 anni fa non conosco poi così tanta gente lì sepolta: ma in città è diverso che in paese dove tutti si ritrovano in un unico posto, qua ogni quartiere ha il suo cimitero, senza contare tutti gli immigrati come me che magari l’ultimo viaggio se lo vogliono fare a casa loro. Io ho lasciato mano libera ai miei: facciano come vogliano. Ho chiesto solo di non essere cremato, possibilmente.
Invece quando vado al cimitero al mio paese ci passo sempre qualche ora, tra amici parenti e conoscenti; tra l’altro è molto caotico, spesso dimentico i posti ed a volte salto qualche zio. Poi ci sono le sorprese, vedi una tomba nuova e pensi: to’, è morto pure questo?
Ho un ricordo di nebbia, di freddo, di malinconia di quando da bambino mi portavano a trovare i morti: ieri invece c’erano 25 gradi e la gente era in maglietta! I fiori mettevano allegria non tristezza, e quasi quasi invogliavano a gironzolare tra i loculi curiosando tra le iscrizioni e gli epitaffi; su questo c’è da dire che una volta erano molto più fantasiosi, del tipo “figlio esemplare, marito integerrimo, padre premuroso, dopo una vita operosa dedita alla famiglia lascia un patrimonio di fede e carità”, adesso invece se va bene c’è la data di nascita, quella di morte, e amen. Devo dire che non mi piacciono molto quelle tombe con le sculture, le trovo kitch (non sto parlando del monumentale di Milano, lì ci sono davvero delle opere d’arte), il mio ideale di cimitero è quello di guerra, con tante piccole croci bianche allineate, tutte uguali: che la morte, come diceva Totò, è ‘na livella.
Amiche e amici, ieri giornata piena. La mattina ho partecipato ad un raduno di cori parrocchiali, ovvero una messa nel duomo di Como dove hanno partecipato circa 40 cori da tutta la diocesi; il convegno si sarebbe dovuto svolgere nel 2020 ma a causa del Covid è stato rimandato fino ad oggi. Nel frattempo diversi cori e coristi si sono persi per strada; comunque eravamo un bel numero, io ne avevo stimati quattrocento ma l’articolo sul quotidiano locale stamattina parlava di 650; per una volta quindi ho fatto la parte della questura nelle manifestazioni.
La messa è stata officiata dal vescovo, neo cardinale; il mio contributo è stato ininfluente ma ad ogni modo mi ha dato l’occasione per rispolverare l’abito da cerimonia, un impeccabile nero a cui ho abbinato una cravatta di seta blu dipinta a mano con motivi floreali. Un figurone! Tra l’altro ho suscitato l’invidia della mia consorte perché erano quattro anni che non indossavo più il vestito e mi sta ancora a pennello, cosa che lei sostiene non le succeda con i suoi vestiti; si prepara quindi un periodo di vacche magre perché ha annunciato una nuova dieta, che ovviamente coinvolgerà tutta la famiglia. Comunque cantare con così tanta gente è sempre coinvolgente ed emozionante; i più affezionati ricorderanno le mie cronache dai convegni romani, quelli davvero oceanici (all’ultimo eravamo circa ottomila): e vi assicuro che cantare il credo in latino (Credo in unum Deum…) in ottomila non è per niente facile. Non è sicuro che tutti e ottomila, compreso il sottoscritto, capiscano quello che cantano, ma insomma una idea ce la hanno. Altre volte mi sono chiesto, partecipando a qualche messa all’estero e non capendo niente, se non fosse stato meglio lasciare almeno le preghiere in latino. Almeno saremmo stati ad armi pari: nessuno avrebbe capito niente!
Nel pomeriggio avevo la possibilità di partecipare alla visita guidata all’interno del Duomo, ma ho invece optato per una presenza che mi sembrava più importante: c’era infatti una manifestazione per la Pace, organizzata dal Coordinamento comasco per la pace che fa parte della rete Europe for Peace, di cui fanno parte numerose associazioni, tra cui Acli e Arci. Eravamo stati invitati a portare materassini da palestra e lenzuola bianche: l’idea era quella di stenderci tutti e fingerci morti, simulando le vittime di una guerra. Purtroppo pioveva; personalmente ho portato la stuoia da spiaggia perché il materassino da palestra non ce l’ho, mentre invece di lenzuola eravamo ben forniti perché una nostra amica lavora in una lavanderia industriale e di lenzuola ne hanno un sacco. Non c’è stato fortunatamente bisogno di stendersi ; solo tre si sono immolati, in rappresentanza dei presenti. Quando uno dei morti si è alzato per fare un interevento al microfono la cosa è stata anche divertente; sconfortante è stata invece la partecipazione, davvero bassa. Dato il numero di associazioni mi aspettavo che, se ognuna avesse portato almeno una ventina di persone, la piazza sarebbe stata piena; invece saremo stati al massimo una cinquantina, con pochissimi giovani. Mi è venuta in mente l’esortazione che il cardinale ci aveva rivolto al mattino: dovete essere attrattivi per i giovani, perché manca la loro presenza nelle assemblee. Visto che in chiesa non vengono mi aspettavo di trovarli tutti almeno a manifestare per la pace: ma dove diavolo sono finiti?
Una coppia che frequenta i balli popolari del martedì, una delle tante cose che faccio male ma senza sensi di colpa, anche loro presenti alla manifestazione, ci hanno dato una spiegazione che può essere condivisibile: sì, è vero che aderiscono tante associazioni, ma alla fine quelli che fanno parte di queste associazioni sono sempre gli stessi ed è come fare il gioco delle tre carte. Alla fine insomma ci si ritrova sempre tra gli stessi, e i giovani scappano. Potrebbe essere…
Comunque la manifestazione grande sarà quella a Roma del 5 novembre; mi sto organizzando naturalmente per esserci, speriamo di non essere bloccato da qualche sciopero, come ad ottobre.
Intanto il governo è fatto; fa un po’ impressione avere La Russa presidente del Senato e la Santanchè ministro, ci vorrà un po’ per abituarsi. Io ad ogni buon conto, come dicevo, l’abito scuro l’ho rispolverato, non si sa mai.
A noi (a presto)!
Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Anche i carciofi vanno bene.
Amiche e amici, avete preparato i maglioncini per l’inverno? O confidate nel caro vecchio riscaldamento globale, come diceva l’ex presidente Usa Trump canzonando gli ambientalisti quando mezza America era finita sotto il gelo?
Da piccolo la casa dove abitavo con la mia famiglia non aveva riscaldamento. C’era solo una stufa a legna in cucina, la cucina economica si chiamava, che serviva sia per cucinare che per riscaldare: e infatti d’inverno tutte le attività che richiedevano di stare fermi si svolgevano in cucina: lo studio, la lettura, il lavoro di cucito di mia madre… avevamo anche una saletta, dove dietro un paravento c’era il mio letto; e la camera da letto dove c’era il letto matrimoniale ed il letto dove dormivano i miei tre fratellini (in un letto dormivano in due, uno da un lato e uno dall’altro); questa veniva scaldata con il prete e la monaca infilati nel letto, cioè con un’intelaiatura di legno (il prete) dove veniva messo all’interno un braciere con dei pezzi di carbone (la monaca). Per fare il bagno (una volta la settimana) mia madre riscaldava delle pentolone di acqua e le versava in una grande conca di plastica.
Nel 1971 ci fu la svolta: ci venne assegnata una casa popolare, era un sogno! Cucina, sala, camera dei genitori, due camere per noi figli (mia sorella ebbe subito la sua, noi tre maschi invece tutti in una). Non c’era il gas: la cucina veniva alimentata con bombole che ci venivano portate in casa da un venditore che passava con un’ape Piaggio, ritirava le bombole vuote e le sostituiva con quelle piene; l’acqua calda era assicurata da uno scaldabagno elettrico; per il riscaldamento invece avevamo una stufa a cherosene che era messa nel corridoio in un posto strategico da cui irradiava il calore in tutte le stanze, e tramite il tubo che arrivava alla cappa di scarico dei fumi riscaldava anche la cucina.
Solo verso la fine degli anni ’80 nel comune arrivò il gas, e vennero stese le condutture per le vie del paese; l’Istituto delle Case Popolari per quanto lo riguardava curò i collegamenti per tutti i suoi condomini, poi ogni affittuario decise se allacciarsi o meno. Mio padre che era anche idraulico ci fece l’impianto, tirando i tubi di rame in tutte le stanze e piazzando i caloriferi (in ghisa). Anche lo scaldabagno venne sostituito: mio padre aveva installato una caldaia Vaillant e ne andava fierissimo, diceva che era l’ammiraglia delle caldaie! Il progresso per me è stato questo: potersi lavare senza stare a dover lesinare l’acqua calda…
Ora la preoccupazione sembra essere quella opposta: le case sono riscaldate troppo, e per troppe ore, e dato che il gas scarseggia perché per sostenere gli ucraini, sa solo il cielo perché, abbiamo deciso di rinunciare alle forniture russe, come se gli altri a cui ci stiamo legando mani e piedi fossero tutti grandi democratici (uno per tutti: gli azeri che stanno compiendo veri e propri massacri di armeni, ancora una volta) e le bollette sono alle stelle, dobbiamo fare sacrifici. Bisogna risparmiare. Che nobile intento! Quello che non poté Greta lo poté la guerra. Peccato aver buttato la stufa a legna, anche se mi dicono che il prezzo della legna è alle stelle pure quello. Al limite avrei potuto bruciarci i giornali,tanto per quello che servono…
Amiche e amici, vi saluto informandovi che al Piccolo Teatro di Milano è in scena “M il figlio del secolo”, tratto dal libro di Scurati, la storia dell’ascesa al potere di Mussolini: ve lo consiglio caldamente, sono tre ore di spettacolo ma per niente faticose. Ci siamo dimenticati troppe cose, e temo che siamo andati troppo oltre.
Nel salone delle feste di Villa Rana si sta finalmente concludendo l’edizione 2022 di “Non aprite quel raviolo”; le note vicende hanno consigliato all’organizzazione di non procedere con l’assegnazione dell’ambito premio, tanto più che dei cinque concorrenti uno è in galera, uno è tornato in Marocco per consolare la cognata fresca vedova ed una veleggia verso la Lapponia per sistemare per le feste i gemelli Uppallo. Gilda Rana, al centro del tavolo d’onore, commenta con i commensali i recenti avvenimenti, mentre l’orchestra spettacolo “Bigio Corbatti e i Compagni di Merende” allieta i convenuti con un pot-pourri di salsa e merengue che richiama in pista i ballerini più flessuosi, tra cui spicca la coppia variopinta formata da Miguel e Paio Pignola, riappacificati ed in procinto di annunziare il matrimonio, sperando che il tentativo abbia esito migliore del precedente. Le vallette della trasmissione, le tortelline Lori e Dori, per l’occasione sono state riciclate come cameriere e danno prova di grazia e leggiadria volteggiando tra i tavoli con grandi vassoi pieni di casoncelli, agnolotti e tortellini: Gilda infatti non ha voluta badare a spese ed ha ordinato al suo direttore della produzione, Haruki Laganà, di convertire momentaneamente le linee dello stabilimento per sfornare tutte e cinque le proposte in concorso. «Tutto è bene quel che finisce bene, non è vero James? L’anno prossimo dovremo ingaggiare un altro presentatore, però. Ti dirò, Turchese ha avuto proprio una bella idea a farsi ammazzare. Tutta pubblicità per noi! Non hai idea di quante richieste di ravioli al gelsemium sono arrivate! Ci chiedono specialmente dei pacchetti regalo: nuore per le suocere e viceversa, mogli tradite per i mariti, amanti scaricati… ci sarebbe da fare un bel business! Dovrò informarmi con l’Asl se ci sono delle controindicazioni.» «Lo sconsiglio, signora» interviene il maggiordomo tossicchiando «Temo che la nostra legislazione non lo consenta. » «Sei sicuro, James? Mi sembra assurdo. E’ come se si vietasse di produrre martelli perché qualcuno di tanto in tanto li picchia in testa a qualche conoscente . Questo è un paese che ostacola la libera impresa!» proclama la parte confindustriale della Calva Tettuta. «Ma lasciando perdere gli affari, James caro, sto pensando di fare un giretto per il mondo. Che ne dici? Tanto la settimana prossima ci annoieremmo: Nonna Pina se ne va in Cina con il generale Po e la sua nipote ritrovata, con l’intenzione di diventare la concubina di qualche imperatore; Palmira parte per la Nuova Zelanda con quel fustaccione del maori, e spero non si trattenga troppo perché come fa il ragù di papera lei non lo fa nessuno; che ne dici della Patagonia? Dovremmo avere qualche possedimento da quelle parti. O magari Ladispoli?» «Questa è la stagione ideale per visitare la Patagonia e per l’avvistamento delle balene franche australi» risponde il competente maggiordomo, rabbrividendo all’idea di Ladispoli «Se lo desidera, provvedo subito al bagaglio. Devo preparare anche per il signore?» chiede indicando un mesto Svengard, seduto qualche tavolo più in là. «Poverino, sta macerando nei suoi sensi di colpa. Non è tenero?» cinguetta la Calva Tettuta. «No, no, lasciamolo qua, così al ritorno si farà schiavizzare senza fare capricci. A proposito, hai sentito del contratto matrimoniale che ha stipulato la mia amica Jennifer¹ con il suo Ben? Pare che lui si sia impegnato solo per un minimo sindacale di quattro rapporti sessuali a settimana. Che taccagno!»
Montesi scuote la testa, ancora incredulo, mentre le donne sedute al suo tavolo chiacchierano tra di loro e la ragazza sorride confusa, cercando di capire cosa dicono i tre. «Da quanto tempo lo sapevi?» chiede infine alla moglie Ines «Perché non me ne hai mai parlato?» Ines e Olena si guardano, poi la russa annuisce e lascia la parola alla romagnola. «Era la fine di luglio del 2008, ero al mare a Viserbella, ti ricordi? Tu eri rimasto al lavoro, come al solito. Stavo facendo colazione al bar di Ignazio quando si avvicina questa donna, tenendo la bambina per mano, e si siede al mio tavolo senza neanche chiedere permesso. Alzo la testa per protestare ma incrocio lo sguardo della bambina e rimango a bocca aperta, con la brioche mezza inzuppata nel cappuccino, incantata… le fossette sulle guance, la linea del naso, il colore dei capelli, persino quella rughettina tra le sopracciglia, mi sembrava di avere davanti la tua foto da piccolo! Solo gli occhi erano diversi, azzurri come il cielo… Siamo rimaste a guardarci con la madre per qualche secondo, non c’era bisogno di dire niente… Mi sentivo morire, cercavamo un figlio da così tanto tempo e non veniva, e adesso avevo tua figlia davanti, la figlia tua e di una donna che non ero io, e invece di essere arrabbiata avevo solo voglia di abbracciare la bambina e piangere…» Olena le prende una mano tra le sue, come aveva fatto quel giorno; Ines le rivolge un sorriso e continua. «Olena mi ha raccontato di come vi siete conosciuti, della missione in Bosnia, che tu le avevi salvato la vita e della relazione che avete avuto» «Ma quale relazione! Te lo giuro Ines, è stata una volta sola…» «Sì, lo so, ti credo. Ma non importa… il fatto è che Olena è rimasta incinta, e ha tenuto la bambina» «Ma perché me l’hai tenuta nascosta? Era anche figlia mia!» protesta Montesi con la russa, indignato. «Perché avrei dovuto dire te?» risponde Olena «Tu sposato e distante tremila chilometri. Non volevo complicazioni. Gli uomini sono una tale complicazione…» «E cos’è cambiato allora, perché ci hai ripensato?» «Ero stata richiamata per Georgia²» risponde Olena «Se mi fosse successo qualcosa, volevo che qualcuno si occupasse di Nastya» «Ma non l’hai detto a me! L’hai detto a mia moglie, perché?» «Non volevo tu sapessi prima, avresti sicuramente voluto conoscere lei, e magari portare via a me. Così abbiamo fatto patto: Ines avrebbe detto te solo se fosse successo me qualcosa. E io non avrei rivisto te mai più. Patto ha retto, fino ad oggi. Ines è donna straordinaria, lo sai, sì? E ha tanto aiutato Nastya, in questi anni» «E perché me lo dici ora? Non mi sembra che tu sia in cattiva salute» constata Montesi, ironico. «Sono stanca di guerra, Nicola» risponde Olena «E Nastya ha diritto a posto migliore dove crescere suo figlio. E’ vero, io negato te possibilità di fare padre. Ma sei ancora in tempo per fare nonno, se tu vuole» «Nonno? Perché, tua figlia… nostra figlia, aspetta un bambino? E… si sa già cos’è, un maschietto, una femminuccia?» chiede Montesi, sorridendo teneramente a Nastya. Che gli restituisce il sorriso, e risponde con le poche parole di italiano imparate: «Maschio, papa³. Si chiamerà Nicola, come voi. Nicola Mikhailoviĉ Petrakov »
«Ehi tu, parrocchetto, proprio te stavo cercando!» Flettàx, l’Ara Macao padano, si avvicina al suo rivale, il pappagallo economista Spread, caracollando minacciosamente. Questi, distolto dalla lettura dell’inserto fiscale del Sole 24 ore, gonfia le penne preparandosi alla lotta. «Che vuoi, brutto bifolco? Ti pare educato presentarsi in questo modo? Perché non te ne ritorni nel tuo trespolo puzzolente invece di infastidire la gente perbene?» Flettàx arrota il becco, trattenendosi a stento. «Te lo dirò una volta sola, cara la mia cocorita: devi lasciare in pace la mia ragazza. Se ti rivedo a svolazzarle intorno ti strappo le alucce e mi ci faccio un ventaglietto, capita l’antifona?» gracchia arrabbiato. «Ma sentilo, il troglodita! “La mia ragazza”… Kocca per tua norma e regola non è una tua proprietà, ed è benissimo in grado di decidere da sola con chi andare e con chi no» «Tu le stai facendo il lavaggio del cervello con le tue smancerie! Poesie, puah! E lei che ci crede pure, povera scema. Ma a me non me la fai, caro mio, li conosco bene i damerini come te! Una bella manica di bastonate e te la faccio passare io l’ispirazione poetica!» «Che fai, minacci?» si inalbera Spread. «Ci vuole altro che un pallone gonfiato come te per farmi paura. Forza, fatti sotto, e facciamola fuori una volta per tutte! Cacatua!» All’insulto Flettàx garrisce l’urlo di battaglia e si appresta a lanciarsi sull’incauto avversario, quando il campo visivo è attraversato da due intruse. «Coo, coo, scusate ragazzi, sapreste indicarci la via del pollaio di Villa Rana? Sapete, siamo nuove di qua e ci siamo perse. Siamo così sbadate! Ah, io mi chiamo Lucilla e mia cugina Drusilla. Voi siete di queste parti?» I due pappagalli, pronti a passare alle vie di fatto, si scambiano un’occhiata di intesa. «Ma certo signorine, noi abitiamo qua, anzi in un certo senso questa è casa nostra, non è vero amico mio? Ma che sciocco, non mi sono ancora presentato: io mi chiamo Spread, e lui è Flettàx. Da dove venite, se non siamo indiscreti?» «Coo, coo, siamo galline padovane…» risponde Lucilla, scuotendo la cresta. «Padovani, gran dotori, visentini magna gati…» declama Spread. «Ma come siete simpatici!» crocchia Drusilla, ammirata. «Non sareste così carini da accompagnarci? Sapete, a volte si fanno di quegli incontri… ma si vede che voi siete due pappagalli a posto» «Eccome se lo siamo!» conferma Flettàx. «Vi accompagneremo volentieri, signorine. Anzi, per non perdere tempo prenderemo una scorciatoia, che ne dici Spread? La vedete quella siepe là in fondo? Ecco, arriviamo fin là e poi…»
THE END
¹ Per i pochi che non avessero seguito la vicenda, si tratta degli attori Jennifer Lopez e Ben Affleck, affascinanti ma non proprio giovanissimi. Forza Ben, ce la puoi fare! Anche se, come sostenevano i saggi Nuovi Angeli già negli anni ’70, “Chi mi dice che sono buone pere, dopo un anno di pere, dirà: Singapore, vado a Singapore…” ² Nell’agosto 2008 la Russia intervenne in Georgia per (a suo dire) sostenere l’indipendenza di due regioni autonome filorusse, l’Ossezia del Sud e l’Abcasia. La guerra durò solo una settimana ed evidentemente non ha insegnato niente a nessuno. ³ Non è un refuso: in russo papà si dice papa. E mamma si dice mama. Nonna invece babushka, ma quello lo sapete bene…
Non mi interessa più chi ha ragione e chi ha torto. Tutti hanno ragione, e tutti hanno torto. Mi interessa solo che la smettano, e al più presto. E non perché tutto è aumentato, o perché i risparmi stanno andando a ramengo, o perché dovrò indossare due maglioni per stare in casa a 19 gradi o perché dovrò lavarmi di meno. Chissenefrega se puzzo, tanto faccio lo smart working. E’ ora che ci facciamo sentire: il 5 novembre manifestazione nazionale a Roma per la Pace, io ci sarò. Servirà, non servirà? Sempre meglio che stare a digitarsi addosso, no?
«Che c’entra mia sorella, adesso?» insorge Trésomarie. «Lasciatela fuori da questa storia! In questa sala c’è una pazza che ha tentato di avvelenarmi e solo per un miracolo non c’è riuscita, e lei tira in ballo mia sorella. Cosa vorrebbe insinuare?» «Non si innervosisca signor Trésomarie, non ce n’è motivo. Voglio raccontarle una storia, preciso che si tratta di fantasia ma lei mi interrompa quando vuole, se ci ritrova qualcosa di familiare» Auguste Trésomarie incrocia le braccia e sbuffa, infastidito. «Devo tornare indietro di quindici anni» inizia Montesi «Non credo tutti sappiano che a Parigi c’è un’università famosa in ambito alimentare che si chiama Istituto di Tecnologia per la vita, l’alimentazione e le scienze ambientali, meglio conosciuta come Agro ParisTech. Si trova nel quartiere latino ed è frequentata da circa 3000 studenti, parecchi dei quali stranieri, accolti con i diversi programmi di scambio culturale. Ed è qui, sulle rive della Senna, che si conoscono due matricole: lei, una ragazza francese bella, minuta, con dei lunghi capelli castani, il volto sempre sorridente ricoperto di leggere efelidi, chiamiamola pure con un nome inventato, diciamo Lucrèce? E lui, un ragazzo alto, simpatico, con dei capelli ricci e neri, una leggera miopia ed il vezzo di indossare degli occhiali eccentrici; è italiano, romano per la precisione, anche se arriva da Parma dove è iscritto a Scienze dell’Alimentazione, senza grande profitto: non si ammazza di studio ma in compenso ha una gran voglia di girare il mondo e conoscere gente: vogliamo chiamarlo, che so, Alessandro?» A questo punto lo chef francese si sistema rumorosamente sulla sedia dando segni di insofferenza, ma il maresciallo non dà mostra di accorgersene e continua: «Lei è piena di entusiasmo, la sua ambizione è quella di sperimentare nuovi modi di usare il cibo, di esaltare i sapori: suo fratello maggiore infatti, che lei adora, da qualche anno ha aperto un ristorante che sta ingranando, i clienti sono contenti ma a lei non basta che il locale di suo fratello vada bene, vuole semplicemente che sia il migliore»
«Una ragazza d’oro, quella Lucrèce. A trovarne!» commenta Gilda sottovoce a James, al quale gli occhi iniziano a farsi lucidi.
«Lui invece è sì incuriosito dai segreti dell’alimentazione, ma si sta convincendo sempre più che non sia quella la sua strada: lo attira lo spettacolo, recita, sia pure da dilettante, e sente di doversi impegnare per realizzare questa sua aspirazione. E’ affascinato dalla serietà e dalla determinazione di Lucrèce, dal fuoco che sente ardere dentro di lei, come lei è conquistata dal suo fare scanzonato, dalla battuta sempre pronta, dalla apparente leggerezza sotto la quale coglie una forte volontà di emergere. Insomma, i due ragazzi si innamorano; iniziano a fare qualche progetto, ma più per scherzo che altro, sono così giovani… quello che conta per loro adesso è stare insieme ed amarsi; Alessandro promette a Lucrèce di portarla a visitare l’Italia, e lei di farle conoscere le bellezze della Francia. Così una domenica di giugno, poco prima della fine dell’anno accademico, decidono di fare una gita in Normandia, ad Etretat, per ammirare le falesie che rendono famosa quella località. Che meraviglia! Il bianco delle scogliere ammalia Alessandro, e i due decidono di noleggiare una barchetta per osservarle dal mare»
Auguste Trésomarie si agita, sempre più nervoso. Montesi sembra raccogliere le forze, lo sguardo serio e concentrato, e continua. «Non è mai stato chiarito cosa sia successo. Un’onda anomala, o la scia di un traghetto, il passaggio di un motoscafo troppo vicino, o forse un movimento azzardato… la barca si rovescia, i ragazzi cadono in mare. Ma solo uno dei due si salverà» Trésomarie è terreo in viso, le labbra sono serrate, le mani artigliano la sedia. Olena, ad un cenno di Montesi, gli si mette alle spalle. Infine l’urlo del francese rompe il silenzio. «Quel bastardo l’ha lasciata morire! L’ha vista affogare e non ha fatto niente!»
Tutti gli occhi sono ora puntati su Trésomarie, che è in piedi scosso da tremiti di rabbia. «Lei voleva molto bene a sua sorella, non è vero signor Trésomarie? Le ha fatto da papà dopo che i vostri genitori vi hanno abbandonato. La sua perdita era intollerabile, e in quel modo…»
Lampi di odio si sprigionano dagli occhi del francese, che si tormenta le mani. «Un banale incidente…» dichiara Montesi, con dolcezza. « Il ragazzo si salvò perché riuscì ad aggrapparsi allo scafo rovesciato, ma per sua sorella non ci fu niente da fare. Alessandro non sapeva nuotare, e non poté aiutarla» «Quell’assassino! Non sapeva nuotare, ma non si preoccupò di indossare il giubbetto di salvataggio, e di farlo indossare a mia sorella! Che non sarebbe mai salita su quella maledetta barca se non fosse stato per lui!» grida tutto il suo disprezzo Auguste. «Da giovani ci si crede invulnerabili e si commettono delle sciocchezze che a volte si pagano care» riflette Montesi, che con quelle “sciocchezze” ha a che fare tutti i giorni. «Da quanto tempo si era reso conto che Alessandro Turchese era quello che riteneva responsabile della morte di Lucrèce, signor Trésomarie?» Trésomarie si siede, come sgonfiato; si massaggia il collo con entrambe le mani, ed inizia il suo racconto. «Quando Turchese è venuto nel mio ristorante per invitarmi al suo show non l’ho riconosciuto. Lucrèce lo aveva portato lì un paio di volte, e sempre di corsa; all’epoca poi me l’aveva presentato con il suo vero nome, Mario Marchegiani : Turchese è il nome d’arte che ha assunto quando è entrato nel mondo dello spettacolo. Ma tutto questo l’ho scoperto dopo…» «Allo show dell’anno scorso» ipotizza Montesi, e Trésomarie annuisce, confermando. «Durante la premiazione mi si è avvicinato, e ho visto che indossava il braccialetto che io avevo regalato a Lucrèce per i suoi diciotto anni… solo in quel momento ho collegato tutto. Forse considerava quel premio come un risarcimento per il male che aveva causato, forse pensava di comprare il mio perdono? Ma l’unico esito che ha ottenuto è stato quello di riaprire la mia ferita» «E’ stato in quel momento che ha iniziato a pensare come fargliela pagare, è vero?» Trésomarie continua, senza rispondere. «Ho avuto molto tempo, sapevo che quest’anno avrei partecipato come presidente di giuria. Ho anche pensato di assoldare un professionista, ma non avrei avuto la stessa soddisfazione. Ho valutato diverse possibilità, e poi ho scelto quella più congeniale all’ambiente culinario: l’avvelenamento. Quello che peraltro tanti miei colleghi mettono in atto tutti i giorni e senza neanche essere puniti» aggiunge rivolto agli chef presenti, con perfidia. «Mi sono procurato il Gelsemium elegans, non è stato facile e mi è costato parecchio, ma sapevo che la tossina, ingerita, non lasciava scampo. Bisognava solo trovare il momento giusto, versare qualche goccia in un drink, su una pietanza… pensavo di farlo durante il rinfresco finale, nella confusione nessuno avrebbe notato niente, ma Turchese stesso me ne ha offerto l’occasione» «Turchese? E in che modo?» chiede Montesi, stupito. «Quello stupido ingordo si stava strozzando col raviolo cinese e non riusciva a respirare. Il raviolo non era avvelenato come avete pensato, era solo una schifezza e gli era andato per traverso. Forse sarebbe crepato lo stesso, ma perché rischiare? Mi sono avvicinato, tutti hanno pensato che lo stessi aiutando, e mentre ero chinato su di lui ho estratto la boccetta e gli ho spremuto in bocca una pipetta di Gelsemium. Gli ho detto “per Lucrèce” e sono rimasto a guardare mentre moriva»
Un silenzio inorridito accoglie la confessione di Trésomarie. Montesi lo rompe, rischiarandosi la voce. «Turchese non era uno stinco di santo, era sicuramente eccessivo, manipolatore, disposto a tutto per un punto di audience, ma non era un assassino. Il suo è stato un omicidio premeditato senza alcuna giustificazione… Auguste Trésomarie, in nome della legge la dichiaro in arresto, ci segua senza opporre resistenza» intima allo chef, poi rivolge uno sguardo a sua moglie Ines ed alla ragazza che le siede di fianco; le vede sorridere ad Olena, rimasta alle spalle dell’assassino, e finalmente capisce. «Per la miseria, ho una figlia. Me la vedo brutta» pensa Montesi preoccupato, mentre prende Trésomarie sottobraccio e lo trascina verso l’uscita.
Il maresciallo Montesi rimette la pistola nella fondina, sollevato dal non essere stato costretto ad usarla. Toglie le manette a Farouk e le mette all’uomo piagnucolante, chiedendosi se non fosse stato meglio lasciarlo alle cure di Olena, dato che potrà essere accusato di ben poco. Con Corinaldi lo alza da terra e lo scorta verso la porta, ma prima che possa varcarla si trova davanti sua moglie Ines ed una giovane ragazza dai capelli neri. Lancia uno sguardo interrogativo alla moglie, che gli fa cenno di non preoccuparsi, e senza dare spiegazioni le due vanno a sedersi vicino ad Olena. Montesi le segue con lo sguardo, in leggera apprensione, ma si ricompone subito e si appresta a tirare le somme.
«James caro, tu conosci la ragazza che è con la moglie del maresciallo?» bisbiglia Gilda al fido maggiordomo seduto alla propria destra «Ha un’aria familiare, ma non riesco a ricordare dove l’ho vista. E’ stata a servizio qui da noi? O magari in stabilimento? Decisamente è ben in salute. Se è così abbiamo fatto male a farcela scappare. Forse un po’ pienotta, non credi?» chiede la vedova Rana confrontando il petto generoso della giovane con il proprio, di cui va giustamente orgogliosa. James resta un attimo in silenzio, intento a studiare le tre donne. Un sospetto gli si fa strada nella mente, che non riesce ad allontanare del tutto mentre risponde: «Non credo abbia lavorato per la Casa, signora, me ne ricorderei. Tuttavia concordo che i lineamenti abbiano una certa somiglianza con persone di nostra conoscenza; e credo di non essere in errore affermando che quel pienotta di cui lei parlava è dovuto ad uno stato di gravidanza, direi tra quarto e quinto mese. Insomma, la ragazza è incinta»
Montesi, notando qualche brusìo nell’uditorio, riprende dunque a parlare. «Vi chiedo ancora qualche minuto di attenzione, signore e signori, e poi prometto di lasciarvi liberi. Come avete sentito, molti avevano dei motivi di rancore verso Turchese; altri tramite la morte di Turchese avrebbero potuto voler danneggiare lo sponsor della trasmissione, causando seri danni di immagine ed economici. Abbiamo il movente, quindi, anzi i moventi; abbiamo il mezzo: un raviolo avvelenato, ma è proprio questo mezzo, chiamiamolo pure l’arma del delitto, ad aver reso difficile individuare il responsabile. Esaminando la successione degli eventi abbiamo visto che il raviolo avvelenato non era stato cucinato da Li Wok ma da Isolina, che aveva buttato quelli cotti da Li Wok ed avvelenati da Palmira; che dal momento in cui Li Wok ha ripreso in mano il suo tegame al momento in cui è stato aperto, nessuno ci si è avvicinato. E dunque, come ha fatto l’autore? E come poteva sapere che sarebbe stato mangiato proprio da Turchese? Abbiamo interrogato il regista, Fuffo Sbarellotti, che ha dichiarato che in scaletta non era previsto che il presentatore assaggiasse i piatti. Ma è anche vero che Turchese era goloso, e l’assassino avrebbe potuto “scommettere” su questa sua debolezza. Tuttavia, la visione delle riprese non ha mostrato niente di strano dal momento in cui il vassoio è stato posato sul tavolo della giuria. La presenza del signor Garcìa, considerata in un primo momento sospetta, è stata giustificata. Dunque Turchese sembra aver fatto tutto da solo: ha aperto il tegame, con una forchetta ha preso un raviolo, proprio quel raviolo, e l’ha messo in bocca. Dopo pochi secondi il respiro si è fatto affannoso, è diventato cianotico ed è caduto a terra, dove il signor Auguste Trésomarie ha cercato di aiutarlo, ma invano.»
Montesi si ferma un attimo, sentendo su di sé lo sguardo di tutti i presenti, e soprattutto della giovane seduta vicino a sua moglie, che lo fissa con degli enormi occhi blu. «Auguste Trésomarie, il presidente della giuria, è il vincitore della scorsa edizione del concorso; è uno chef indubbiamente originale, sebbene con un carattere non proprio accomodante, almeno così dicono i critici, non è vero signor Trésomarie?» «Il nostro ambiente è pieno di invidiosi» risponde il francese, infastidito. «Comunque lei aveva un buon rapporto con Turchese, o almeno non risultano dissapori. E’ così?» «Bien sûr que non!» conferma lo chef «Altrimenti non mi avrebbe invitato, non le pare?» «Infatti, è quello che ci risulta. E invece Turchese che rapporto aveva con sua sorella Lucrèce?»
Montesi estrae dalla sua cartella in pelle nera una pratica; ne estrae un verbale di interrogatorio, lo scorre velocemente e lo rimette al suo posto, apparentemente soddisfatto. «Signor Marrakech, lei ha confessato di aver ucciso suo cugino Ahmed involontariamente, conferma la sua versione?» Farouk Marrakech annuisce in fretta, timoroso, senza alzare lo sguardo. «Così conferma » constata il maresciallo. «E sarebbe così gentile da raccontarci com’è andata?» «Ma ho già detto tutto alla sua amica» dice il marocchino, che teme qualche trappola. «Alla mia amica? Ah, intende il capitano Smirnoff… e le dispiacerebbe essere così gentile da raccontarlo anche a me?» insiste Montesi, dando uno sguardo rapido in giro per vedere se c’è traccia di Olena. «E va bene… come al solito ero in cucina da solo, il ristorante era pieno, e mi chiama Fatima, la moglie di Ahmed, terrorizzata. Si era chiusa in camera, e Ahmed stava cercando di buttare giù la porta. La accusava di tradirlo, di essere una poco di buono, la minacciava di tagliarle la gola… quell’uomo era paranoico, e quando beveva diventava violento. Ogni tanto Fatima aveva degli strani lividi in faccia, a volte diceva di inciampare, qualche altra di essere distratta e sbattere nei mobili, ma io sapevo che era il marito a picchiarla. Le avevo suggerito di lasciarlo e di andarsene, ma lei non riusciva a decidersi. Insomma, non era la prima volta che c’erano litigi ma stavolta la situazione mi sembrava grave, così ho lasciato tutto e sono salito in casa loro. La porta era aperta, Ahmed aveva in mano un’ascia, sembrava un pazzo… gli ho chiesto che stesse facendo, di mettere via quell’ascia, ma per tutta risposta mi si è scagliato contro ed ha cominciato a gridare che ero io l’amante di sua moglie, e che me l’avrebbe fatta pagare… mi si è avventato contro, abbiamo lottato, non riuscivo a fermarlo, così ho preso il coltello che avevo in tasca e l’ho colpito. Ma non volevo ucciderlo!» «Capisco, lei è intervenuto per difendere la moglie di suo cugino, è stato attaccato e si è difeso; ci sarebbe da discutere sul fatto che abbia lasciato la cucina portandosi dietro un coltello, ma sarà stata una dimenticanza non è vero signor Farouk? Insomma lui aveva un’ascia, lei si è trovato in mano un coltello, potremmo rientrare nella fattispecie della legittima difesa. Ma mi tolga una curiosità, come mai la moglie di suo cugino ha chiamato proprio lei? Tra di voi c’era solo un rapporto di amicizia o c’era dell’altro e suo cugino aveva ragione di sospettare? Ma passiamo oltre» dice Montesi prima che Farouk possa rispondere. «A questo punto lei, invece di chiamare la polizia, ha nascosto il cadavere di suo cugino in cantina, e l’ha messo sotto sale; dopodiché ne ha assunto l’identità, e si è presentato a Turchese come Ahmed. Avete fatto amicizia, e qualcosa in più; ma una volta arrivato qua Turchese è stato messo al corrente del fatto che lei non era chi diceva di essere, e l’avrebbe smascherata in diretta, perciò l’ha ucciso» «No!» insorge Farouk «Ve l’ho già detto, io amavo Turchese. Sì, è vero, gli avevo nascosto di non essere il vero Ahmed, ma noi ci volevamo bene, Alessandro stava facendo dei progetti per trasferirsi da me a Casablanca, avremmo anche cambiato nome al ristorante, non più “Le Zac e voilà”, ma “Les deux bouchons”» «Molto romantico» commenta Montesi. Poi, cambiando discorso: «Quant’era grande il coltello che ha usato, signor Farouk? Voglio dire, era uno spelucchino, un santoku, uno a lama seghettata, uno per filettare il pesce? Quanto sarà stata lunga la lama, 10 centimetri, 20?» «Il coltello?» risponde Farouk, sospettoso. «Perché me lo chiede? Non ricordo bene… mi pare un trinciante… sarà stato lungo 20, 25 centimetri» «Strano» afferma Montesi, pensoso. «Perché dice strano?» chiede Farouk, confuso. «Eh sì, è strano. Vede, signor Farouk, dall’autopsia eseguita sul corpo di suo cugino, benché sotto sale, il medico legale ha stabilito che Ahmed non è stato ucciso con una lama di venti centimetri» «Le ho detto che non ricordo bene di che coltello si trattava… sarà stata di 30?» azzarda il marocchino. «Nemmeno di trenta. Anzi, a dire la verità non si è trattato di nessuna lama. La ferita era profonda e di forma circolare, compatibile con un corno di rinoceronte. Lei per caso ha un coltello a forma di corno di rinoceronte, signor Farouk?» Farouk tace, a capo chino.
«Lei non ha ucciso suo cugino, nemmeno per sbaglio. Quella sera la moglie di suo cugino la chiamò e le chiese di aiutarla, perché era successo davvero un incidente. Continuo io, signor Farourk, o preferisce andare avanti lei? » Farouk a questo punto raddrizza le spalle, come liberandosi da un peso, e rivela cosa è veramente successo quella sera. « Io e Fatima ci conosciamo da quando eravamo bambini, ci chiamavano i fidanzatini… giocavamo insieme alle bambole, ci scambiavamo i vestiti. Anche una volta cresciuti, quando io scoprii di essere attratto dagli uomini, rimanemmo amici, e ci sentivamo spesso. Fui io a farle conoscere mio cugino, e ancora oggi me ne pento… Ahmed a suo modo aveva un certo fascino, Fatima se ne innamorò, e le due famiglie furono ben contente di benedire il matrimonio. Lì per lì anch’io fui contento, pensai che così avrei potuto continuare a starle vicino, ma non fu così. Ahmed svelò presto il suo carattere: era possessivo, geloso maniacale, e come le dicevo diventava anche violento. Ma questo non è niente… giocava: passava intere notti al Casinò all’Hamza, e perdeva fortune al baccarat… ecco perché la qualità del ristorante crollava: lui non aveva più soldi, e doveva tagliare su tutto. Finché cominciò a fare a Fatima degli strani discorsi. “Noi siamo una famiglia”, le diceva, “e in una famiglia ci si aiuta… abbiamo delle difficoltà economiche, ma possiamo farcela, se tu mi dai una mano”. Fatima credeva che il marito le chiedesse di lavorare al ristorante, e ne sarebbe stata ben felice dato che la teneva praticamente segregata in casa. Ma lui aveva in mente un’altra cosa, e quando gliela disse le fece accapponare la pelle. “Tu sei bella, Fatima, io sono fortunato, sai quanti uomini pagherebbero per passare qualche ora con te?” Fatima ovviamente si scandalizzò, pensò anche che suo marito volesse metterla alla prova per un’altra delle sue scenate di gelosia, ed invece continuò sullo stesso tenore “Non si tratterebbe di tradimento, se il marito è consenziente… sarebbero tutte persone pulite e discrete, non ci sarebbe niente di male. Potremmo lasciarci alle spalle questo brutto momento e ricominciare, magari in un’altra città, a Rabat, ad Agadir, o magari andare in Francia, a Parigi…” Fatima rispose che piuttosto si sarebbe uccisa; lui sul momento lasciò perdere, ma ogni tanto riprendeva il discorso, e prese a picchiarla più spesso; poi magari il giorno dopo le chiedeva scusa… » «Insomma suo cugino avrebbe voluto far prostituire la moglie per coprire i suoi debiti di gioco, ho capito bene signor Farouk? E lei era al corrente di questa storia?» Farouk prende un attimo di tempo, prima di rispondere. «Sì, Fatima me lo confidò. Lei non avrebbe voluto che dicessi niente, ma io andai da Ahmed e gli chiesi a quanto ammontavano i suoi debiti. Avrei venduto casa, la mia quota al ristorante, tutto pur di aiutare Fatima: ma lui mi rise addosso, e disse che ai suoi problemi ci pensava lui e aveva già trovato come risolverli» «E così il giorno dopo si presentò a casa con un cliente, un uomo che Fatima tra l’altro conosceva molto bene; all’inizio lo presentò come ospite ma quando le intenzioni si fecero chiare Fatima si mise a gridare che se ne sarebbe andata e avrebbe chiamato la polizia; Ahmed iniziò a picchiarla, mentre l’uomo sgattaiolava via; lottarono, e Fatima riuscì a liberarsi spingendolo lontano; mio cugino inciampò nel tappeto e cadde di schiena su quella stupida testa di rinoceronte che teneva nel tavolino basso, e si infilzò. Fatima era chiaramente nel panico, sotto shock; mi chiamò e corsi subito ad aiutarla, forse avrei fatto meglio a chiamare la polizia ma non volevo che rimanesse collegata a questo scandalo torbido, così nascosi il cadavere e la aiutai a pulire la stanza» Montesi annuisce, compiaciuto di aver avuto conferma alle sue congetture.
«E così fu davvero un incidente, alla fine. Sì, sarebbe stato meglio se lei avesse chiamato subito la polizia, anche che capisco che non sarebbe stato piacevole spiegare le circostanze. Ma non è tutto, è vero signor Farouk? Continui, la prego» Lo chef marocchino fissa Montesi, e capisce che è venuto il momento di vuotare tutto il sacco. «Dopo qualche giorno iniziai a ricevere delle telefonate. Era un uomo che mi diceva di sapere tutto, che io e Fatima avevamo ucciso Ahmed e lui ne aveva le prove. All’inizio lo mandai al diavolo, ma poi mi mandò una foto, e capii che sapeva davvero quello che era successo.» «Che foto?» chiede Montesi, interessato. «La testa del rinoceronte con il corno insanguinato… per liberarmene l’avevo buttata in un cassonetto, ma evidentemente l’uomo mi aveva visto ed aveva fatto due più due…» «E poi?» «Poi cominciò a chiedermi dei soldi, prima non con grosse somme, ma via via divenne più insistente e voleva sempre di più… finché gli dissi che non gliene avrei più dati, e che il suo rinoceronte poteva metterselo dove voleva. Mi minacciò allora di farmela pagare, e ci è quasi riuscito.» «Signor Farouk, lei ha detto che Fatima conosceva la persona che suo marito gli aveva portato in casa. Lo disse anche a lei?» «Sì, me lo disse» conferma Farouk, a voce bassa. «Mi guardi e risponda attentamente: quella persona è in questa stanza?» «Sì» A questo punto tutti gli astanti iniziano a guardarsi intorno, per individuare nei vicini tracce evidenti di abiezione, secondo gli studi di Lombroso¹. «Può indicarcelo, signor Farouk?» chiede Montesi, facendo cenno a Corinaldi e Piccioni di tenere d’occhio le uscite. «Lui» scandisce a voce alta e ferma Farouk, puntando il dito contro l’uomo che per ben due volte gli aveva dato dell’impostore: il fratello di Ahmed. «Oohh» un bisbiglio di meraviglia si alza dalla platea; l’uomo accusato si alza in piedi di scatto ed estrae dal tabarro una pistola automatica puntandola alla testa della giovane Isolina e facendosene scudo cingendole la gola con un braccio. «Togliti di lì!» intima a Corinaldi, appoggiato alla porta più vicina. Corinaldi, già con l’arma in pugno, dà un’occhiata a Montesi, dopodiché poggia in terra la pistola e, alzando le mani, si allontana. «Brutto finocchio» urla l’uomo a Farouk «non potevi farti gli affari tuoi, no? Ma certo, cosa c’è da aspettarsi da uno che gioca con le bambole… la tua amichetta Fatima sarebbe stata contenta, te lo dico io, le avrei fatto vedere io com’è fatto un vero uomo… e voi» minaccia Montesi «non provate a seguirmi, o le faccio saltare la testa, avete capito?»
Così dicendo indietreggia verso la porta, trascinando la povera Isolina più morta che viva, la apre ed esce; Corinaldi recupera l’arma e si sta per lanciare all’inseguimento, frenato da Montesi, quando l’uomo riappare, con un braccio che pende in maniera innaturale e la pistola della quale si era servito per fuggire puntata alla sua testa, impugnata da una bionda statuaria con una smorfia di disgusto sul bel viso. La donna avanza di qualche passo nella stanza, spingendo l’uomo avanti a sé; lo costringe ad inginocchiarsi, ed estrae dagli stivali della tuta mimetica un coltello da commandos; lo prende per i capelli e gli appoggia la lama alla gola. «No, vi prego …» piagnucola l’uomo, dolorante, sentendo la lama che incide la pelle. Montesi, rimasto interdetto, punta la pistola verso Olena, e le intima di abbassare il coltello. «Non farlo, Olena, non ne vale la pena» le chiede. Olena lo fissa, mentre un raggio di sole si riflette su una goccia del lampadario di Murano e la colpisce negli occhi blu. Senza staccare il coltello dalla gola dell’uomo gli sibila all’orecchio: «Piangi come femminuccia, vero uomo… prega di non incontrare me mai più» poi si rialza di scatto e con un calcio alla schiena lo manda a sbattere la faccia per terra.
¹ Cesare Lombroso sosteneva che l’origine del comportamento criminale sarebbe insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale. Ovvero, se uno ha la faccia da bandito è un bandito. Applicata a determinate categorie è una teoria interessante, ad esempio ai finanzieri, i banchieri, gli speculatori. Peccato che per lo più sia stata applicata a poveracci.