Canta che ti passa

Se qualche anno fa qualcuno avesse scommesso sul mio futuro come cantore, per giunta in un coro parrocchiale, avrebbe avuto scarse probabilità di vincita. Lasciando da parte il mio rapporto con la fede, abbastanza contraddittorio, è proprio delle capacità vocali che sarei stato scettico.

Purtroppo a differenza di tanti, anche famosi, ho il difetto di riuscire ad ascoltarmi: e a quello che sento non assegnerei un bel nove in pagella. Innanzitutto, il suono è un po’ nasale. Va bè, direte, anche Ramazzotti ce l’ha. Si, appunto, Ramazzotti. Da tecnico, potrei dire che l’aria non viene convogliata nelle giuste cavità: ma certi vizi vanno corretti da piccoli, ed ora la soluzione di tagliare il naso mi sembra esteticamente discutibile.

Poi, l’estensione. In un coro, normalmente, ci sono quattro tipi di voci: soprani e contralti per le donne,  tenori e bassi per gli uomini. Per me, le parti del tenore sono troppo alte; quelle dei bassi troppo basse. A volte mi trovo bene con i contralti (le partiture, intendo).

Parliamo di intonazione. Su questo potrei dire con un eufemismo che dovremmo tutti migliorare (tranne la nostra solista e direttrice Donatella); da parte mia mi difendo ma non potrei garantire di azzeccare al primo colpo, e neanche al secondo,  un intervallo con in mezzo qualche accidente (che, credo sappiate, non sono le invettive lanciate verso gli altri coristi, pur necessarie, ma i diesis o bemolli… insomma i soliti tasti neri).

“Ma allora, scusa, chi te lo fa fare?” – direte. Non che non me lo chieda anch’io, almeno una volta la settimana, ma gli avvenimenti mi hanno preso la mano.

Io volevo suonare l’organo. Il coretto esistente, da cui mi ero tenuto accuratamente alla larga, era ormai ai minimi termini: erano rimaste solo in due, di cui una specializzata nei salmi. Non essendo addentro alle liturgie, pensavo che li inventasse lì per lì: tra l’altro mi sembravano tutti uguali.

Non so perché, forse fu dopo un salmo particolarmente deprimente, ma mi offrii di accompagnarle.  L’offerta venne accolta con entusiasmo tale da rendere impossibile la ritirata. Il fatto che sapessi suonare la chitarra, e non l’organo, fu archiviato come particolare secondario. Realizzato che la gamba era un po’ più corta del passo, dovetti comprare una tastiera e imparare gli accordi.

Passammo dei mesi a ricostituire il coro, reclutando vecchie e nuove coriste (gli uomini generalmente preferiscono cantare nei cori alpini, strada che non mi precludo); preparare un repertorio di canti decente e non troppo datato; nel frattempo io cercavo di prendere un po’ di dimestichezza con il nuovo mezzo. Arrivammo alla data stabilita per il debutto, una Pasqua.

Vi ho già detto che in banda il debutto era previsto per il venerdì santo, contribuendo allo strazio generale: ma per un coro ricostituito non ci sembrava di buonissimo augurio. Successe però un piccolo imprevisto.

Per lavoro mi è capitato, ogni tanto, di dover andare all’estero. Nella fattispecie a Praga, magnifica città ma che in quel frangente non potei ammirare come meritava. Infatti, appena arrivato, uscendo dall’albergo inciampai su una rotaia del tram. Sentii un rumorino, ma non ci feci caso. La sera, il ginocchio mi si era gonfiato come un melone: si era lesionato un menisco. Anni e anni di calcio senza un infortunio, e un menisco rotto per attraversare la strada. Ciò non mi impedì la sera di trincare birra in una bettola con i colleghi e brindare con una acquavite al retrogusto di idrocarburi, la Slivovitz, che consiglio come anestetico ; ma al ritorno dovetti apprestarmi all’operazione. Per il debutto, ero convalescente e con le stampelle. La mia consorte scuoteva la testa.

Fu quindi con particolare emozione che eseguii le gioiose note della Resurrezione. Magari un po’ meccanicamente,  a scatti; e con la mia tastiera perché dell’organo ancora non mi sentivo degno.  Insomma, un 6+; però dopo anni di canti a cappella (lungi da me ogni intenzione di  doppio senso) era un miglioramento notevole. Alla fine della cerimonia un fedele si avvicinò e dopo i complimenti dichiarò di saper suonare l’organo. Sono dell’opinione che se non mi avesse sentito suonare mai e poi mai si sarebbe fatto avanti: sicuramente nel suo animo gioia pasquale e sofferenza  musicale quel giorno avevano dibattuto a lungo. Fu arruolato all’istante.

A quel punto, la mia missione si sarebbe potuta considerare conclusa  ma non colsi l’attimo.

La domenica, dopo la messa, chiedo sempre un giudizio al mio critico personale. In genere dice che il coro ha cantato bene, io così così. Non è chiaro se lo faccia per spingermi a migliorare o per invitarmi a smetterla: ma se spera che smetta prima di avermi assegnato un bel “bravo” sbaglia di grosso.

(40. continua)

191331-slivovitz-main