Tu quoque, Caie, fili mi!

Rassicuro gli amici lettori, sono ancora vivo se non del tutto vegeto. Un picco inopinato di lavoro mi ha travolto, ragione in più per auspicare che vada al più presto in porto la sacrosanta quota 100 che mi permetterebbe di avere più tempo libero. Così, non riuscendo a leggere come vorrei, mi astengo anche dallo scrivere.

Anche Olena & company sono preoccupati, e stanno pensando di chiedere il sussidio di disoccupazione, intanto che il loro autore preferito riscopra quella verve e quella joie de vivre che lo contraddistingueva.

Ogni tanto qualche episodio solleva il mio umore, come ad esempio l’altra sera quando al quiz “L’Eredità” alla domanda “A chi si rivolgeva Cesare, mentre lo stavano uccidendo, dicendo: Anche tu, figlio mio?”. La sublime risposta è stata: “A Caio”.  Purtroppo in quel momento stavo sorbendo una vellutata di zucca fatta amorevolmente e con competenza dalla mia signora, e lo scoppio di risa me l’ha fatta spargere sulla tovaglia, con rimbrotto seguito dal solito: “E vacci tu, allora, saputone!” che mi ha indotto a meditare sui danni del suffragio universale.

Per distrarmi, domenica scorsa, avevo in animo di visitare i mercatini di Emergency, a Milano, e dare un’occhiata all’Adorazione dei Magi del Perugino, in mostra a palazzo Marino. Mi sono quindi recato con l’intera famigliola alla stazione delle Nord da dove pendolo quotidianamente, per scoprire che c’era uno sciopero ed i treni non viaggiavano. Il tutto, minimizzavano le ferrovie Nord, per protestare contro un cambio di orario. Non dicevano, gli infingardi, che il nuovo orario prevedeva il taglio di oltre 150 corse giornaliere, sostituite in minima parte da autobus. Qualche illuminato in Regione Lombardia dovrebbe spiegare come mai si sono spesi miliardi per Pedemontane e Brebemi inutili (e se ne vogliono spendere altrettanti: le infrastrutture vanno fatte senza se e senza ma, va sostenendo il nostro Misirizzi¹ ) lasciando al palo i treni pendolari, che sarebbero stati più che necessari sia per decongestionare il traffico che per migliorare la qualità dell’aria: poi ci si riempie la bocca di lotta all’inquinamento, al riscaldamento globale bla bla! Qualche buontempone sostiene che bisognerebbe mangiare meno carne per contribuire a ridurre i gas serra: e allora io proclamo che lo farò solo quando le miniere di carbone saranno chiuse tutte, i pozzi di petrolio saranno prosciugati e le Ferrovie Nord faranno viaggiare i treni necessari!

Annullata per forza maggiore la gita milanese, ci siamo quindi orientati ai mercatini di Natale comaschi. Amici, posso affermare senza ombra di dubbio che poche cose mi rompono le scatole come visitare i mercatini di Natale. Diciamo che il livello è più o meno quello della Fiera dell’Artigianato di Rho, solo che lì almeno si mangia (non mi sono fatto mancare nemmeno quello, comunque, a S.Ambrogio quando notoriamente non c’è nessuno: bellissimo vedere gli stand degli Usa e dell’Iran vicini! Ignoro cosa sia stato esposto di oggetti di artigianato, io ho girato solo stand gastronomici assaggiando l’assaggiabile e comperando qualche liquore, in testa la Becherovka ceca ed il Mirto sardo). A Como, insomma, c’era il delirio. Non sono nemmeno riuscito ad avvicinarmi alle casette natalizie, prese d’assalto; mi sono rifugiato in una pasticceria davanti ad una cioccolata al peperoncino e qualche cannoncino a riflettere se sono io ad essere diventato troppo snob o gli altri ad essere diventati deficienti, e per un momento ho accarezzato l’idea di iscrivermi al partito democratico.

A proposito di Partito Democratico, sto leggendo la biografia di Michelle Robinson in  Obama, lo consiglio a tutti perché sia la sua storia che quella di suo marito Barak sono esemplari per capire un pò meglio l’America, questo paese di grandi opportunità,  grande vitalità e grandi contraddizioni… come si possa passare da Obama a Trump è un mistero che solo gli americani e gli hacker russi comprendono.

Se questo fine settimana riuscirò ad andare a Milano, Ferrovie Nord permettendo, non mancherò di fare un reportage fotografico, se non altro per aggiornarvi sullo stato del bananeto di Piazza Duomo!

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¹ Vago riferimento ad un uomo politico che stava meritevolmente perendo con il suo partito di portatori di gioielli in Tanzania ma si è ripreso a tal punto da diventare lo statista che tutti vogliono. Persino gli israeliani, per dire pure questi come si sono ridotti.

Natale con Olena (X) – the end

Gilda, ancora incredula, appoggia la cornetta dell’interfono sulla sua base.
«James?»
«Signora?»
«Tirami fuori qualcosa di comodo, caro, andiamo a prendere il signore.»
«Come desidera signora. Posso consigliare la sahariana cachi?» – chiede James, pensoso.
«Lascia stare i cachi, James. Meno formale, se mi sono spiegata»
«Benissimo, signora. Se vuol perdonarmi un attimo» – dice James rinculando, avviandosi al guardaroba di Gilda.

Svengard ripone il barile di aringhe fermentate nel magazzino che è anche la sua stanza. Si siede sul letto, un asse di quercia con sopra un pagliericcio, e ripensa alle parole del saggio cinese Po: “Pallale, o glande uomo del Nold, pallale!”. Si alza, deciso, e si avvia verso il laboratorio.

Gilda e James sono davanti all’ingresso del laboratorio, dopo aver preso il treno Maglev guidato dal puntuale Hidetoshi Nakata. Gilda indossa una tuta color rosso fragola in maturazione di D&G, abbinata a scarpine  scintillanti. James le è di fiancoi; la Calva Tettuta lo guarda pensosa, con la testa lievemente inclinata e l’indice appoggiato alle labbra, e osserva:
«Quel caftano ti dona, James, sfina» – indicando la tunica che James indossa sopra la divisa da maggiordomo.
«Troppo buona, signora. Ho preso il primo straccetto che mi è capitato in mano»
«Hai sempre buon gusto, James. James caro, che significa “Access denied”?» – chiede indicando la risposta del lettore di iride che controlla il personale autorizzato all’ingresso nel laboratorio.
«Temo che la signora sia stata disabilitata» – ipotizza un perplesso James.
«Disabilitata? Ma io sono la moglie!» – sbotta Gilda.
«Il signore deve essere corrucciato»
«Corrucciato dici? Bene, adesso vediamo» – e cominciando a tempestare di pugni la porta blindata intima al marito:
«Evaristo! Apri immediatamente questa porta! Evaristo ti avverto, se non apri questa porta entro tre secondi faccio uno sproposito! Uno… due… Evaristo!» – finalmente dall’altra parte il cavalier Rana risponde:
«Gilda, che sei venuta a fare qua? Vattene, per favore» – chiede con voce troppo calma il cavaliere.
«Evaristo, apri questa porta. Non so che stai combinando, ma è ora di finirla con questa storia. Facci entrare e libera immediatamente quei ragazzi!»
Dopo tre secondi di silenzio totale, si sente il lieve clic della serratura della porta blindata. Gilda e James entrano nel laboratorio, dove il cavalier Rana è solo, in piedi, vicino ad una delle caldaie.
«Evaristo, per l’amor del cielo, torniamo a casa. Tu stai male, devi farti vedere da un medico» – cerca di convincerlo una preoccupata Gilda
«Male dici? Ah, ah» – risponde Rana con una risata lievemente inquietante – «Male? Non sono mai stato così bene invece, mia cara! La vedi questa?» – dice indicando una chiavetta USB che tiene in mano – «questa ci farà diventare ricchi!»
«Ma Evaristo noi siamo già ricchi, non ti basta ancora? Quanto ricco vuoi diventare?»
«Immensamente ricchi, cara mia… qui dentro c’è la formula per una tecnologia che ci permetterà di controllare la mente delle persone… nanocomputer in grado di installarsi direttamente nel cervello umano, che possono agire in rete ed essere comandati a distanza… con questi possiamo condizionare le persone e costringerli a comprare solo e sempre da noi…»
«Caro, per quello non c’è già la televisione o internet? Lascia stare i nani, caro, noi facciamo tortellini!» – cerca di riportarlo alla ragionevolezza Gilda
«E’ proprio questo che ci permetterà di prendere il possesso delle loro menti! Glieli aggiungeremo negli impasti e li introdurranno senza saperlo! E convinceranno altri a farlo! E ne vorranno sempre di più, ne imploreranno sempre di più, sempre di più, sempre di più! » – delira ormai il cavaliere.
Gilda guarda con orrore l’uomo che pensava di conoscere.
«Evaristo, è ufficiale, tu sei pazzo. Apri subito la porta del centro e fai uscire i ragazzi. Poi andiamo a casa, che ti faccio una puntura e chiamo il dottore. James, dammi una mano per favore» – ordina Gilda, cercando appoggio nel maggiordomo per riportare il marito alla calma.
«Fermi! Non muovetevi o sparo!» – intima il cavaliere, estraendo dalla tasca una vecchia Beretta M34.
«Evaristo per l’amor del cielo, metti via quella pistola! Che tanto non la sai usare» – azzarda Gilda. Il cavaliere, beffardo, risponde: «Vogliamo provare, Gilda cara?» – poi, indicando il cartello dove campeggia la scritta “Attenzione – pericolo” dice: «Volevi liberare i precari, cara? Accomodatevi, tu e il tuo chauffeur!» – dice spingendo i due verso la porta serrata.
«Mi permetto di correggerla signore, si dice butler  non chauffeur» – puntualizza un forse poco tempestivo James.
«Ma vaffanculo te e il butler!» – è la risposta del cavaliere, che apre la porta stagna con il telecomando e, spingendo dentro Gilda e il maggiordomo, si congeda con: «E salutatemi i precari!».
Poi rimessa in tasca la pistola, si avvicina alle caldaie e mette tutte le manopole della pressione al massimo. Un ultimo sguardo indietro ed esce, chiudendo la porta blindata, con un ghigno sul volto.

Nella foresta domestica i pigmei sono in agitazione. Qualcuno è uscito dal laboratorio e si avvicina a passi veloci. Lo riconoscono, è l’uomo che li nutre con quelle ciufeche ma che ogni tanto gli permette di rosicchiare qualcuno. I pigmei gli si fanno incontro.
«Pigmei, ascoltate!» – richiama l’attenzione il cavaliere. «Io me ne vado per un po’, voi arrangiatevi. Ah, prima di andare potete mangiare Christian De Sica.» – concede un magnanimo cavaliere, provocando mugolii di apprezzamento.
Silenziosamente, da dietro il gruppo di pigmei appare Olena, statuaria, divisa mimetica e colbacco in testa, con a tracolla il fido lanciarazzi RPG-32 Hashim.
«Dove voi pensa di andare, signuore?» – chiede Olena. I pigmei, impressionati, si prostrano e commentano sussurrando “bona”, “bona bona”. Il cavaliere, sorpreso, al vedere la russa tira un sospiro di sollievo.
«Ah, sei tu Natascia? Come mai hai lasciato la nonna? Fammi passare, non ti interessa dove vado»
«Me non interessa voi. Interessa quello che avere in tasca» – mette in chiaro le cose Olena.
«Quello che ho…» – prende tempo il cavaliere, rendendosi conto solo in quel momento della situazione. – «Quello che ho in tasca dici? Questo ho in tasca, in alto le mani!» – intima estraendo la Beretta. Olena lo guarda, con un sorriso sardonico. «Attento, tu potere fare male te con quella» – dice guardandolo negli occhi. – «Tu consegna me pistola e chiavetta, e nessuno fare male» – in tono che non ammette repliche. Il cavaliere, non decifrando il linguaggio del corpo dei pigmei, avanza verso Olena: «Te lo faccio vedere io se qualcuno si fa male» – dice prendendo la mira. Mentre Olena continua a sorridere, per niente impressionata, i pigmei si rialzano e la coprono, mettendosi uno sopra all’altro salendogli sulle spalle. Poi, lentamente, con in testa Gnugnu, iniziano ad avanzare verso il cavaliere.
«Ma che… Toglietevi dalle palle, teste di cazzo!» – ordina il cavaliere ai pigmei, ma è ormai troppo tardi. Questi gli sono addosso, lo disarmano e lo buttano a terra.
«No, fermi! Maledetti… Natascia, diglielo tu, fermali! Natascia, tieni, ecco la chiavetta, qui c’è dentro la formula, ma per carità liberami. Natascia!» – urla il cavaliere, terrorizzato.
Olena sorride al cavaliere, prende dalle sue mani la chiavetta, poi sorride a Gnugnu e fa un cenno di assenso con il capo.

«Buon appetito» – concede ai suoi devoti fedeli.

Svendard è a metà strada, quando sente il rumore delle esplosioni. Si mette a correre, e quando arriva a vedere il laboratorio inorridisce, vedendo i bagliori delle fiamme dell’incendio che sta sviluppando dentro.
Dalla gola emette un grido fortissimo: «Tullsta! Tullsta!» – che in norreno sarebbe «Gilda! Gilda!» e si lancia verso le fiamme.
Olena sta tornando verso la villa, quando sente l’urlo di Svengard, e sente una fitta allo stomaco. L’unico uomo che le ha resistito ha bisogno di aiuto, e si lancia nella sua direzione. Arrivata a 100 metri lo vede, intento a cercare di sfondare la porta blindata. Si inginocchia con il fido RPG-32 Hashim in spalla, e lo chiama: «Svengard! Svengard!» – finché il norreno non la sente e si ferma.
«Giù la testa, coglione»¹ – sussurra Olena mirando la porta blindata, appena prima di premere il grilletto.
La porta blindata viene polverizzata e Svengard entra nel laboratorio incendiato. Dal fondo sente un richiamo: «Aiuto! Aiuto! Liberateci!» – e riconosce la voce di Gilda. Afferra un calorifero in ghisa e getta 120 chili di vichingo e 50 di calorifero contro la porta che lo separa dal suo amore. Sotto l’urto i cardini cedono e Svengard piomba lungo disteso nello stanzone dove sono rinchiusi Gilda, James e i dieci ricercatori precari.
Gilda gli si china sopra e lo guarda attentamente, finalmente riconoscendolo: «Ah, sì tu? Fréchete, quanto c’ì misso a svegliatte!» – e lo prende dolcemente per mano, aiutandolo ad alzarsi.

Epilogo

All’ultimo piano dell’hotel Best Moskow, a due passi dal Cremlino e dalla Piazza Rossa, la cameriera del piano sta spingendo il vassoio della colazione che si appresta a portare nella suite presidenziale.
La ragazza, lunghi capelli neri raccolti in una coda, elegante nella divisa bianca e blu dell’albergo, bussa alla porta.
«Chi è?» – chiede una voce autoritaria dall’interno.
«Servizio in camera, signore» – risponde la cameriera
«Ah, si. Entri, lasci pure sul tavolo del salottino est»
La cameriera entra, apparecchia il tavolo del salottino scelto per la colazione, osserva la disposizione e poi chiede: «La colazione è pronta, signore. Ha bisogno di altro?» – e attende che dal bagno arrivi la risposta: «No, grazie, può andare».
La cameriera saluta ed esce, lasciando dentro il carrello con le bevande in caldo.
Nel bagno un uomo, disteso nella vasca Jacuzzi, sta parlando al telefono.
«Da, Da, John, ti ho detto che domani ce l’avrai. Che significa ci sono intoppi burocratici? John, guarda che la merce me l’hanno chiesta anche gli arabi… e quelli non hanno problemi di soldi. Ti sembrano troppi tre trilioni di dollari? Ma ti stai rendendo conto dell’importanza di questa scoperta? Ti rendi conto che significa poter controllare il cervello di chi è al potere nei vari paesi? John, non farmi perdere la pazienza!» – intima l’uomo all’interlocutore che sta tergiversando – «Se entro due ore non vedo il bonifico chiamo Kim. Vuoi che dia la scoperta a Kim? No? E allora muovi le chiappe, perdio! – e spegne il cellulare, gettandolo lontano con un gesto di stizza.
Solo allora l’uomo si accorge della figura in piedi nel vano della porta. La divisa da cameriera, ma i capelli biondi. Si gira verso di lei, paralizzato. La ragazza parla, la voce carica di delusione:
«E’ sempre stata una questione di soldi, vero? Solo soldi» – chiede Olena all’uomo nella Jacuzzi
«Ma chi… capitano Smirnoff! Come avete fatto a entrare?» – si guarda intorno cercando la pistola, rimpiangendo di averla lasciata nell’altra stanza. Olena coglie il suo sguardo.
«Cercate questa, colonnello Kutnezof?» – mostrandogli la Makarov a cui il colonnello è rimasto affezionato.
«Capitano, vi sapevamo ancora in Italia… come ha fatto…» – chiede il colonnello, preoccupato.
«Intende come ho fatto ad arrivare senza essere localizzata, colonnello?» – e gli mostra l’avambraccio, dove un cerotto copre i tagli del bisturi con cui Olena si è espiantata il chip. La ragazza continua, con disprezzo:
«Ideali, patria… soldi, solo soldi! Ho pulito il culo ad una vecchia per due anni, e si trattava solo di soldi!» – accusa Olena, sdegnata. Il colonnello abbassa la testa, sembra colpito. Poi la rialza, con aria di sfida:
«Ideali! Patria! Vieni a parlare a me di ideali! Questi sono i miei ideali!» – e così dicendo si alza in piedi, mostrando le cicatrici delle pallottole ricevute in Afghanistan e qualcos’altro che Olena valuta insufficiente. Il colonnello continua:
«Dov’erano gli ideali quando sono andati al potere mafiosi, papponi, ubriaconi, corrotti, quando si sono spartiti tutto, petrolio, gas, banche, quando hanno mandato sul lastrico milioni di famiglie! Dov’erano tutti questi difensori di ideali? Mi sono stancato di gente che si riempie la bocca di patria e manda gli altri a morire! Si, soldi, si tratta di soldi, adesso è il mio turno Olena, tocca a me far girare la giostra adesso! E anche tu puoi farne parte, se vuoi… possiamo dividere, ho già i compratori… dammi retta Olena!»
Olena ascolta colpita dalle parole del vecchio soldato, che nudo davanti a lei le spiattella una verità che non avrebbe voluto sentire.
«Questo non sarà mai, colonnello. Sedetevi, prego» – dice Olena, cercando di far recuperare un minimo di dignità al suo superiore. Ma il colonnello ormai non ha più freni:
«Sei una stupida Olena! Guardati intorno! La guerra l’abbiamo persa, lo vuoi capire, l’abbiamo persa! La loro bandiera sventola lì, sulla piazza Rossa, come la nostra sventolò un giorno sul Reichstag!» – proclama enfaticamente Kutnezov, indicando la bandiera di McDonalds.
«Noi non abbiamo perso.» – scandisce Olena – «Voi! avete tradito.» – e così dicendo, estrae la chiavetta USB e la schiaccia con il tacco dello stivale.
«No!!! Disgraziata, cosa hai fatto!!! Hai distrutto la nostra fortuna, la mia fortuna» – piange il colonnello, cadendo in ginocchio. Ma Olena ha già voltato le spalle. Il tempo di montare il silenziatore, si gira e spara.

«Увидимся в аду, полковник»² – saluta Olena, soffiando sulla canna della pistola.

Dalla porta girevole dell’albergo esce una donna alta, avvolta da un mantello violetto, con un cappuccio calato sugli occhi. Un’occhiata intorno senza alzare lo sguardo, e scende le scale che la portano al marciapiede. Di fronte all’albergo una Maserati con vetri oscurati.
Olena valuta la situazione. Troppo allo scoperto, scappare è impossibile. Stringe la Makarov del colonnello nella tasca del mantello, e avanza verso la macchina. Vede il finestrino abbassarsi, è pronta.
«Natascia!» – sente chiamare – «Natascia! Vieni qui, figlietta!»
Sbalordita, Olena si avvicina all’auto. Apre la portiera posteriore, e vede nonna Pina, in pelliccia di visone, fumare una sigaretta da un lungo bocchino. La vecchia sorride beffarda.
«E dai Natascia, sali, non abbiamo tutto il giorno» – la incita nonna Pina.
Natascia chiude la portiera e sta per fare il giro della macchina, quando dal posto di guida esce qualcuno che conosce bene. James, impeccabile nel suo completo da maggiordomo ma con in testa  un cappello da poliziotto ricevuto in dono dai Village People, scende e gli apre la portiera.
Gli sorride, e guardandola fissa negli occhi le dice:
«Si accomodi madame, benvenuta»
Olena si ferma un attimo. Guarda nonna Pina che ridacchia, e James che le sorride.
Alza gli occhi verso il cielo, ed il sole rimbalza nei suoi occhi blu e colpisce la visiera del cappello di James. Mentre un sorriso le illumina finalmente il viso, guarda James con qualcosa che somiglia ad affetto e gli dice:

«Fatti in là, finuocchietto. Guido io».

THE END

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¹ Confesso che ho scritto tutto questo solo per poter mettere da qualche parte questa citazione.
² “Ci vediamo all’inferno, colonnello”

Natale con Olena (IV)

Prima di continuare osserviamo un minuto di silenzio in memoria di Everardo Dalla Noce. Ha spaziato dall’economia al softball, un esempio per tutti noi.

«James caro, mi reco un attimo dal mio consorte. Pensi che sia presentabile? » – chiede Gilda al compunto maggiordomo
«Lei è sempre impeccabile, signora» – risponde James, fissando avidamente gli occhiali da sole con  montatura arancio costellata di strass che troneggiano sul nasino di Gilda
«Te l’ho già detto che sei un bricconcello adulatore, vero? A proposito James, il caffè era stupendo, come al solito»
«Troppo buona, signora» – si schermisce con modestia James, ripensando alle due palline marroncine sottratte dalla gabbietta del criceto Ciucci ed aggiunte al Lavazza di Totò.

Nella foresta domestica intanto la colonia pigmea è in subbuglio. Il giovane Gnugnu, orgoglio della tribù per scaltrezza e appetito, è sparito. La cerbottana è al suo posto, così come il randello, ma di Gnugnu nessuna traccia. I pigmei, nell’idioma da loro utilizzato per comunicare, che ad un orecchio non allenato potrebbe richiamare il dialetto di Locorotondo, o anche Martinafranca, commentano la scomparsa.
C’è da dire che nel periodo trascorso presso il cavalier Rana la loro cultura ha fatto notevoli passi avanti, e il loro lessico si è arricchito enormemente: “bono”, “bona”, “cotto”, “crudo”, “passa sale”, “duro” ed al momento studiano i verbi transitivi.
I pigmei sospettano infatti di un gruppo di pastori sardi transumanti, ai quali avevano tentato di sottrarre qualche capo di bestiame senza successo, imparando a loro spese che quando un uomo con un randello incontra un uomo con una pattadesa, quello col randello è un uomo morto o giù di lì.

Gilda scende con l’ascensore nel sotterraneo, che si collega con il laboratorio con un tunnel attraverso il quale passa un treno Maglev guidato da Hidetoshi Nakata, vecchio centrocampista in disuso.
Dopo 5 secondi il treno la deposita sulla banchina sotterranea del laboratorio. Gilda scende con agilità ed imbocca l’ascensore per il piano superiore. All’ingresso del laboratorio avvicina gli occhi al lettore di iride, e la porta si spalanca con un clic appena accennato.
«Amoreee!» – cinguetta Gilda – «Eccomi qua, mi cercavi?»
Il cavalier Rana alza la testa dal tavolo su cui sono sparsi decine di libri di erbe, muschi e licheni.
«Gilda sono un po’ perplesso, mi serve un tuo parere» – dice il Rana
«Ma certo amore, c’è qui la tua Gilda, non preoccuparti. Tra l’altro ti ho portato qualche biscottino di mosto, di quelli che ti piacciono tanto» – dice Gilda svelando il contenuto del paniere che aveva portato con se dalla villa. «Li ho fatti con le mie manine, sono ancora caldi» – in realtà i biscotti provengono dal panificio Sigismondi, via monti Sibillini 23 Serrapetrona, un suo lontano cugino a cui Gilda commissiona una fornitura quotidiana. Il cavaliere ne prende uno e lo morde.
«Mmhh, che bontà! Gilda, tu hai le mani d’oro, ma non devi sciuparle così, come te lo devo dire. C’è la servitù per questo! »
«Non è niente amore, lo faccio volentieri. Vuoi che ti dica qualche parolaccia?» – fa Gilda ammiccante
«Magari più tardi Gilda cara, come avessi accettato»
«Sicuru sicuru porcelló de Gilda tua?»
«Gilda ti prego » – resiste il Rana, slacciandosi il colletto della camicia
«Stanotte non facìi tantu lu schizzinusu, quanno te frustavo le chiappe!»
«Gilda!!! Per favore..» – ansima il Rana. Gilda si ricompone.
«E va bene Evaristo, come vuoi. Tanto lo so che non mi ami più come una volta» – declama una melodrammatica Gilda, portandosi il dorso della mano alla fronte.

I pigmei non credono ai proprio occhi. Una gigantessa con stivali di pelle, un buffo costume ed un roditore scuoiato in testa sta trascinando qualcosa con un sottile cordino di cuoio. Dalla cintura della gigantessa  pende una zucca vuota con cui gli uomini del piccolo popolo sogliono coprire e proteggere le pudenda. Un’occhiata più attenta al sacco informe che viene trascinato suscita un moto di orrore nei suggestionabili primitivi: Gnugnu! Del guerriero vigoroso del giorno prima non è rimasto che l’involucro esterno, pelle avvizzita e cadente, un relitto umano con gli occhi fuori dalle orbite, che muove convulsamente le mani davanti a se, singhiozza e grida “agnagna! agnagna!” che come tutti sanno nel linguaggio pigmeo significa “basta! basta!” . Maleficio! Timorosi i pigmei rinculano, non bene come lo farebbe James ma decentemente.
La gigantessa scioglie la zucca, e la getta ai piedi dei terrorizzati indigeni. Il metro e ottantadue di Olena più tacchi sovrasta gli annichiliti tappetti.
«Finuocchietti!» – li apostrofa sprezzante
«Inginocchiate voi di fruonte a me!» – e per meglio convincerli lancia Gnugnu o quel che ne resta ad una decina di metri di distanza.
I pigmei, convinti, si prostrano.
Olena alza il volto al cielo, ed un raggio di sole si riflette nei suoi occhi azzurri andando a colpire la zucca vuota. Un sorriso di trionfo illumina il suo volto.

«Io suono Oliena, vuostro dio!»

 

Evaristo e il cavalier Rana sono la stessa persona? Cosa sono i biscotti di mosto? Che arti ha messo in pratica Olena per soggiogare i pigmei? Lo scopriremo nelle prossime puntate.

COLBA

Cultura come se grandinasse!

La scorsa settimana è stata molto intensa perché ho deciso di fare una overdose di cultura. A che pro, vi chiederete, non sei già quell’uomo grave la cui cultura eclettica spazia dall’ ”Avere o Essere” di Erich Fromm al “Vie’ qua, famme ‘na pompa” di Cristian De Sica in S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa?
Lo sono certamente, ma un sovrappiù di gravità non guasta mai.

E dunque ho iniziato lunedì sera con:
“Intro a Caravaggio”, una presentazione della mostra “Dentro Caravaggio” che si tiene in questi giorni a Milano, al Palazzo Reale. Capisco io qualcosa di pittura? Pochino, e sinceramente sapere come Caravaggio avesse disegnato le forme che ha poi deciso di dipingere e poi perché non le abbia dipinte precisamente come le ha disegnate non mi appassiona granché; vedere i quadri e sentirli spiegare da qualcuno competente è invece sempre una bella esperienza, non essendo esperto di niente in particolare ammiro sempre chi lo è veramente di qualcosa, specialmente di quelli più modesti che dicono che, nonostante una vita di studi, c’è sempre da imparare.
Caravaggio era un pluriomicida, ma fortunatamente non è venuto in mente a nessuno di distruggere i suoi quadri per questo.

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Trovo ridicolo che, nell’ultimo film girato da Kevin Spacey, bravo attore accusato di un fatto di molestie ad un minore avvenuto anni fa,  a film finito la sua parte sia stata cancellata e rigirata da un altro attore. Una forma di moderna damnatio memoriae, adesso che si farà, si rigireranno tutti i film interpretati da lui? Vogliamo costruire una neo-realtà?  E tutto per permettere al sistema Hollywood di rifarsi una verginità? Mi chiedo: ma qualcuno si è veramente scandalizzato di quello che sta emergendo da quell’ambiente?

Al martedì si continua con la pittura, e precisamente con un film su “Bosch – Il giardino delle delizie” un documentario su Hieronymus Bosch ed in particolare sul suo dipinto più famoso. Bosch mi piace molto, i suoi dipinti visionari mi ricordano alcuni racconti di  Lanciostory che leggevo negli anni ’70; la sua vita normale contrasta con le sue opere, alcune delle quali sembrano dipinte sotto effetto di sostanze stupefacenti. Lo scorso maggio al Museo del Prado, a Madrid, ho passato un’oretta nella sala di Bosch, passando dall’uno all’altro dei suoi quadri cercando di capirci qualcosa; mi ha confortato che gente molto più avvezza di me a cimentarsi con l’arte abbia gli stessi dubbi, e la sensazione che alcuni misteri rimangono ancora e sempre rimarranno, perché purtroppo abbiamo perso alcune chiavi di decifrazione di quel linguaggio. Se vi capita andate a vederlo, sul grande schermo i colori e le figure di quei dipinti sono fantastici.

Tra cinquecento anni qualcuno guarderà ancora con stupore qualche opera fatta oggi? O piuttosto guarderà ancora ammirato e stupito le opere di Caravaggio o Bosch?

Al mercoledì riposo. Il mal di gola mi ha impedito di partecipare alle prove del coretto di cui faccio parte, e così mi sono rivisto l’ennesima replica del Commissario Montalbano, sempre gradita, con presentazione di Camilleri sul tema della violenza contro le donne.
Sarà stato l’argomento, saranno state quelle due lineette di febbre unite ai quadri di Bosch e all’alfabeto cirillico col quale mi sto cimentando, per ora con risultati modesti, ma ho passato una notte agitata da incubi mostruosi.

Al giovedì do il mio contributo alla creazione di cultura, dirigendo il gruppetto teatrale per il quale sono autore, regista e produttore. Preciso di non richiedere alcun compenso alle attrici di nessuna natura. In questa veste posso dare libero sfogo a tutto il mio pressapochismo, ed infatti: So recitare? No. So scrivere? Mah, insomma. Ho i soldi per produrre spettacoli? Assolutamente no. E quindi facciamo quello che possiamo, finché i ragazzi si divertiranno continuerò a seguirli, quando si stuferanno smetterò anch’io. L’ultima commediola l’ho scritta in due giorni, pensando più che altro ai costumi che avrei potuto utilizzare senza dover attingere alla risicata cassa.

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Venerdì si passa alla musica sacra: “Concerto Elevazione Spirituale”, canti gregoriani in basilica romanica. Ricordate che poco tempo fa vi parlai di sorprese riguardo al canto gregoriano? Dopo questa serata temo che di sorprese non dobbiate attendervene più. Un’ora di canti gregoriani, per di più al freddo, fiacca anche gli spiriti più forti e sospetto che siano usati come metodo coercitivo a Guantanamo. Una delle ore più lunghe della mia vita! Ho cercato di immedesimarmi nei pii monaci, ma non sono riuscito a raggiungere quello stato di concentrazione che avrebbe potuto elevarmi spiritualmente; prima di tutto perché battevo i denti, e secondo perché vicino a me c’erano dei bambinetti che genitori sadici avevano portato all’evento mistico, e giustamente facevano i bambini rompendo le scatole ai vicini, almeno per i primi 20 minuti finché non si sono addormentati. Verso il quarantacinquesimo minuti dalle retrovie si è sentito un grugnito, come di uno che stesse dormendo e si fosse risvegliato all’improvviso. Non mi sono elevato ma in compenso ho fatto in tempo a correre a casa prima della fine della partita di calcio Svezia-Italia, strazio tale da far rimpiangere il gregoriano.

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Sabato teatro, al Piccolo Teatro Mariangela Melato, ad assistere al dramma “Uomini e no”, tratto dal romanzo di Elio Vittorini. Interpreti dei bravissimi attori, allievi del Piccolo Teatro; mi è piaciuto tutto compreso il teatro dove non ero mai stato, con la platea a semicerchio e al posto della galleria le balconate, come si fosse in una casa di ringhiera.
Ambientato nel ’44, ma attuale sempre: si è uomini anche quando si compiono delle atrocità? Convive in ciascuno di noi una parte umana con una non umana?

Una considerazione artistica: si scrivono ancora opere così, o gli intellettuali sono finiti, o se non sono almeno morti non se li fila più nessuno?

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E infine domenica sveglia ad orario lavorativo per la: “Visita di Cremona con il treno a vapore”! Organizzata dal FAI, Fondo Ambiente Italiano, viaggio Milano-Cremona su treno d’epoca trainato da una locomotiva a vapore; e visita guidata ai monumenti principali, al Museo del Violino e ad una bottega di liutaio. Quest’ultima parte è quella che più mi è piaciuta, prima di tutto perché vedere qualcuno lavorare è sempre piacevole, e poi per il garbo con il quale la brava liutaia francese ci ha illustrato i procedimenti di creazione del meraviglioso strumento. Strumento che cercai di padroneggiare in età avanzata ma non ce la feci, anzi rimasi al livello di suonatore straziante finché una provvidenziale tendinite alla spalla non mi diede la scusa per smettere. Per fare un buon violino occorrono due-tre mesi, e per acquistarlo 10.000 euro sono un prezzo ragionevole. Il mio l’avevo acquistato per 53 euro completo di archetto e astuccio, fate voi: aveva ben ragione la mia maestra ad ammonirmi che non potevo pretendere chissà che cercando di suonare una cassetta di arance.
Devo dire per il resto di essere rimasto un po’ deluso, perché delle famose tre T di Cremona ne ho viste solo due (Torroni e Torrazzo) e la terza invece, che mi avrebbe un attimo ravvivato dopo le ore passate seduto sulla panca di legno, non si è vista.

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Viaggiare sulle carrozze con panche di legno e scaldino sottostante mi ha ricordato i primi tempi di pendolarismo; soprattutto forse pensando alla terza T mi ha riportato alla mente un signore distinto, credo fosse un impiegato di banca, che si piazzava sempre vicino all’entrata e quando questa si affollava si appoggiava con nonchalance a qualche ragazzotta. Pezzo di molestatore, chissà che fine avrà fatto!

Alla fine di questo tour de force, tirando le somme, posso dire di essere una persona migliore? Non credo. Più colta? Ma manco per sogno. Di saperne almeno un po’ più di prima? Questo può essere, ma tanto tra poco lo dimenticherò. Di sicuro mi tocca dar ragione all’ex ministro che affermava che con la cultura non si mangia: che qui, gira e rigira, alla fine non ho mangiato un cavolo!

(172 – continua)

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Bomba o non bomba, noi, arriveremo a Roma

Così cantava Antonello Venditti nel 1978, senza ne Italo ne Frecciarossa ne voli low-cost ad accorciare le distanze; cantautore bravissimo ma che allora non apprezzavo semplicemente perché delle canzoni tendo a non captare le parole e di conseguenza, ascoltando solo le melodie, le trovavo abbastanza ripetitive e noiose. Colpa mia, intendiamoci. Per colpa di questo approccio ai testi musicali non avrei mai potuto assegnare il Nobel al cantautore Bob Dylan, di cui peraltro conosco pochissime canzoni, ma mi fido del giudizio della giuria di Stoccolma. Stamattina leggevo un commento che affermava che tutta la poesia di Dylan, senza musica, non vale un solo verso di Montale, premio Nobel 1975: ogni tempo ha i suoi poeti, mi verrebbe da dire, e forse per questo tempo il buon Dylan è persino troppo.

Qualche giorno fa avevo annunciato una marcetta su Roma, e finalmente ci siamo. Con tempismo perfetto abbiamo rischiato di essere bloccati da uno sciopero generale, tra cui quello dei trasporti, indetto da alcuni sindacati autonomi con una sobria piattaforma rivendicativa che riassumerei con la famosa frase di Gino Bartali: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!” (1).

Partiremo prima dell’alba ed arriveremo a Roma giusto all’ora di colazione per i meritati cappuccino e maritozzo; ma a fare cosa vi chiederete? Ma si, ve lo dico: per cantare! Con il coretto della parrocchietta parteciperemo al Giubileo delle Corali, con altri 2490 cantori (noi saremo in dieci). In realtà il gruppo della marcetta è ben più nutrito, ma rispecchia l’andazzo italiano per cui uno lavora e due stanno a guardare: quindi i 10 di cui sopra saranno impegnati full time per le tre giornate canore in Vaticano, mentre gli altri andranno in giro per Roma a visitare monumenti e gozzovigliare a panini e porchetta e vino dei Castelli.

Ma non voglio dilungarmi troppo adesso, quello che faremo ve lo racconterò al ritorno.

Voglio invece riportare qualche considerazione condita con pillole di saggezza:

  • le cose non succedono da sole. Ci vuole che qualcuno ci creda, che qualcuno ci si impegni, che ci si incoraggi e sostenga a vicenda specie quando non tutto va come ci si aspetterebbe;
  • l’attività principale delle suore di Roma è quella di gestire case di accoglienza (di accoglienza ho detto, non tolleranza)? e soprattutto pagano l’Imu? Ce ne sono a bizzeffe, e tutte le strutture che ho contattato erano piene. Abbiamo dovuto occupare cinque B&B diversi per sistemarci…
  • perché in qualsiasi locale di Trastevere non è possibile prenotare al sabato sera? (un quesito per Roberto Giacobbo);
  • perché l’assistenza Italo è a pagamento? (mi hanno ciucciato 30 euro di ricaricabile per poter spostare i biglietti). E fortunatamente quando poi, avendo finito la ricarica, ho chiamato il numero gratuito, mi hanno fatto lo stesso servizio (un angelo di nome Elena)… l’assistenza non poteva dirmi subito di chiamare il numero gratuito?
  • ricordarsi sempre di essere fortunati e vivere la vita con passione, gioia e amore (con questa dovrei essermi meritato l’agognato titolo di fra’ Giò, che come ricorderete qualcuno mi aveva assegnato indebitamente).

La composizione del coro, anomala a dir poco, è: 2 soprani, 1 contralto, 5 non definibili; 1 tenore e 1 così così (io). Cioè, quando dico così così non mi riferisco all’identità sessuale, per chiarire, è solo che alcune voci non rientrano nei canoni standard: io ad esempio non sono ne tenore ne basso, e mi arrangio qua e là; le 5 donne indefinite non sono classificabili nelle categorie musicali ma in compenso vengono usate come cavie in laboratori di fisica, in quanto a volte emettono degli ultrasuoni che disturbano gli animali più delicati. Scherzo, sono brave (a cucinare poi ottime).  Notate la percentuale di cui ho già parlato in passato di 4 donne per ciascun uomo, che mi sembra rispettata in tutti i cori che conosco tranne quelli alpini.

Dunque Roma, arriviamo! E’ stata impegnativa ma ci siamo quasi…


(1) Riporto pari pari dal sito dell’Usb (che non è la chiavetta, sta per Unione Sindacale di Base):

per l’occupazione, il lavoro e lo stato sociale e contro le politiche economiche e sociali del governo Renzi dettate dall’Unione Europea;
per la difesa e l’attuazione della Costituzione e il NO alle modifiche proposte dal governo;
per la scuola e la sanità pubblica e il diritto all’abitare;
contro l’attuale sistema previdenziale e la controriforma Fornero, la riforma Madia, il jobs act, l’abolizione dell’art.18, il contratto a “tutele crescenti”, la precarietà sul lavoro, l’attacco al potere d’acquisto dei salari e al Contratto nazionale;
per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, per l’aumento di salari e pensioni, per il reddito per tutti, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per la piena ed efficace tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e nei territori;
contro le privatizzazioni, la deindustrializzazione del paese, le delocalizzazioni e per la nazionalizzazione di aziende in crisi e strategiche per il paese, contro la cosiddetta ‘Buona Scuola’;
contro la Bossi-Fini e il nesso permesso di soggiorno – contratto di lavoro per garantire pari diritti a tutti, indipendentemente dalla nazionalità, per i diritti sociali e di cittadinanza, contro la guerra e le imprese militari;
per un fisco giusto senza condoni agli evasori;
per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza che annulli l’accordo del 10 gennaio 2014 e preveda il riconoscimento di diritti sindacali in tutti i luoghi di lavoro del pubblico e del privato per i sindacati legalmente costituiti.

Condivido in toto, stranamente mancano la pace nel mondo ed il disarmo nucleare, deve essere una svista.

(110. continua)

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Si, viaggiare

Da una stima prudenziale, fino ad oggi ho percorso 580.000 chilometri in treno. 14 volte e mezzo il giro del mondo, non male per uno che di mestiere non fa il macchinista.
Qualcuno potrebbe pensare che così facendo abbia perso un sacco di tempo. Non penso, conoscendomi. Prendere il treno di buon mattino obbliga ad alzarsi presto. Senza questa necessità non credo avrei fatto qualcosa di diverso dal dormire.

In treno si possono fare tante cose. Informarsi, studiare, leggere, ascoltare musica, al limite giocare a carte (a chi piace). Soprattutto, viaggiando insieme ad altri, quando si è fortunati si condividono delle storie
A me ascoltare storie è sempre piaciuto. Quando trovo qualcuno disposto a raccontarne, sono la spalla ideale.

Iniziai a pendolare sulla linea Pollenza – San Severino Marche. La stazione era a quattro chilometri dal paese, e si raggiungeva in bus; io aspettavo sempre che babbo mi svegliasse (come fa ora mio figlio con me); se per caso era un po’ in ritardo, scattava l’inseguimento al bus.
I treni erano o delle vecchie littorine, o dei “nuovi” bianchi e blu; già strapieni all’arrivo, difficilmente riuscivo a sedermi.
Al ritorno gli orari non sempre coincidevano col bus. Così ricorrevamo all’autostop, o in casi disperati ai piedi. Quattro chilometri in salita, un’ora.
Una volta mi caricò una donna, corpulenta, che non godeva di buona pubblicità. Insomma, si diceva che praticasse il mestiere. Io ero un po’ dubbioso, non capivo bene a chi potesse attirare una così.
Non so come, ma mi scivolò la carta d’identità sul sedile. Così al pomeriggio, mentre ero all’allenamento di pallone, la signora si presentò a casa nostra per riconsegnare il documento. Credo che la fede di mia madre in me per un attimo abbia vacillato.

All’inizio del mio pendolaresimo milanese, ebbi modo di rimpiangere le littorine: il riscaldamento era costituito da uno scaldino sotto il sedile a 100 gradi; mentre dai finestrini entravano spifferi gelati. Per gente dura.

Come dicevo, sul treno ci si può istruire. Tentai di imparare i rudimenti del francese dai fascicoli De Agostini. Uno strano fenomeno però accadeva: dopo una pagina o due, gli occhi mi si chiudevano. Rimasi quindi al “Je m’appelle Pierre, je suis un étudiant”. Qualche anno fa, venni invitato con famigliola cane e suocera a Dole, in Francia, da conoscenti. In campagna, ci accolsero con un bel Pastis di benvenuto. Anice, se avete presente. Due bei Pastis. Anzi, tre. Affermai senza paura di contraddittorio che mi appellavo Pierre, e se me ne avessero versato un altro avrei potuto cantare la Marsigliese sul tavolo. Dormii beato tutto il pomeriggio: per loro ancora oggi sono Pierre.

Quando non esistevano i telefoni cellulari (i più giovani saranno stupiti del come si riuscisse a vivere lo stesso), per comunicare con casa si usavano i telefoni a gettoni. Nel 1980 un gettone costava 100 lire. Non se ne faceva un uso smodato: niente nuove, buone nuove. In licenza, di solito avvisavo per tempo, e mio padre mi veniva ad aspettare alla stazione di Civitanova. A volte, quando l’orario era incerto, l’accordo era che una volta arrivato chiamassi, e in una mezzoretta babbo arrivava. Una sera purtroppo il piano non funzionò. Il treno da Rimini era in scandaloso ritardo; arrivai in stazione verso la mezzanotte, con un solo gettone in tasca e la biglietteria chiusa. Sperando che l’apparecchio non mangiasse il gettone (capitava) chiamai. Nervoso, sbagliai numero: svegliai la famiglia Farroni che pensando ad uno scherzo lì per lì mi mandò a quel paese. Solo la mia fama di rettitudine morale li convinse che non avessi alzato il gomito e promisero di chiamare i miei. Aspettai con apprensione ma fiducioso. Alla peggio, la mattina dopo la biglietteria avrebbe riaperto.

Per dire il fascino che può avere la ferrovia, mio nonno Gaetano si arruolò volontario per la guerra di Abissinia, non tanto per la smania di conquistare l’Impero al suon di Faccetta Nera ma perché appunto non aveva mai preso un treno. Le cronache familiari narrano che comprò, per la partenza, un vestito tutto bianco; in casa, sopra la toletta in camera dei miei, c’è una foto con lui e altri camerati in posa poco marziale, con vari tucul come sfondo, attorniati da bambini con lineamenti vagamente familiari. Sospetto di avere qualche cugino nella patria di Hailé Selassié.
Ma questa è un’altra storia e fa parte delle Memorie di mia madre; se mi cede i diritti, ve la racconterò.

(20. continua)

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