Finite le superiori, mi capitò di beccarmi una febbre che non passava mai, così venni ricoverato per accertamenti. Era la seconda volta in vita mia che venivo ricoverato; la prima era stata da bambino, per togliere le tonsille. A quel tempo, per non saper ne leggere ne scrivere, le tonsille dopo un paio di mal di gola si toglievano. A volte anche senza mal di gola, così, un fastidio in meno.
Del ricovero per le tonsille ho un ricordo ancora vivido di come mi fossi innamorato, a sua insaputa ovviamente, di una ragazza molto più grande, alla quale costruivo ventagli di carta nella speranza che mi avrebbe aspettato quando fossi cresciuto. E del gelato che davano subito dopo l’operazione.
Questa febbre andava e veniva, ed a un certo punto i dottori pensavano che mi fossi beccato un qualche virus tropicale durante la visita militare a Perugia. Difficile, non avendo avuto rapporti sessuali con mercenarie (e nemmeno con volontarie, se è per quello) come qualcuno dei miei coscritti, ma comunque, sussistendo il sospetto, venni tenuto in osservazione per un po’.
L’abolizione della leva militare è stata una grande stupidaggine. Opinione personale, si intende.
Per un ragazzo la visita di leva era un esame di accettazione tra i grandi, una iniziazione tribale. Chi non è buono per il re, non è buono per la regina. Qualcuno sperava di essere riformato; ma i più invece temevano la bocciatura.
Alla partenza il mio fratellino, seduto rannicchiato sulle scale di ingresso, mi chiese quando sarei tornato. Credo di avergli dato una risposta molto stupida, perché al ritorno mia madre mi rimproverò perché il poverino non voleva più mangiare, pensando che la partenza fosse stata colpa sua. Tra l’altro la visita militare era uno strumento di screening di massa che sarebbe utile anche oggi. Io ad esempio scoprii di essere miope da un occhio e con il setto nasale deviato, pensa un pò.
Insomma, abile e arruolato. Un grande successo, considerando che ero nato settimino. Avevo le dita come fiammiferi, e il polso come il dito mignolo di mio padre (però le dita di mio padre non sono piccolissime). Mi ricordo ancora le punture di ferro che feci fino a una certa età (ironico, per il figlio di un fabbro). Ma quelle non facevano tanto male; quelle di penicillina invece, che dovetti fare per le febbri reumatiche, si che erano dolorose. Me le faceva un’infermiera sul tavolo della sua cucina. Mia madre era sarta finita, cioè aveva studiato taglio e cucito ed era capace (lo è ancora) di disegnare modelli e fare vestiti; voglio dire, mica rammendi e bottoni, vestiti completi. L’infermiera era sua cliente; grande acquirente di reggiseni extra-large.
Quindi mi trovavo in questo ospedale, in attesa di sapere cosa avessi, quando arriva il mio amico Mauro. Pensavo fosse venuto a trovarmi; invece era venuto a ricoverarsi pure lui. Per non lasciarmi solo, aveva pensato di svenire in casa e rompersi il naso. Ci misero in camera insieme, anzi con un vecchietto che però una mattina non vedemmo più, se ne era andato nella notte. Stando tutti e due benino, per passare il tempo ogni tanto chiudevamo la porta della camera e suonavamo. Certo, non la fisarmonica e il basso elettrico come nell’R7; più modestamente, entrambi l’armonica a bocca.
Quella diatonica, da alpino insomma, pensate alle note del pianoforte senza i tasti neri. Mi sarebbe piaciuto prendere quella cromatica perché c’era un jazzista bravissimo, Toots Thielemans, che ci tirava fuori delle cose straordinarie, ma non lo feci perché a un certo punto ci dimisero.
Prima Mauro poi me; mi sembrava un’ingiustizia, essendo lui arrivato dopo; ma proprio al momento di andare, la febbre mi tornò, così mi trattennero; i medici non scoprirono mai che caspita avevo, e dopo un po’ mia madre firmò per farmi tornare a casa.
La vecchia armonica l’ho tenuta fino a poco fa; quella diacronica, prima o poi, la comprerò.
(3. continua)