Olena regina d’Abissinia – 11

«Amici, salutiamo calorosamente la delegazione di lavoratori italiani che ci onoriamo di ospitare; riconosciamo l’importanza di questi scambi culturali, la reciproca conoscenza non può che portare a tessere rapporti sempre più proficui e a stimolare e incrementare la collaborazione tra i nostri grandi paesi!»
Okiki Tesfaye, presidente della associazione di amicizia Etiopia-Italia, carica che detiene grazie ad amicizie influenti che gli garantiscono finanziamenti cospicui che gestisce da padre-padrone, saluta gli ospiti, accompagnati dal console italiano.
Alle spalle del podio dell’oratore, sul palco dove solitamente si esibiscono gruppi folcloristici locali, è posto un lungo tavolo dove sono schierati i consiglieri dell’associazione ed il gruppetto di nostra conoscenza. Il console, Marcantonio Poltronieri, fa un breve pistolotto sui legami fraterni, i punti di intesa, l’intreccio di culture, dopodiché lascia la parola al capodelegazione Attilio Trozzo. Il quale si alza lentamente, con in mano i fogli del discorso la cui quantità inquieta gli ascoltatori, attirati sì dall’opportunità di scambi economici e culturali ma soprattutto dal ricco buffet i cui piatti caldi rischiano di freddarsi. Sistemati i fogli sul leggio, Attilio sorride all’uditorio ed inizia il suo discorso, che una giovane traduttrice si incarica di convertire in tigrino.
«Compagni, permettetemi di chiamarvi così: compagni di cammino, di lavoro, compagni nelle fatiche di tutti i giorni… In questo mondo che sembra ogni giorno più piccolo, dove le sfide sono ormai globali, ed i problemi di uno sono i problemi di tutto, è sempre più importante unirsi, fare fronte, lottare contro le disuguaglianze e le ingiustizie!»
Tesfaye lancia uno sguardo interrogativo del tipo “ma chi mi hai portato?” al console, il quale si stringe leggermente nelle spalle, come a dire “e lo so, ma falli parlare, sono innocui”; mentre Luisito sussurra al vicino Memo:
«Il vecchio leone ruggisce ancora »
«Già. Peccato che da noi siano rimaste solo le pecore»

Attilio, sentendo crescere l’attenzione e l’interesse, continua infervorandosi sempre più:
«Sì, lottare! Lottare per i sacrosanti diritti di lavoratori, di cittadini, di uomini e donne! Italia ed Etiopia uniti nel riconoscere la necessità che le risorse e la ricchezza non siano appannaggio di pochi privilegiati, ma tornino al legittimo proprietario, il popolo!»
A questo punto anche i due vicini cominciano ad agitarsi.
«Non vorrei che si facesse prendere un po’ troppo la mano» dice Luisito, preoccupato.
«Devono essere state tutte quelle spezie che ci hanno propinato in questi giorni» ipotizza Memo.
«Il popolo, sì, il popolo» prosegue Attilio ormai in trance, buttati via i fogli preparati e parlando a braccio:
«Quel popolo che, come cantava un’altro grande popolo, quello cileno, “El pueblo unido jamas sera vencido!”»
I tigrini, che in quanto ad entusiasmo non sono secondi a nessuno, si levano in piedi ad applaudire, e qualcuno inizia già a puntare il dito contro Tesfaye, individuato come rappresentante della borghesia affamatrice, quando dal fondo della sala si ode la voce gracchiante di un grammofono.

Se vuoi venir con me a Macallè
qualcosa c’è da far anche per te;
c’è tanta ricca terra qui da coltivar
che pane in abbondanza a tutti potrà dar!
E quando cesseran le ostilità
la vanga questo suol redimerà,
una casetta in mezzo ai fiori
io ti farò col mio lavor
se vuoi venir con me a Macallè!¹

Un gruppo di ragazzotti, sotto al palco, ridacchia rumorosamente; Attilio si ferma, interdetto, cercando di individuare l’origine della musica; Tesfaye balza al microfono e urla paonazzo (per quanto possa esserlo un etiope):
«Buttate fuori quel provocatore!», mentre la canzone continua:

Ti scrivo qui da un piccolo fortino,
mentre lontano fugge l’abissino
doman riprenderemo l’avanzata
verso la mèta ognor desiderata,
ma tu non piangere mio piccolo tesor
non si può infrangere il nostro grande amor!

Tutti si voltano verso l’autore di quella che reputano una bravata, e con stupore invece di scoprire uno degli impuniti ragazzotti vedono un vecchio rugoso, con una uniforme da ascari², sventolante una bandierina del Regio Esercito. Prima che gli uomini della sicurezza lo raggiungano, l’uomo si alza in piedi e con voce stentorea, inimmaginabile in un uomo della sua età, grida:
«Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia! Viva il Duce!» mentre parte la seconda strofa:

Il suolo che l’Italia ha conquistato
in poco tempo è stato rinnovato,
all’ombra del superbo tricolore
più non ci son né oppressi né oppressore!
Le strade nascono con gran rapidità
e insieme marciano progresso e civiltà!

La platea ammutolisce; Attilio, smarrito, cerca di riportare la discussione su binari meno scivolosi:
«Compagni, l’Italia è una grande repubblica, così come l’Etiopia; repubblica non dimentichiamolo nata dalla resistenza al regime nazifascista, e condanniamo fermamente l’avventura coloniale e tutti i colonialismi»
Gli uomini della sicurezza lottano intanto per strappare di mano il grammofono al valoroso ascari, che lo difende fino al finale:

Prepara dunque i corredin
per quattro o cinque marmocchin,
per poi venir con me a Macallè!

E fanno piovere sul malcapitato una gragnuola di manganellate, finché Ambrogio Cantaluppi, rimasto fino ad allora in silenzio, si alza in piedi e tuona:
«Lasciate stare immediatamente quell’uomo!» e per dare maggior peso alle sue parole avanza nella sala e si frappone fra l’uomo che si rotola in terra dolorante e i manganellatori.
«Ma che sta facendo?» chiede Luisito al vicino.
«Non lo so, ma si mette male» profetizza Memo.
E infatti, mentre la sicurezza ragiona sul da farsi, dall’altro lato della sala si sente un distinto:
«Italiani tutti fascisti!»

Ambrogio impallidisce. Orfano di padre partigiano, entrato in fabbrica a quattordici anni, metalmeccanico per quarant’anni alla Breda di Sesto San Giovanni , sindacalista per una vita, tessera del glorioso partito comunista in tasca, raddrizza le grandi spalle e porta il suo metro e ottantacinque per centoventi chili di peso, mani grandi come pale, davanti all’incauto urlatore.
«Se te dì cus’è, negrèt? Ripetilo se hai coraggio»

Sarà stato l’accenno al coraggio, qualità di cui gli abissini non difettano a differenza della prudenza, o forse quel negrèt poco politicamente corretto, ma l’uomo persiste nelle sue accuse; ha appena il tempo di pronunciare “Italia…” che un manrovescio di Ambrogio, non per niente chiamato Katanga ai tempi in cui faceva parte del servizio d’ordine alle manifestazioni sindacali, lo giustizia sul posto. Da quel momento in poi è tutto un mulinare di cazzotti e sedie e persino le marmittone del buffet vengono usate come armi improprie e contundenti. Mentre il console si defila, Attilio, Luisito e Memo scendono a dar man forte all’amico; si difendono con valore ma alla fine, soverchiati dal nemico come le truppe del maggiore Pietro Toselli sull’Amba Alagi³, sono costretti a rinculare fino ai camerini sul retro, dove riescono a barricarsi.
«Alla faccia dell’amicizia» commenta Luisito, tamponandosi il naso con un fazzoletto. «E tutto per salvare questo matto» dice indicando il vecchio ascaro. «Ma si può sapere chi cavolo sei?»
«Viva il Duce!» proclama questi orgoglioso, continuando a sventolare la regia bandiera tricolore.

Vieni a Macallè – 1935

Note
¹ cfr. Vieni a Macallè, canzone coloniale, 1935 (testo Enrico Frati, musica Eros Sciorilli)
² L’àscari era un militare eritreo, a cui in seguito si aggiunsero quelli reclutati nelle altre colonie africane, che combattè a fianco delle truppe coloniali italiane, inquadrato nei Regi Corpi Truppe Coloniali.Organizzati in battaglioni indigeni, diedero grande prova di valore in tutte le battaglie in cui furono impiegati.
³ Sul monte Amba Alagi si combattè nel 1895 una battaglia dove il presidio italiano, composto da 2.300 persone tra nazionali e indigeni, venne assalito da 30.000 soldati del negus Menelik II e completamente annientato. L’episodio fu uno dei più cruenti della guerra d’Abissinia che vide la sconfitta italiana e ne fermò l’espansione coloniale per molti anni.

Olena regina d’Abissinia (10)

Macallè è la capitale della regione del Tigrè, nel nord dell’Etiopia, a 780 chilometri dalla capitale Addis Abeba; si trova ad oltre 2.200 metri sul livello del mare ed è sede, tra le altre cose, di un polo industriale tessile che lavora per marche di tutto il mondo. E’ stata la prima città etiope dove è stato vietato il fumo nei locali pubblici, divieto apprezzato dai quattro commensali che siedono ad un tavolo del ristorante dell’hotel Lalibela nel quale alloggiano, un due stelle che ha visto tempi migliori ed è stato posto più volte sotto sequestro dalla polizia buoncostume locale.

«Compagni, devo dirvelo. E’ da quando siamo arrivati che ce l’ho qui, in gola, ma sento che è arrivato il momento di esternarlo»
Luisito Lenìn prende un pezzo di injera e lo usa come posata per sollevare un pezzo di tsebhi di agnello e portarselo alla bocca. Lo guarda perplesso, e continua:
«Intendiamoci, è una sensazione del tutto personale, non vorrei che fosse interpretata come una critica alla dirigenza del partito che ci fatto l’onore di mandarci qua»
Ambrogio Cantaluppi, più portato all’azione che alla dialettica, seppur democratica, sbotta:
«Luisito, parla chiaro per la miseria. Finiscila con questi giri di parole, vuota il sacco!»
Lenìn, uomo dai lunghi preamboli, abitudine della quale la sua stessa consorte è infastidita in quanto raramente arrivano ad un dunque, poggia l’agnello, si alza in piedi e dichiara:
«E va bene, se volete che sia diretto lo sarò: mi sono rotto i coglioni! Da quando siamo arrivati non abbiamo fatto altro che zappare, piantare alberi, innaffiarli: se volevo fare il giardiniere restavo a casa, che mia moglie è da una vita che mi dice di tagliare la siepe! Mi si sono riempite le mani di vesciche! E poi, se vogliamo essere onesti, questi in cinquant’anni hanno rasato tutte le foreste, adesso hai voglia a piantare alberelli! »
«Fa’ e disfa’ è tutto un laurà» sentenzia Alcide Remigi, detto Memo.
«E va bene, ma non doveva essere un viaggio di istruzione? Qui pare che facciano apposta a tenerci lontano da tutto, a non farci parlare con le persone! Di che hanno paura, che li contaminiamo?» chiede polemicamente Luisito e si risiede, addentando con foga la pietanza speziata. Attilio Trozzo, il capodelegazione, cerca di riportare la discussione su binari più moderati.
«Compagni, un poco di pazienza! Siamo o non siamo il partito dei lavoratori? E allora lavoriamo. Fate conto di essere tornati alle elementari, quando i primi giorni di scuola piantavamo gli alberi; e poi non siete orgogliosi di partecipare alla realizzazione della Grande Muraglia Verde africana? Un’opera destinata a fermare la desertificazione del continente: l’Etiopia ha già messo a dimora 5 miliardi e mezzo, e dico miliardi non bruscolini, di piante, e voi vi lamentate per qualche vescica alle mani? Vergogna!»
«Trozzo, facciamo a capirci» interviene di nuovo Memo. «Ci sei o ci fai? Non siamo mica boy scouts. Siamo venuti a studiare le istituzioni, prendere contatto con le associazioni sindacali e i partiti di sinistra, incontrare le rappresentanze degli studenti e dei lavoratori, confrontarci con la società civile. Finora non abbiamo visto un’anima viva, a parte le donne che zappettano davanti a noi, ma più che altro le schiene e i sederi, perché non alzano mai la testa. Tra l’altro le facciamo pure rallentare perché non siamo capaci. Allora, si può sapere che c’è sotto?»
«Sì, che c’è sotto?» insorge ancora Ambrogio «E poi perché proprio a Macallè dovevano mandarci? A parte che evoca brutti ricordi» dice il leader del sindacato mimi di strada e falsi invalidi in carrozzella, alludendo alle battaglie combattute e perse nel 1895 dal regio esercito contro l’esercito di Menelik II «ma qui non è per niente sicuro. Questi tigrini si sono fatti la guerra con il governo centrale per due anni, adesso c’è la tregua ma non è detto che non riprendano ad ammazzarsi, e io non vorrei trovarmici in mezzo. Ma chi è il deficiente che ha scelto proprio questo posto?»
«Esatto, un deficiente» incalza Memo «Lo dicevo io che era meglio andare a Cuba! Insomma, questa è gente litigiosa, e non poco. E se qui non si sta tranquilli non è che dalle altre parti sia tanto meglio: verso il Sudan è meglio non avvicinarsi perché sono ai ferri corti per la diga che gli etiopi vogliono costruire sul Nilo Azzurro, con l’Eritrea non ne parliamo che sono stati in guerra per vent’anni, con la Somalia idem, insomma ‘sti abissini sono dei gran rompicoglioni!»
«Senza contare» ricorda Luisito, con una punta di invidia «che ciulano come matti. In trent’anni la popolazione è raddoppiata!»
«Compagni, compagni, e che cazzo! Va bene criticare, ma il popolo lavoratore ha pur diritto di ciulare quanto vuole» proclama Attilio Trozzo, enfaticamente. «E poi, se mi aveste fatto parlare, vi avrei dato la notizia che sono sicuro vi rasserenerà»
«Ce ne andiamo?» chiede Ambrogio, provocatoriamente.
«Al contrario. Domani sera saremo ospiti dell’associazione di amicizia Italia-Etiopia: si terrà una festa da ballo e conosceremo autorità e delegati. Avete visto, uomini di poca fede? E mi raccomando» conclude Trozzo abbassando la voce e avvicinandosi ai suoi commensali «cerchiamo di non farci riconoscere, come al solito»

Olena regina d’Abissinia – 6

Seduti ad un tavolo del bar Chicco d’Oro in Piazza della Riforma, nel centro di Lugano a pochi passi dal lungolago, Gilda ancora sconcertata sorseggia una tisana al salopardo dall’inconfondibile colore dorato che ben si abbina con gli orecchini creoli che le adornano i graziosi lobi.
«James caro, temo di non capirci più niente. Mio nonno ha avuto un figlio da un’abissina, ma ti pare possibile? E questa storia dei matrimoni temporanei è veramente assurda, pensavo che roba del genere si facesse solo a Las Vegas!»
«Purtroppo signora» risponde il maggiordomo distogliendo a fatica lo sguardo dai monili pendenti della padrona «la pratica era abbastanza comune, anche il giornalista Indro Montanelli ammise di averci fatto ricorso da giovane ufficiale. Sembra che fosse anzi considerata una pratica di igiene, piuttosto che frequentare prostitute con il pericolo di contrarre malattie veneree. Ad un certo punto però, con l’introduzione delle leggi razziali, i matrimoni misti furono formalmente vietati anche se continuarono per un certo periodo. Non c’è da meravigliarsi quindi se anche suo nonno si sia adeguato alla prassi del tempo»
«Mio nonno, diciamocelo pure James, era un vero figlio del suo tempo, per non dire di qualcos’altro. Pensa che la povera nonna, che era poi la sua seconda moglie, mi raccontava che quello sconsiderato partì volontario per l’Africa lasciando la prima moglie incinta e con tre bambini piccoli; quando si ripresentò, a guerra finita, la moglie era morta di parto e i bambini sparpagliati tra zii e parenti. Così non sapendo che pesci pigliare cercò una donna che facesse da madre ai suoi figli e trovò mia nonna, che aveva 35 anni ed era considerata ormai una zitella. Ma mia nonna non si limitò a quel ruolo, sia chiaro, lei fu una moglie vera ed oltre a crescere i figli del marito ebbe da lui un altro figlio: mio padre»
«Mi scusi se mi permetto, signora» chiede educatamente il maggiordomo «ma se suo nonno ha avuto altri figli come mai lei è rimasta l’unica erede?»
«Purtroppo morirono tutti nell’epidemia di asiatica del ’57, una vera tragedia, finirono anche sul giornale. In effetti io non li ho mai conosciuti. Mia nonna e mio padre invece si salvarono, una bella fortuna!» conclude la Calva Tettuta, e riprende:
«Comunque adesso abbiamo un bel problema, non è vero James? L’atto parla chiaro»
«Effettivamente signora le clausole sembrano abbastanza stringenti» ammette il maggiordomo, leggendo la copia del testamento.

“Io sottoscritto Tafari Maconnèn, negus neghesti con il nome di Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, nel pieno possesso delle mie facoltà, proprietario presso la Bank of London del deposito fiduciario numero HS-8991 e della cassetta di sicurezza numero HS-C2812, lascio questi averi agli eredi viventi di mia nipote Mariam Maconnèn ed agli eredi viventi dell’italiano da cui ha avuto un figlio, in modo che le ferite causate possano rimarginarsi e le famiglie possano riunirsi. Il testamento sarà effettivo solo quando gli eredi, alla presenza di testimoni, si incontreranno e renderanno omaggio alla tomba di mia nipote nel cimitero di Addis Abeba. In fede, eccetera eccetera…”

«Fin qui tutto bene, vero James? Peccato che il notaio abbia detto che quel lontano cugino sia sparito. E dove andiamo a trovarlo adesso? Non ho nemmeno l’abbigliamento adatto per la savana. Per curiosità mi piacerebbe conoscerlo, magari si scopre tutta una tribù di Quacquarini. Ma alla fine, non per essere venali, di quanto stiamo parlando? Non vorrei che sia più la spesa che l’impresa.» ragiona la pratica imprenditrice.
«Il notaio parlava di un valore aggiornato assai cospicuo, signora. Si tratta di circa 88 miliardi di sterline, o 100 miliardi di euro»
«Fréchete!» esclama Gilda rispolverando il vernacolo serrapetronese. «Hai voglia a impastare ravioli per arrivare a cento miliardi! A questo punto direi di affidarci ad un’entità superiore, sei d’accordo caro?»
«Credo che la decisione sia quasi obbligata, signora» concorda James.
«Bene, allora» conferma la Calva Tettuta, levando il suo richiamo verso una bionda statuaria avvolta da una lunga pelliccia turchese seduta qualche tavolino indietro.
«Natascia? Sei mai stata in Etiopia?»

Olena regina d’Abissinia – 3

Ay, ay, ay, ay,
Canta y no llores,
Porque cantando se alegran,
cielito lindo, los corazones.

Mentre l’orchestra Los Vincisgraçias a grande richiesta esegue il classico Cielito Lindo, nonna Pina viene interrotta da giovani camerieri che offrono agli invitati dolcetti tipici come churros, flam, buñuelos e cocadas. La centenaria sbocconcella qualche churro intingendolo in un bicchiere di chinguirito¹ dopodiché si accende un sigaro, si appoggia alla spalliera della sedia,rovescia la testa all’indietro, sbuffa il fumo verso l’alto e continua il racconto.
«All’epoca della conquista italiana il negus aveva sei figli; la maggiore si chiamava Romanework, ed era quasi mia coetanea, aveva solo 23 anni ma a differenza mia era già madre di quattro figli. Hailé Selassié scappò subito in Inghilterra con i figli e parte della corte ma Romanework non volle lasciare il marito, che faceva parte della resistenza. Avrebbero fatto meglio ad andarsene anche loro…» dice scuotendo la testa e facendo un’altra nuvoletta di fumo.
«Il marito venne catturato ma è dopo l’attentato a Graziani che tutto precipitò: lui venne fucilato e lei, pare su ordine di Mussolini in persona, venne prelevata e deportata in Italia con i figli»
«In Messico avete delle spiagge bellissime e ne andate giustamenti orgogliosi» cambia apparentemente discorso nonna Pina, rivolgendosi a doña Antonieta. «Ma anche in Italia non scherziamo… conoscete la Sardegna? E’ una grande isola, con intorno altre isolette, con cale e calette meravigliose dove spesso si arriva solo in barca. Una di queste si chiama Asinara, ed è lì che venne portata Romanework.

«Apperò!» scappa detto a Gilda, risvegliatasi di soprassalto. «Non l’hanno trattata tanto male, la principessa, l’Asinara è un paradiso! Ci sono stata con la buonanima di Evaristo, ci aveva portato Flavio² con il suo yacht, c’era pure Noemi e ricordo che aveva fatto un sacco di complimenti alla linea di cappelletti zero calorie, i cazzeri»

«Effettivamente ora tutta l’isola è un Parco Nazionale al centro di un’area marina protetta» risponde nonna Pina sorvolando sul bizzarro nome della pasta ripiena «ma allora era una colonia penale, una specie di Caienna³ italiana, e fino a non molti anni fa era la sede di un carcere di massima sicurezza. Gli unici abitanti erano i carcerati e i secondini… Romanework e i suoi figli vennero alloggiati in alcune casette a Cala Reale, con le damigelle e i dignitari che l’avevano accompagnata; non era proprio incarcerata, ma del resto dove avrebbe potuto andare? La sorveglianza era stretta e scappare non era possibile, le giornate passavano lentamente, e l’unico svago consisteva in qualche passeggiata. Ma perché vi sto raccontando questo, vi chiederete?» chiede nonna Pina addentando un altro churro, e prima che qualcuno possa rispondere alla domanda retorica continua:
«Il fatto è che io ho conosciuto Romanework. Nel maggio del ’36, entrati ad Addis Abeba, Graziani si insediò nella residenza imperiale, palazzo Guenete Leul, e volle dare un ricevimento per i militari e le personalità civili italiane più in vista, oltre ai notabili etiopi che avevano deciso di collaborare con il nuovo governo pensando di riceverne un tornaconto. Ad allietare la serata fu chiamata l’orchestra di Duccio Falconieri, un caro amico, che dato che in quel momento non avevo impegni mi volle come cantante. Ricordo ancora il tragitto dall’aeroporto alla villa, scortati da camionette dell’esercito, e l’ingresso al parco, attraversando la porta sormontata dalle statue di due leoni. C’era tensione nell’aria; si percepiva la diffidenza degli uni verso gli altri, ed inoltre in lontananza ogni tanto si sentivano degli spari, che contrastavano con il messaggio di potenza incontrastata che si voleva dare. Ad un certo punto uscii nel parco a prendere un poco d’aria, e fu lì che la incontrai. Era su una panchina, e stava allattando tranquillamente un bambino; mi avvicinai incuriosita ma prima che potessi raggiungerla un uomo mi sorpassò di corsa e le si inginocchiò davanti prostrandosi con la fronte a terra. Sorpresa, chiesi che significasse tutto questo e l’uomo, che parlava italiano con qualche difficoltà, mi spiegò che lei era la principessa del melograno d’oro, l’erede del negus. Mi sedetti vicino a lei, e parlammo tra di noi, aiutate dall’improvvisato traduttore che era un suo fedele servo. Lei mi disse che si sentiva come un trofeo di caccia e tuttavia non era preoccupata per sé stessa ma per i suoi figli. Le dissi che mi dispiaceva per la sua sorte, e speravo di rivederla in una circostanza migliore, e le dissi anche che se avesse avuto bisogno di qualcosa avrei cercato di fare del mio meglio per aiutarla. Quella fu la prima e ultima volta che ci vedemmo»

Doña Antonieta, scacciato il marito che la reclama in pista per una cumbia, si soffia il naso rumorosamente e prega nonna Pina di continuare.

«La mia promessa era stata azzardata; rientrata in Italia di lei persi le tracce finché un giorno ricevetti la visita di un prete di ritorno da una visita ai prigionieri dell’Asinara ed essendo stato sedici anni in missione in Etiopia aveva riconosciuto la principessa: mi diceva che il figlio minore Gedeon, quello che avevo visto allattare, era in fin di vita per il tifo e se io, tramite qualche conoscenza, avessi potuto far qualcosa per salvare gli altri figli, la principessa mi sarebbe stata riconoscente per sempre. Io feci quel che potei… scomodai qualche amicizia influente e riuscii a farli trasferire a Torino, all’ospedale maggiore, ma nel frattempo Gedeon era morto, e lei era ammalata di tubercolosi. Purtroppo dopo poco tempo anche lei morì, ma serena perché almeno gli altri tre figli erano sopravvissuti; e per sdebitarsi volle donarmi quello che in quel momento le era rimasto di più caro» e così dicendo nonna Pina estrae dalla camicia una catenina d’oro alla quale è appesa una piccola medaglia.
«La medaglia di dama dell’ordine della Regina di Saba»

«Allora è fuorse per questo che negus vuole lasciare voi eredità?» ipotizza Olena, avvinta anche lei dal racconto.
«E chi lo sa, figlietta mia. Tutto può essere, ma ce lo potrà dire solo il notaio. Adesso però direi di lasciar perdere questa storia e pensare a divertirci, abbiamo rubato pure troppo spazio agli sposi. Non c’è qualche messicano libero che faccia fare un balletto ad una vecchia signora?»

¹ Rum messicano.
² Ogni riferimento a persone che infestano la Sardegna con locali da ballo trash è puramente casuale.
³ Famigerato carcere che si trovava nella Guyana francese.

Ballando sull’orlo del burrone

Amiche e amici,

rassegnatevi, ci vogliono portare alla guerra. Non preoccupatevi per i mutui anzi, è il momento di spendere e spandere tutto quello che abbiamo a disposizione, poco o tanto che sia. Suggerisco anche di smettere di pagare tasse e bollette, a che serve essere in regola se tra poco saremo morti?

Infatti quando sembrava che perfino Biden o chi per lui cominciasse ad accennare alla possibilità di negoziati, non è passato nemmeno un giorno che abbiamo assistito a:

  • Lancio di razzi sulla Polonia; ovviamento incolpata subito la Russia; la conclusione è che i razzi sono chiaramente ucraini, ma la colpa è dei russi;
  • gli ucraini hanno ricominciato a bombardare la centrale di Zaporizhzha cercando chiaramente l’incidente nucleare o quantomeno ricattando i fornitori: “occhio che se non continuate a mandarci armi facciamo saltare la centrale”; a sentire la nostra tv però sembra che i russi si bombardino da soli;
  • i russi continuano a lanciare attacchi missilistici alle infrastrutture energetiche; gli ucraini continuano a bombardare gli indipendentisti del Donbass (spesso usando gli Himars americani, che dovevano essere armi difensive, o artiglieria con proiettili da 155mm Nato);
  • alla riunione di Varsavia dell’OSCE, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, la presidenza polacca ha impedito la partecipazione al ministro degli esteri russo Lavrov: con chi si deve parlare di cooperazione e sicurezza, col Liechtenstein?;
  • intanto la stessa Polonia ha deciso di portare a breve le spese militari al 5% del Pil: se hanno così tanti soldi da spendere secondo me potrebbero fare a meno dei finanziamenti europei, no?;
  • l’assemblea generale della Nato, un organo totalmente inutile, dichiara la Russia “stato terrorista”; forse non ricorda bene chi ha finanziato prima Al Qaeda e poi l’Isis; gli sfugge anche che l’Isis la Russia l’ha combattuta, a differenza di qualche membro Nato;
  • il parlamento europeo, un altro organo totalmente inutile ed ora più che mai, dichiara la Russia “stato sponsor del terrorismo”;
  • in Kosovo si sta creando il casus belli per staccare la Serbia dalla Russia, pur se il legame si è molto allentato: magari tornando a bombardare Belgrado? Tra l’altro il Kosovo si è dichiarato indipendente unilateralmente, contro gli accordi presi in sede Onu: perché se lo fanno loro va bene, e se lo fa la Crimea, Donetsk e Lugansk no?
  • per non parlare dell’Iran, dove sfruttando le legittime rivendicazioni della popolazione (chi ricorda le primavere arabe? E come sono finite?) si sta cercando di provocare un crollo del regime con conseguente cambio di alleanza;
  • del gasdotto North Stream sabotato non si parla più. Chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato?

Ora, è chiaro che alla Russia importa poco come li definiscano organismi più o meno rappresentativi, ma attenzione perché è importante per noi: d’ora in poi chi oserà muovere qualche critica sulla conduzione sciagurata di questa vicenda, chiunque si proclami pacifista non verrà solo tacciato di fiancheggiatore di Putin ma anche di sostenere il terrorismo.

Personalmente me ne frego, mi dispiace solo che quando la bomba scoppierà non starà a distinguere tra chi ha sostenuto questa follia e chi è stato contrario fin dall’inizio.

Secondo me potrebbe negoziare tranquillamente

Olena regina d’Abissinia – 2

Nonna Pina si siede, scossa. Olena, preoccupata, lascia le due lottatrici sguazzare nel fango e si avvicina alla vegliarda alla quale la lega un affetto filiale, cementato nei due anni in le ha fatto da badante, infiltrata in casa Rana per sventare le trame di dominio del mondo del nipote Evaristo¹.
«Babushka, voi sente male?» chiede tastandole il polso, riscontrando fortunatamente un battito forte, anche se accelerato dall’agitazione. Intanto James si è avvicinato con un bicchiere di acqua fresca e la Calva Tettuta, sfilato il sombrero dalla testa dello zio Ramon, lo sventola per farle aria, mentre un capannello di invitati si appressa al tavolo, ognuno desideroso di dare una mano e soprattutto dispensare consigli non richiesti.
«Che succede, nonna? Sembra che abbiate visto un fantasma» chiede Gilda, guardandosi intorno per cercare di individuare la presenza del de cuius, il cui spirito vaga inquieto a Villa Rana ma solitamente non va in trasferta.
Nonna Pina fa un gesto di fastidio con le mani per allontanare i curiosi; poi ignorando l’acqua fresca offerta da James abbranca la bottiglia di tequila e se ne versa una dose abbondante.
«Un fantasma… non sei molto lontana dalla realtà. E’ una storia lunga e ve la racconterò ma non oggi, non voglio rovinare questa bella festa con una storia triste» vorrebbe glissare nonna Pina, ma nel frattempo una buona fetta delle invitate, appassionate di telenovelas e di storie tristi, ha spostato le sedie e si è piazzata a semicerchio attorno alla ultracentenaria. Notando un certo assembramento anche l’orchestra si ferma, e il bassista cubano Giorginho Torres è pronto ad estrarre dal fodero la bottiglia di Rum Mathusalem delle grandi occasioni, ma i musicisti vengono subito richiamati all’ordine dal maestro Dieguito Guardatì preoccupato che don Ignacio non versi il saldo di quanto pattuito, indispensabile per pagare la rata in scadenza degli strumenti e soprattutto gli alimenti alla ex-moglie Luana Patacon.
Nonna Pina, vedendo che l’uditorio si è fatto numeroso, e persino Dona Antonieta ha preso posto in prima fila, scrolla la testa.
«E va bene, ma poi non dite che non vi avevo avvisato» dichiara, invitando Olena a sedere vicino a lei; poi inghiotte un sorso generoso di tequila ed inizia il racconto.
«Era il 1935 e l’Italia fascista decise di invadere l’Abissinia. Detto così fa un po’ ridere, anche perché l’Etiopia è grande tre volte l’Italia: comunque Mussolini inviò un esercito per conquistarla e nel giro di nove mesi gli etiopi, coraggiosi ma decisamente meno armati, furono sconfitti anche grazie all’uso spregiudicato di gas come l’iprite e le arsine che tante stragi avevano fatto nelle trincee della Prima Guerra Mondiale ed erano stati messi fuori legge, ma cosa importava ai conquistatori? Io ero giovane, ero arrivata da poco al successo come soubrette e vivevo in un mondo ovattato, ma ricordo che in Italia c’era molta euforia, l’Etiopia era un paese dove esisteva ancora lo schiavismo e ci raccontavano di civilizzazione, di spazio vitale, di posto al sole: Adua era vendicata, e tutto il Corno d’Africa (tranne una piccola parte rimasta agli inglesi) era italiano! Furono commesse innumerevoli atrocità, alla faccia degli italiani brava gente, che raggiunsero il culmine dopo il 19 febbraio 1937, quando due giovani patrioti etiopi lanciarono delle bombe a mano contro un gruppo di autorità italiane tra cui il maresciallo Graziani che dopo la campagna era stato nominato Viceré, che venne ferito seriamente.
Addis Abeba venne allora messa a ferro e fuoco, abitazioni date alle fiamme, gente trascinata per strada e lì trucidata; forse avrete sentito parlare di Debra Libanòs, un grande monastero preso di mira perché si riteneva che appoggiasse i ribelli, dove vennero sterminati tutti i preti, i monaci, i diaconi, gli studenti di teologia, i maestri… ma tutto questo lo scoprimmo anni, decenni più tardi: allora dovevamo costruire l’Impero per la gloria dei Savoia, quei disgraziati, e convincere gli etiopi con le buone o le cattive che il nuovo imperatore Vittorio Emanuele III era meglio del loro. Perché loro un imperatore ce l’avevano già: il Negus neghesti, o re dei re, Hailé Selassié che voleva dire “Potenza della Trinità”.»

«James?» chiama sottovoce Gilda, per non disturbare il racconto.
«Signora?»
«Mi sto perdendo. Chi sarebbe questa Adua, la famosa abissina della canzonetta “aspetta e spera eccetera eccetera”? Che tra l’altro è la sigla del nuovo governo, sbaglio?»
James sorride, indulgente verso le lacune storiche e non solo della sua datrice di lavoro.
«No signora, Adua è una città del nord dell’Etiopia, nella regione del Tigrè, abbastanza vicina all’Eritrea. In questa zona nel 1886 si svolse una battaglia, tristemente famosa, dove l’esercito italiano subì una disastrosa disfatta da parte degli abissini guidati dall’allora imperatore Menelik II. Il mio trisavolo Filiberto vi prese parte ed ebbe la fortuna di tornare a casa sano e salvo ma non fu più lo stesso, pare che di notte si mettesse di vedetta sul tetto del fienile con il suo Carcano modello 91 in attesa dell’arrivo degli abissini. Fu uno scontro impari: gli italiani erano meno di 18.000 compresi 7.000 àscari, soldati indigeni; gli abissini erano circa 120.000 e oltretutto conoscevano bene il terreno, mentre i nostri avevano delle mappe approssimative. Insomma fu un massacro, che ebbe ripercussioni politiche e che oltretutto interruppe le ambizioni coloniali italiane per molto tempo, fino appunto al 1935»

Il lieve russare della Calva Tettuta, alla quale è calata la palpebra complice senz’altro l’abbondante libagione, induce il maggiordomo a sospendere la lezione di storia patria; sfilato un cuscino dallo schienale di una poltroncina lo pone tra il tavolo ed il capo di Gilda e, vedendo che persino i koala si sono seduti ai piedi di nonna Pina, si appresta a seguire il prosieguo del racconto.

¹ cfr. “Natale con Olena”, 2017

La accendiamo?

Amiche e amici, avete preparato i maglioncini per l’inverno? O confidate nel caro vecchio riscaldamento globale, come diceva l’ex presidente Usa Trump canzonando gli ambientalisti quando mezza America era finita sotto il gelo?

Da piccolo la casa dove abitavo con la mia famiglia non aveva riscaldamento. C’era solo una stufa a legna in cucina, la cucina economica si chiamava, che serviva sia per cucinare che per riscaldare: e infatti d’inverno tutte le attività che richiedevano di stare fermi si svolgevano in cucina: lo studio, la lettura, il lavoro di cucito di mia madre… avevamo anche una saletta, dove dietro un paravento c’era il mio letto; e la camera da letto dove c’era il letto matrimoniale ed il letto dove dormivano i miei tre fratellini (in un letto dormivano in due, uno da un lato e uno dall’altro); questa veniva scaldata con il prete e la monaca infilati nel letto, cioè con un’intelaiatura di legno (il prete) dove veniva messo all’interno un braciere con dei pezzi di carbone (la monaca).  Per fare il bagno (una volta la settimana) mia madre riscaldava delle pentolone di acqua e le versava in una grande conca di plastica.  

Nel 1971 ci fu la svolta: ci venne assegnata una casa popolare, era un sogno! Cucina, sala, camera dei genitori, due camere per noi figli (mia sorella ebbe subito la sua, noi tre maschi invece tutti in una). Non c’era il gas: la cucina veniva alimentata con bombole che ci venivano portate in casa da un venditore che passava con un’ape Piaggio, ritirava le bombole vuote e le sostituiva con quelle piene; l’acqua calda era assicurata da uno scaldabagno elettrico; per il riscaldamento invece avevamo una stufa a cherosene che era messa nel corridoio in un posto strategico da cui irradiava il calore in tutte le stanze, e tramite il tubo che arrivava alla cappa di scarico dei fumi riscaldava anche la cucina.

Solo verso la fine degli anni ’80 nel comune arrivò il gas, e vennero stese le condutture per le vie del paese; l’Istituto delle Case Popolari per quanto lo riguardava curò i collegamenti per tutti i suoi condomini, poi ogni affittuario decise se allacciarsi o meno. Mio padre che era anche idraulico ci fece l’impianto, tirando i tubi di rame in tutte le stanze e piazzando i caloriferi (in ghisa). Anche lo scaldabagno venne sostituito: mio padre aveva installato una caldaia Vaillant e ne andava fierissimo, diceva che era l’ammiraglia delle caldaie! Il progresso per me è stato questo: potersi lavare senza stare a dover lesinare l’acqua calda…

Ora la preoccupazione sembra essere quella opposta: le case sono riscaldate troppo, e per troppe ore, e dato che il gas scarseggia perché per sostenere gli ucraini, sa solo il cielo perché, abbiamo deciso di rinunciare alle forniture russe, come se gli altri a cui ci stiamo legando mani e piedi fossero tutti grandi democratici (uno per tutti: gli azeri che stanno compiendo veri e propri massacri di armeni, ancora una volta) e le bollette sono alle stelle, dobbiamo fare sacrifici. Bisogna risparmiare. Che nobile intento! Quello che non poté Greta lo poté la guerra. Peccato aver buttato la stufa a legna, anche se mi dicono che il prezzo della legna è alle stelle pure quello. Al limite avrei potuto bruciarci i giornali,tanto per quello che servono…

Amiche e amici, vi saluto informandovi che al Piccolo Teatro di Milano è in scena “M il figlio del secolo”, tratto dal libro di Scurati, la storia dell’ascesa al potere di Mussolini: ve lo consiglio caldamente, sono tre ore di spettacolo ma per niente faticose. Ci siamo dimenticati troppe cose, e temo che siamo andati troppo oltre.

A presto! (o a noi, fate voi)

Il vecchio Jack non aveva la stufa a legna

L’uomo che reggeva l’ombrellone (III)

Ed eccoci arrivati amiche e amici all’ultima puntata di questo mini diario. Gli ultimi giorni li abbiamo passati a Bosa, che è una cartolina più che un paese; credo sia l’unico paese della Sardegna che è lambito da un fiume, il Temo (a proposito: la Sardegna è piena di acqua, con tante falde sotterranee e, anche se la siccità si fa sentire, finora sembra reggere); le sue case colorate arrampicate su per la collina sono pittoresche anche se ormai poco abitate. E’ sovrastata da un castello dai cui camminamenti si gode il panorama sottostante: chiude alle 19, noi siamo andati alle 18 con un caldo micidiale rischiando il collasso. La sera i negozi sono tutti chiusi, tranne bar e ristoranti; segnalo un bistrot lungo la strada principale dove ho preso un tagliere di affettati che non sono riusciti a finire, compatito dalla cameriera. La spiaggia vicina, Bosa Marina, è di sabbia ferrosa che nelle ore più calde si arroventa ed è impossibile camminarci sopra senza ciabatte. Le cale più pittoresche sono a pochi minuti e ci si arriva solo a piedi; noi ci siamo limitati a guardarle dall’alto perché solo il pensiero di affrontare la discesa e la conseguente risalita ce l’ha sconsigliato. Belle, ma non fanno per noi. Mentre invece è accessibile, a qualche chilometro verso Alghero, la spiaggia di S’Abba Drucche; la spiaggia (in realtà due) è libera, ma in loco si possono noleggiare lettini. L’ombrellone ce l’avevo; l’avevo comprato prima della partenza dopo attenta ricerca, robusto e leggero; mi ero anche munito di trivella per scavare nella sabbia per piazzarlo; mi sono dimenticato però la cosa più importante: la corda. Infatti, per quanto l’ombrellone sia fissato bene, quando tira il maestrale c’è sempre il rischio che ve lo faccia volare via ed infatti i più esperti (quasi tutti a dire la verità) lo ancorano con una o più corde legate a dei picchetti piantati nella sabbia. In mancanza di corda quindi il vostro cronista stringeva con la mano sinistra, con molta eleganza direi, il palo dell’ombrellone, ma ad un certo punto mi sono dovuto arrendere e l’ho chiuso; da quel momento ho preso il sole (si fa per dire) disteso sul lettino ma ricoperto da maglietta e asciugamano.

Come sapete, amiche e amici, il sole può essere un grande amico ma anche un grande nemico: fa bene alle ossa ma può fare molto male alla pelle, specie se di carnagione chiara e se preso nelle ore più calde. Dopo questa piccola informazione medica dirò che la mia pelle, sebbene tenda a diventare presto scura, è meglio che sia riparata. Da giovane entravo e uscivo dall’acqua, l’ombrellone era roba per effeminati e diventavo nero come un tizzone: probabilmente ora il corpo mi sta porgendo il conto, non voglio sfidarlo troppo.

A pochi minuti da Bosa c’è un paesino, Tinnura, famoso per i murales disegnati sulle case; ce ne sono un centinaio, e riportano scene di vita contadina del passato. Qui abbiamo incontrato (quanto è piccolo il mondo!) nell’unico negozietto aperto, un ceramista che ha lavorato per anni a Cantù e conosceva benissimo la zona dove abitiamo, forse meglio di noi. Siccome ha lavorato anche per dei mobilieri (Cantù è la patria del mobile d’arte) abbiamo parlato delle ripercussioni dell’embargo alla Russia sugli ordinativi; lui sosteneva che non incide molto perché gran parte di quei mobili li acquistano gli arabi, e per prezzi stratosferici rispetto al reale valore. Insomma, è una questione di prestigio: se li paghi poco vuol dire che valgono poco… così sedie da 700 euro vengono vendute a 5000, e quelli pagano senza battere ciglio. Tanto poi basta che aumentino un po’ il prezzo del petrolio…

La proprietaria del b&b dove abbiamo alloggiato, una persona davvero squisita, più o meno della nostra età, ci ha raccontato di non essere proprio sarda. O meglio, è figlia di genitori sardi, ma emigrati in Belgio perché il papà lavorava in miniera; lei è nata là, ed ha imparato a parlare solo il sardo (che è una vera e propria lingua, anche se diversa da zona a zona) ed il fiammingo. Tornava a Bosa solo d’estate, per le ferie, e alloggiavano appunto in una delle case colorate; ma poi il padre si è ammalato di silicosi e sono dovuti tornare: lei aveva già finito le medie, e non conosceva l’italiano! Così ha dovuto ripetere la terza media (due volte, perché aveva una professoressa che voleva darle le basi giuste: e ce l’ha fatta, perché poi la signora si è anche diplomata). Giusto per farsi un’idea dell’epoca, sua madre era l’ultima di dieci figli, e lei l’ultima di cinque.

L’ultimo giorno, prima di riprendere il traghetto, siamo passati ad Alghero, che avevamo già visitato l’altra volta ed è sempre carina e piena di movimento. Alghero è stata fondata dai catalani e la lingua assomiglia al catalano. Abbiamo comprato qualche regalino ed ovviamente una bottiglia di mirto che berrò alla vostra salute.

Al ritorno, in attesa della partenza, dal traghetto si vedevano i preparativi per un concerto di Ivana Spagna. Ne avevo perso le tracce, nonostante abiti proprio a Como. Avrei voluto fare il cambio di cuccetta ma il prezzo era troppo alto e quindi mi sono rassegnato al letto a castello: vi dico solo che la prima volta che sono salito mi è preso un crampo al piede e poi non sapevo come scendere. Ho accarezzato l’idea di mettere il materasso per terra ma poi l’orgoglio ha vinto. Nella notte sono sceso quattro volte (colpa del Vermentino) e l’ultima volta posso dire che l’uomo scimmia sarebbe stato orgoglioso di me, se non fosse che in quel momento indossavo una delle magliette di mia moglie, dato che le mie erano tutte sudate. Infatti di solito nelle cabine c’è un freddo polare, stavolta invece o non funzionava l’aria condizionata oppure il caldo saliva in alto, mi sono dovuto cambiare più volte. Avevo promesso ad una cara lettrice di postare la foto, ma è troppo compromettente.

E’ finita, amiche e amici! Spero di non avervi annoiato troppo. Adesso ho ancora qualche giorno di relax, andrò al paesello a festeggiare insieme ai miei fratelli la nostra mamma che tra qualche giorno compie 87 anni ed a salutare parenti e amici superstiti. Al ritorno mi aspetta Olena impaziente, che ha voglia di andare in vacanza anche lei!

A presto!