España cañí

Quello del turista è un mestiere impegnativo. Specialmente per un Ossimoro come me, che se ne starebbe beatamente in panciolle tutto il giorno con il suo libro ed un bicchierino di vino.

Una volta, quando non c’era Internet, era più facile. Innanzitutto si andava molto meno in giro. La prima volta che insieme alla mi señora visitammo la Spagna, che coincise come vi ho raccontato con il giorno che il mio secolo finì, ci mettemmo un bel po’ a scegliere la destinazione, e per tutte le prenotazioni ci rivolgemmo ad una agenzia di viaggio, oltre a doverci rivolgere alla banca per munirci di pesetas e travellers cheque.

Bisogna ammettere che la moneta unica ha molto semplificato lo scambio all’interno dell’Europa. Se non altro quando si è all’estero non si è costretti a portare la calcolatrice per capire quanti soldi si stanno spendendo. Gli altri vantaggi specialmente di questi tempi non sono evidentissimi. Ci bombardano tutti i giorni dicendo che uscirne sarebbe una catastrofe che anche la sciagura di restarci così com’è sembra rassicurante. La sensazione non molto piacevole è quella di essere tenuti per gli zebedei da dei cravattari.

Oggi tra Booking, Trivago, Tripadvisor, Ryanair e quant’altro ognuno diventa agenzia di viaggio di se stesso; avendo tempo e qualche soldino si può decidere di andare a passare un weekend in qualsiasi paese scegliendo il volo più economico possibile e portando il minimo bagaglio possibile.

A proposito di bagaglio, abbiamo passato una giornata a Toledo, antica capitale, stupenda cittadina ottimamente collegata a Madrid con i treni ad alta velocità; la cattedrale è un gioiello storico ed artistico; ho riflettuto sul fatto di conoscere pochissimo la storia spagnola come peraltro quella di quasi ogni paese e mi sono ripromesso di tornare per visitare il museo della cultura visigota. Avvincente la storia di questo popolo che pressato dagli unni chiese di poter entrare nell’Impero Romano in decadenza e finì poi per contribuire a disfarlo; sembra quasi storia di oggi.

Il bagaglio dicevo non mi ha aiutato perché avrei portato volentieri a casa una lama di Toledo, utilissima di sera sui treni delle Ferrovie Nord, ma a malincuore vi ho dovuto rinunciare perché non avrebbe superato i controlli di sicurezza dell’aeroporto.

La Camera ha approvato delle modifiche di legge in materia di legittima difesa notturna. L’iter proseguirà al Senato; speriamo non sia l’inizio del far west: ho sempre in mente l’atleta sudafricano Oscar Pistorius, il velocista senza gambe,  che in Sudafrica ha sparato alla fidanzata credendo (dice lui) che ci fosse un ladro in bagno.

Dunque siamo tornati a Madrid dopo più di 25 anni. Personalmente mi sento un po’ a disagio nell’andare in giro oggi. Voglio dire, non che non mi piaccia, ma sentirmi dentro al meccanismo del turismo di massa mi fa sentire un po’ un pollo in batteria. Anche se le città architettonicamente rimangono uguali, o magari si abbelliscono, l’impressione è che si amalgamino sempre di più; le stesse catene, gli stessi negozi, addirittura gli stessi prezzi… e gente che corre da una parte all’altra non tanto per vedere e capire, quanto per far vedere agli altri di esserci stato, di segnare un’altra tacca sul calcio del proprio I-Phone.

Oggi la gente del mondo si sposta molto di più; chi in aereo e chi in barcone, chi come me privilegiata per divertimento (o cultura se vogliamo esagerare) chi per cercare una vita migliore.

Non è elegante parlare di barconi dopo essere stato a bisbocciare, me ne rendo conto. Sono sempre più convinto che se le contraddizioni e ingiustizie del mondo non vengono risolte a partire da dove sono più gravi non ne usciremo. L’approccio solo caritatevole non basta, non può bastare e arrivo a pensare che sia addirittura deleterio: bisogna che in quei posti il popolo si prenda il potere, con le buone e se necessario con le cattive.

Di Madrid porterò a casa, alla rinfusa, i ricordi di: Il Palacio Real con l’Armeria, Il Prado e specialmente l’aula con i dipinti visionari di Jeronimus Bosch, i vù cumprà attrezzatissimi con lenzuoli legati con corde cucite agli angoli che gli permettono di trasformarli velocissimamente in sacco all’arrivo dei vigili e della polizia (molto presenti); la sangria e la paella che ho avanzato perché mi ero riempito troppo di tapas; il Parco del Buen Retiro con il laghetto artificiale; la Vecchia Cattedrale di San Isidro, ma anche la nuova di Santa Maria de la Almudena; la quantità di locali per mangiare e bere e la quantità di persone che mangia e beve; la tariffa calmierata dei taxi dall’aeroporto al centro; un valente suonatore di dixieland che è andato avanti per due ore sotto le finestre dell’albergo a scassarci i cabasisi a deliziarci; delle persone che sembrava scattassero foto a caso ma mi inquadravano e mi hanno fatto scattare la paranoia; l’orsa nella piazza della Porta del Sol, da cui parte tra le altre una via dove di sera si prostituiscono delle ragazzine; la trippa alla madrilena che ho mangiato in una taverna e che ha portato il mio colesterolo nel sangue a livelli preoccupanti; Guernica di Picasso, che avevo visto in copia al Palazzo Reale di Milano; i boccadillos con i calamaros; Plaza Mayor sempre suggestiva dove abbiamo mangiato nello stesso ristorante di 26 anni fa.

Questo è stato uno sbaglio che ci ha procurato una grande delusione: allora, circondati da madrileni,  avevamo gustato una paella spettacolosa, almeno così ci era sembrata anche perché era la prima che mangiavamo in vita nostra; stavolta, circondati da turisti come noi, una paella triste. I camerieri però erano abbastanza stagionati e avrebbero potuto benissimo essere quelli di allora. Ma è passata la Fornero anche in Spagna?

Passeggiando per il centro ci siamo imbattuti in una taverna dal nome evocativo di España cañí, che in effetti mi ha fatto tornare in mente che quando suonavo con l’orchestrina questo era uno dei pezzi forti del nostro fisarmonicista Mauro; un famosissimo paso-doble che faceva la gioia dei ballerini più abili.

Anche La Spagnola suonavamo, “stretti stretti nell’estasi d’amor, la Spagnola sa far così..”, e a proposito di spagnola con rammarico segnalo che allora avevo notato molte più madrilene con caratteristiche fisiche adatte alla pratica, se mi seguite; ora troppi fisici atletici e nervosi scolpiti da eccessi di diete e palestre, servirebbe un po’ di ciccetta in più.

Bella Spagna! Infischiamocene se gli invidiosi nordeuropei ci hanno accomunati nell’odioso acronimo Pigs, insieme ai fratelli portoghesi e greci. Che la smettano quei fanatici mangiatori di aringhe e sanguinacci di romperci le scatole! Viva el jamon, viva el sol, felicidad y salud a todo el mundo!¹

(137 – continua)

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¹ Non sono sicuro che si scriva proprio così dato che lo spagnolo lo orecchio solamente. Spero che il senso sia chiaro.

Ossi

L’altra sera Luciana Littizzetto, la nota comica torinese, nella sua consueta rubrica su “Che tempo che fa” ci ha edotti sul risultato degli studi di alcuni ricercatori inglesi che, evidentemente non proprio oberati di lavoro, hanno mescolato le ossa di un uomo di Neanderthal e poi, nel rimetterle insieme, si sono accorti che ne avanzava una ed hanno pensato bene, come una carota in un pupazzo di neve, di infilarglielo da qualche parte. La prognosi degli studiosi, dopo ponderosi studi corroborati da numerose pinte di birra doppio malto, è stata: è un osso del cazzo.

Qui la simpatica cabarettista per amore di battuta ha voluto un po’ esagerare, cercando di spiegare il motivo per cui ora l’osso non lo abbiamo più mentre avrebbe fatto piuttosto comodo; il fatto è che, sebbene per qualche esemplare si faccia fatica ad  accettarlo, l’homo sapiens non discende dall’homo neanderthalensis ma si è sviluppato per suo conto. C’è anzi il fondato sospetto che la nostra specie, pur con l’appendice floscia, abbia sterminato gli abominevoli con l’osso, ma non ci sono ancora le prove scientifiche e per averne la certezza occorreranno ancora parecchie generazioni di ricercatori e soprattutto parecchie pinte di birra. Con questo ho dato fondo a tutte le mie nozioni di paleontologia, pertanto vi invito ad approfondire la questione a casa vostra, con calma.

Chiedo a chi conosce il mondo più di me: ma in Inghilterra, giacché gran parte di queste scoperte viene da lì, tengono dei dipartimenti di ricerca appositi per far felici i comici? Possibile dico io che dal 1829 ad oggi nessuno abbia fatto caso a questo ossetto e tutti quanti, non sapendo dove metterlo, l’abbiano appioppato a casaccio da qualche altra parte dello scheletro? Faccio fatica a crederlo.

A proposito di ossi, il nostro ministro del Lavoro, dei Voucher e delle cooperative si è distinto per una dichiarazione che una volta tanto condivido. Parliamo tanto dei centomila cervelli costretti ad emigrare: ma siamo proprio sicuri che siano tutti-tutti ‘sti gran cervelli? Non è che qualcuno di questi cervelloni era in quella stanzetta a cercare di incastrare l’osso, come un cubo di Rubik? Vorrei essere rassicurato sulla questione. L’altra parte del discorso, che condivido però solo in parte, è: d’accordo, quelli che vanno all’estero saranno sicuramente bravi, ma non è che chi rimane qua sia necessariamente un coglione. No, è vero, non necessariamente: è una libera scelta che specialmente gli ingegneri informatici, che ben conosco, abbracciano spesso.

Rivolgo un appello alle donne: Madri, impedite ai vostri figli di diventare ingegneri informatici! Piuttosto indirizzateli ad attività più oneste come lo spaccio di stupefacenti o il gioco d’azzardo, faranno meno danni! Sorelle, se avete un fratello che vuol diventare ingegnere informatico, fategli terra bruciata con le vostre amiche raccontandogli di quanto poco si lavi, di quanto ami rubarvi i vestiti e rimirarsi davanti allo specchio vestito da Barbie Principessa! Mogli, se inavvertitamente avete sposato un ingegnere informatico, evitate di perpetuarne la stirpe! Concupite e concepite, ma non con lui!

Mentre i nostri amici inglesi si trastullano con i loro ossetti, noi brandiremo l’osso che più ci piace: quello del prosciutto! Voglio chiudere con un’immagine che farà inumidire le ciglia ai cuori sensibili del secolo scorso: Capodanno, famiglia e parenti, bambini, fratelli e cugini, pentolone con fagioli, cotiche e osso di prosciutto, di quel prosciutto fatto in casa l’anno prima e arrivato alla fine giusto per l’occasione, quel prosciutto che ci aveva accompagnato in quasi tutte le giornate di scuola, altro che merendine, altro che pizzette: pane e salsiccia, pane e ciauscolo, pane e prosciutto…

Per essere felici non c’è bisogno di avere tante cose, o di sapere tante cose. Anche un osso può bastare, se è quello giusto e, soprattutto, se è usato bene.

(116. continua)

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Insalata di Farro e tristezze miste

In preda ad un attacco salutista dovuto probabilmente ai sensi di colpa derivanti da sovra-libagioni estive ieri, invece della pasta pasticciata che lo  chef della mensa che frequento proponeva riciclando sapientemente gli  avanzi del giorno precedente, ho voluto mortificarmi prendendo l’insalata di farro.

Non sottovaluto l’importanza storica di questo alimento, che ha accompagnato le legioni romane per secoli; tuttavia confesso che fino a pochissimo tempo fa la mia dieta ne ignorava l’utilizzo e ciò nonostante sono sopravvissuto discretamente.   Sembra comunque che abbia delle proprietà positive rispetto ad altri cereali: meno glutine, meno calorie. S’intende, benefiche per chi ha la pancia piena, perché per gli altri qualche caloria in più non guasterebbe.

Ultimamente c’è stata una riscoperta, grazie allo sviluppo dell’agricoltura biologica, di tante coltivazioni di cui si era persa memoria. Le reputo iniziative lodevoli, e attribuisco interamente alla mia ignoranza l’incapacità di cogliere questa gran differenza tra bio e non bio se non nel prezzo:  e se mi vedrete dondolare la testa su e giù davanti ad un piatto di farro in segno di approvazione è solo per non fare la figura del retrogrado.

Insomma, a me il bio mette tristezza. Il mio inconscio si rifiuta di associarlo a belle tavolate di gente festante, ma piuttosto a sette di penitenti intenti a vendere l’argenteria della nonna per acquistare da perfidi spacciatori dosi giornaliere di zucchine e melanzane. Quando invece penso alle cose genuine, ai sapori di una volta, penso a quei bei pranzi della gioventù.

Sapete, una volta le famiglie di lavoratori non andavano al ristorante. Tra l’altro mezzo secolo fa, dalle mie parti ovvero sulle colline maceratesi, non è che ci fossero tutti questi ristoranti. Quando lo facevano, era per occasioni speciali: matrimoni, comunioni, cresime. Battesimi e funerali no. Siccome i figli erano parecchi, comunioni e cresime venivano ottimizzate per fare in modo di accorparne almeno un paio alla volta.

Il pranzo tradizionale di matrimonio, una maratona del gusto, consisteva con piccole varianti di:

  • antipasto di affettati misti: ciabuscolo, salame lardellato, a volte salsiccia di fegato, lonza, prosciutto; a proposito della lonza, in alcune zone d’Italia viene chiamata coppa, mentre nel maceratese è la soppressata ad essere chiamata coppa;
  • minestra per sciacquarsi la bocca, in genere straccetti ovvero uova strapazzate nel brodo di carne bollente;
  • lesso (“l’allesso”), da non confondere con il bollito; la carne usata per il brodo, insomma, cioè mucca e gallina (vecchie entrambe), e anche cappone,  con contorno di verdure, spinaci o erbette.

Questa prima parte serviva, come si diceva, “per preparare lo stomaco”, poi si passava ai primi:

  • tagliatelle all’uovo (o pappardelle) con sugo di papera (anatra);
  • ravioli di ricotta con sugo di pomodoro;
    qui voglio dire, e spero di non offendere nessuno, che gli sfogliavelo non mi piacciono: la pasta per me si deve sentire sotto i denti, e quella si sentiva, eccome.

Dopodiché, dopo una doverosa pausa, si passava ai secondi:

  • arrosto misto (pollo, maiale, agnello, vitello) con insalata per pulire la bocca;
  • frittura mista (la carne di cui sopra, ma fritta; olive ascolane; crema fritta).

Infine gran finale, con lingue impastate e palpebre cascanti:

  • pizza battuta (ovvero pan di spagna) farcita con crema pasticcera; oppure crostate con frutta di stagione; ovviamente spumante, di solito Moscato;
  • caffè e ammazzacaffè (i più duri prima si facevano il caffè corretto al Varnelli e, poi, l’ammazzacaffè)

Ora che mangio come un uccellino, anche se la mia consorte afferma il contrario, mi chiedo come fosse possibile, considerando anche i bis; venivamo diffidati dal mangiare il pane per non riempirci, al contrario di quanto succedeva a casa, dove invece venivamo esortati a mangiarlo eccome.

Mio padre lavorava abbastanza spesso per un’impresa edile; quando un cantiere si chiudeva era usanza, e spero sia rimasta ancora oggi, che il titolare offrisse la cena a tutte le maestranze: carpentieri, muratori, idraulici, elettricisti. Due o tre volte partecipai anch’io, un po’ intimorito da quella gente rude; in genere non spiccicavo parola, ingenerando in quegli uomini il dubbio che quel figlio di Nino, di cui si decantava l’intelligenza, fosse purtroppo muto.

Ve ne sarete senz’altro accorti, che in questi giorni a Rio de Janeiro si stanno svolgendo le XXXI Olimpiadi dell’era moderna. Mangiando quell’insipido farro, e orgoglioso per meriti non miei, riflettevo sul fatto che gli atleti italiani sono come sempre nei primi posti del medagliere ed hanno, da soli, più medaglie di tutta l’Africa messa insieme.

Come pingue rappresentante di questa parte opulenta del mondo, sono incline all’autocritica. E sia: colonialismo, sfruttamento, colpi di stato, FMI, Banca Mondiale e via discorrendo. Ma non sarebbe ormai onesto da parte delle elites dei paesi africani, a più di sessant’anni dalle varie indipendenze, fare delle considerazioni e dei consuntivi su come questa indipendenza l’hanno usata? Hanno operato per il bene comune od hanno pensato più che altro ad arricchire loro e i loro clan? Pochi ne escono bene.

Non vorrei sembrare un sostenitore del fardello dell’uomo bianco o un nostalgico dell’Africa Orientale Italiana, ma siamo sicuri che gli eritrei che si affollano in stazione a Como, o i somali o gli stessi novanta milioni di etiopi, non sarebbero stati meglio sotto una amministrazione fiduciaria italiana (o al limite dell’Onu) visto che da soli per sessant’anni non sono stati capaci di altro che di farsi guerre? Se fossi in loro chiederei di essere annessi all’Italia come stato federato, come il lontano Alaska per gli Usa; così in poco tempo diventerebbero cittadini europei e potrebbero scorrazzare dove meglio credono, in barba ai doganieri svizzeri.

Infine, anche se nessuno ne sentirà il bisogno,  vorrei dire anch’io due paroline sul divieto per i burkini, tormentone del momento. A parte il fatto che li trovo tremendamente sexy, ma questa dev’essere una mia perversione, non capisco che male facciano; un conto è il burka che copre la faccia, che vieterei senza dubbio, ma questa specie di costume intero non vedo come possa dare problemi di ordine pubblico; a questa stregua allora le suore delle colonie estive non potrebbero più andare in spiaggia, e questa sarebbe una vera cattiveria.

Comunque, oggi, pasta al forno.

(107. continua)

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Under the Dome

Nella serie televisiva Under the Dome (“Sotto la cupola”), tratta da un romanzo di Stephen King, una cittadina della provincia americana, Chester’s Mill,  rimane rinchiusa sotto una misteriosa cupola di energia. Nessuna possibilità di uscire all’esterno. Le risorse iniziano a scarseggiare: l’acqua, il cibo, i medicinali, il carburante, tutto è destinato ad esaurirsi.

A Chester’s Mill quindi ci si pone il problema di come ripartire queste risorse e la soluzione trovata, sebbene non brilli per originalità, ha senz’altro dei caratteri di efficacia: i più forti cercano di controllare le sorgenti, di arraffare le riserve di cibo, di controllare i depositi di gas; per far questo non esitano a uccidere quelli che fino a poco tempo prima erano i loro pacifici vicini di casa.

Sono sempre stato appassionato di fantascienza. Da piccolo mi piacevano un sacco i telefilm di “Ai confini della realtà”: me ne ricordo uno, terribile, dove c’era una fabbrica che produceva organi umani e da una parete spuntavano delle braccia. La notte, guardavo la parete di fronte al letto con qualche apprensione.

Tornando alla cupola, se allargassimo un po’ la prospettiva e ci ponessimo nell’ottica, mettiamo,  dell’astronauta Samanta Cristoforetti sulla Stazione Spaziale Internazionale, potremmo riflettere sul fatto che, in fondo, siamo tutti sotto un’enorme cupola.

Secondo Oxfam, una organizzazione che studia e sensibilizza sulle povertà e disuguaglianze nel mondo, la ricchezza delle 80 persone più ricche del pianeta è pari a quella della metà più povera. Siccome siamo sette miliardi, fatevi un po’ i conti. Ugualmente istruttivo è imparare che l’1% della popolazione detiene quasi la stessa ricchezza del restante 99%. Se è difficile immaginarlo, vi aiuto con un esempio. Prendete nove squadre di calcio, un arbitro e una torta. Dividete la torta in due. Una metà se la mangerà da solo l’ingordo portiere della Juve: i suoi compagni di squadra, gli avversari e l’arbitro stizzito si spartiranno l’altra metà, e nemmeno in parti uguali.

La cosa peggiore, secondo me, è che a questo stato di cose siamo così assuefatti che non ci facciamo nemmeno più caso. Lo consideriamo irreversibile. Prendiamo i combustibili fossili, carbone, petrolio, avete presente? Tutti sappiamo che prima o poi finiranno. Bisognerebbe prepararsi, magari chiedendosi se veramente in una famiglia servano due auto a testa. Nel frattempo, assistiamo a: guerre per il controllo delle fonti; sfruttamenti a uso e consumo di despoti che se ci fa comodo definiamo illuminati altrimenti feroci dittatori; metodi di estrazione sempre più invasivi e distruttivi (il famigerato fracking, che potrebbe essere stata la causa del terremoto in Emilia di due anni fa… le trivellazioni nel canale di Sicilia!);  ricerca di nuovi giacimenti in ambienti naturali incontaminati (persino dell’Artico… c’è chi esulta, ci dice Greenpeace, per lo scioglimento dei ghiacci che renderà più facile l’estrazione);  utilizzo delle terre coltivabili per produrre biocarburanti. Cioè, terra agricola non per produrre cibo per nutrire il pianeta (magari all’Expo si dovrebbe parlare di questo, più che di quanto siano belli i padiglioni delle archistar) ma per far viaggiare le automobili.

Assistiamo, ormai da 25 anni (da quando è caduto il muro, si può dire?), ad una sempre maggiore pressione dal sud e dall’est del mondo verso l’”occidente”, inteso come luogo di opportunità e benessere; popolazioni intere si spostano in cerca della loro fettina di torta che qualcuno gli ha nascosto. Per alcuni è una necessità vitale: dalle loro parti si muore, di guerra o di fame. Per altri è la ricerca dell’Eldorado, il Paese dei Balocchi di Pinocchio e Lucignolo, la speranza dell’Anno che verrà di Lucio Dalla: sarà tre volte Natale, e festa tutto il giorno. Per questi il risveglio, quando si accorgono che festa e torta non sono per loro, è traumatico.

Per restare in tema Expo, un recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che nel mondo un miliardo di persone siano in sovrappeso, di cui 300 milioni clinicamente obese. Nel contempo, quasi un miliardo di persone soffre la fame. Qualcuno mangia troppo e male, e qualcun altro non mangia: la media è salva, anche se questo non è di consolazione , specialmente per i secondi.

Non che manchino le soluzioni: l’altro giorno ad esempio un amico mi ha raccontato una bella storia. Da bambini erano andati in gita con l’oratorio, e ognuno aveva portato la sua bella merenda preparata dalla mamma. Arrivati sul posto, il prete ha requisito panini, focacce e merendine. Poi li ha spezzati, e li ha messi in comune, o in comunione se preferite.

Io non so come andranno a finire le cose, a Chester’s Mill. Può darsi che un Dio benigno li tiri fuori dalla cupola, assicurando pace e prosperità; o può darsi che, preso atto che dalla cupola non si scappa, i superstiti riescano a collaborare insieme; o può essere che continuino come adesso, ma in questo caso si pone un piccolo problema di sceneggiatura: non è detto che i più forti di oggi lo siano per sempre. E la torta piace a tutti.

(38. continua)

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Casatschok

La mattina del primo maggio il paese veniva svegliato dalle note della banda che eseguiva ad libitum  l’Inno dei Lavoratori. Con gioia birichina andavamo a svegliare proprio quei lavoratori che più di altri avrebbero avuto il diritto di riposarsi, almeno nel giorno della loro festa, ma c’è da dire che allora la gente non era solita crogiolarsi sotto le lenzuola.

Non tutti sapranno che le parole di quest’inno sono state scritte nell’ottocento nientemeno che da Filippo Turati; della qual cosa pochi anche allora erano al corrente ma non il nostro maestro, vecchio socialista, che ce lo proponeva con particolare piacere. Gli strumentisti più conservatori a volte opponevano qualche resistenza; per convincerli a suonare Fischia il vento, celebre inno partigiano, bisognava illuderli che si trattasse di Casatschok di Dori Ghezzi.

Pensare di trovare un negozio aperto il primo maggio sarebbe stata (e dovrebbe esserlo ancora, a mio parere) un’eresia. Ci sono 364 (+1 per i bisestili) giorni l’anno per fare spese: non c’è motivo di intestardirsi nel voler comprare, che so, un paio di scarpe o un maglione proprio quel giorno.

Il culmine della giornata era costituito dalla scampagnata. Ci si trovava, con tutti i membri della Società Operaia, in un prato nella frazione di Cantagallo; questa collina, lo dico per i curiosi, era stata teatro di una battaglia, nel 1815, tra Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e Re di Napoli, e gli austriaci: Murat fu sconfitto, cosa di cui mi sono sempre dispiaciuto, e oltretutto gli aborriti vicini tolentinati hanno sempre cercato di accreditare l’avvenimento come “Battaglia di Tolentino”. Invidiosi.

Oggi scampagnata è un termine desueto, si dice picnic. Non so voi ma a me, quando si parla di picnic, salgono alla mente immagini bucoliche, perlopiù di ambientazione inglese, dove famigliole vestite di tutto punto estraggono da graziosi panieri di vimini  sandwich al formaggio e cetriolo, con contorno di bambini che giocano alla corda o al volano.

Niente di tutto ciò.

La scampagnata del primo maggio era semplicemente la cucina di casa traslata su un prato. Ed ecco quindi uscire dal portabagagli della 124 familiare: teglie di vincisgrassi; arrosto misto a cui magari si accostava una fritturetta di olive ascolane; un po’ di insalata per pulirsi la bocca; un ciambellone o una pizza battuta, magari farcita di crema. Vino, parecchio. La visione salutista odierna prescrive di non somministrare questo alimento a bambini e ragazzi sotto una certa età. Il fegato non metabolizza, dicono. Boh, a noi un goccetto l’hanno sempre dato, magari annacquato; non so se metabolizzasse, ma male non ne ha fatto.
Per merenda, fave e pecorino, ciauscolo e vino cotto.

Non essendo il volano nelle nostre corde,  il prato diventava un immenso campo di calcio; vidi una cosa simile un primo maggio di qualche anno fa, nel Parco della Reggia di Capodimonte a Napoli: però con meno sobrietà.

Dopo qualche anno la consuetudine si interruppe; riprese poi ma in un’altra frazione, il Trebbio, dove fummo chiamati ad allietare il pomeriggio con la nostra orchestrina. Ci venne chiesto di suonare Bandiera Rossa; io non avevo niente in contrario, lungi ancora da me il considerare un ossimoro l’ultima parte del ritornello (“evviva il comunismo e la libertà”) ma il nostro trombettista Diego, maestro del coro parrocchiale,  si faceva qualche scrupolo. Fu una versione discutibile: il popolo sarebbe dovuto andare avanti alla riscossa, ma a passo di marcetta molto spedita.

Quest’anno il primo maggio sarà ricordato per l’apertura dell’Expo di Milano. Nutrire il pianeta, è il tema, o meglio i sette miliardi di persone che lo popolano. Finché un pugno di privilegiati continueranno a mangiare come metà del pianeta credo che l’obiettivo sarà difficilmente raggiungibile: spero di sbagliarmi, ma non mi sembra che tanti siano disposti a intonare Fischia il vento, la maggior parte balla il Casatschok.

(35. continua)

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Viva le lasagne!

Con motu proprio stamattina il mio sopracciglio sinistro si è alzato. Sbirciando il giornale del mio compagno di viaggio (il mio non riporta certe notizie, siamo su altri livelli) un titolo in evidenza l’ha costretto a questa intemperanza, a cui non è solito indulgere: “Genitori contro lasagne e polpette”.

Detta francamente, e con rispetto per la posizione dei suddetti, mi è sembrato un comportamento contro natura. Cioè, si può essere contro il buco dell’ozono, lo scioglimento dei ghiacciai, l’estinzione dei panda ma una battaglia contro lasagne e polpette non mi troverebbe al fianco dei promotori.

Nemmeno mio nonno Gaetano, credo, ne sarebbe stato entusiasta. Tornato dalla guerra d’Africa (dove ricorderete era partito inaugurando il vestito bianco) dove la prigionia e la malaria l’avevano ridotto pelle e ossa, dovette assoggettarsi tutta la vita ad un menu di patate lesse, carote lesse, e pollo (lesso). Tenendo conto che mia nonna era cuoca, un bel supplizio. Nella dieta stranamente era ammesso il vino, credo come disinfettante. Avrei sconsigliato qualcuno dal perorare un boicottaggio di piatti conditi, siano primi o secondi, in sua presenza.

Da noi le lasagne si chiamano vincisgrassi e l’Unesco a mio parere dovrebbe proclamarli patrimonio dell’umanità. Quelli di mia madre, sicuramente.

Da piccolo, nella nostra casetta, capitava che avanzasse del pane e venisse posto a seccare. Il pane secco non si butta, è un peccato mortale: mio padre ancora oggi ama farci colazione. Qualche pomeriggio, per merenda, questo pane avanzato veniva ammollato con l’acqua e condito con lo zucchero; oppure con olio e aceto. Mio fratello, piccolino, non deve aver vissuto tali variazioni al regolamento con animo sereno: ancora oggi sostiene che ci veniva dato quando non c’era nient’altro da mangiare.  Non mi sento di escluderlo: comunque una zuppetta di pane e zucchero non ha mai fatto male a nessuno.

Tornando al casus belli, sembra che in precedenza in qualche piatto siano state trovate tracce di peli di cotenna (di maiale). La protesta fortunatamente non parte da pregiudizi religiosi altrimenti qualche parte politica facinorosa se ne approprierebbe per propugnare menu a base di cotenne pelose, ma esclusivamente sul merito della composizione dei ragù.

In tempi meno opulenti il dialogo sarebbe stato: “C’è un pelo!” “Scansalo e mangia” “No, non mi va più” “Lascia lì, che mangio io”. Il senso di colpa del lasciare cibo nel piatto mentre nel mondo chissà quanti bambini stavano morendo, in quello stesso preciso momento, di fame, impediva il reiterare di capricci. Per noi poi che eravamo in quattro più che fare storie bisognava essere veloci a finirlo, quel che c’era: gli altri non avrebbero avuto pietà.

Un altro punto di vista, fatalista ma non privo di verità, era: “quello che non strozza, ingrassa”. A parte che il concetto di strozzare varia da persona a persona: ad esempio qualcuno potrebbe essere refrattario alle carrube (teche marine si chiamano da noi, chissà perché; cronache antiche riportano che fossero vendute da Pietro de Claudina, insieme alla lavanda africana), e qualcun altro andarne ghiotto perché gli ricordano i bei tempi; il kebab nutre milioni di turchi, ma col sottoscritto è incompatibile. Detto ciò, concordo che magari dal punto di vista nutrizionale una setola di porco non valga granché ma come dire, non c’è ciambella senza buco ne cotica senza pelo.

A proposito di carrube, mi è venuto in mente che quando da piccolo mio padre mi portava a vedere le partite, c’erano i venditori di lupini, semi di zucca e appunto carrube; sono sempre stato un ammiratore dei virtuosi del lupino e seme di zucca. In entrambi i casi, si tratta di togliere la buccia senza l’uso delle mani; l’operazione va fatta con i denti e con la lingua, e la buccia deve essere rigorosamente sputata nel posto antistante. Come esecutore ero scarso, e una buccia su due la mangiavo. Le carrube però proprio non mi piacevano, a mio padre invece ricordavano le fiere di gioventù.

Mi capitò negli anni ’80 di andare a cena, con la mia futura dolce metà, in un ristorante storico di Milano, “La mamma”, vicino al Piccolo Teatro. All’ingresso c’era un cartello che diceva ”attenti alle tartarughine” e quindi entravi in questo locale buio con cautela, guardandoti i piedi: così concentrato non ti accorgevi dell’arrivo del gestore (uomo) che ti urlava un “Buonasera! Io sono la mamma!” facendoti sobbalzare. L’antipasto veniva servito in un vaso da notte, dei pezzetti di bologna e grana; e come frutta, appunto, le carrube, sempre in un vaso da notte. Il locale era tappezzato da foto di gente famosa, e sinceramente pensammo che fossero millanterie per impressionare i turisti. Con sorpresa ma anche tenerezza anni dopo sentimmo addirittura al telegiornale che il locale storico aveva chiuso i battenti. E le tartarughine?

Tornando alle lasagne, credo che l’unico motivo sensato per cui esse, con o senza peli, dovrebbero essere proibite ai bambini sia un altro ma quei genitori, lo dico con rammarico, non ne hanno accennato.

Le lasagne non sono un piatto normale. Sono un piatto della festa. Della domenica, e non di tutte le domeniche ma solo di quelle importanti, un piatto da mangiare tutti insieme in famiglia, un piatto che da solo mette allegria e voglia di stare insieme. Non si può far assurgere un semplice mercoledì, per dire, a livello di domenica. Altrimenti va a finire che ogni giorno è domenica, col risultato di passare le domeniche negli abominevoli centri commerciali. A mangiare, ancora, lasagne e polpette.

(34. continua)

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