Ferragosto con Olena – The End

L’ottobre è mite, ed i festeggiamenti per l’anniversario della fondazione dell’Istituto di Carità intitolato al Beato Turoldo Cesanese del Piglio non potrebbero essere più festosi.
La processione si dipana per le vie del paese, con in testa la banda cittadina che sfoggia le nuove divise disegnate dallo stilista Girifalchi ispirate alle Quattro Stagioni di Vivaldi ma per i maligni alla pizza quattro-stagioni, dono della Fondazione Rana; la partecipazione di fedeli, pie donne e congregazioni negli abiti tradizionali è massiccia, così come la presenza della folla ai lati della strada; la statua del Beato ondeggia a ritmo, sorretta da squadre di nerboruti manovali che si danno il cambio lungo i cinque chilometri del percorso.
Gilda, in divisa da crocerossina delle Volontarie del Soccorso ai soccorritori volontari sfila fianco a fianco a suor Matilda, commentando gli eventi dell’estate passata.
«Gilda, non so come ringraziarti. Se non fosse stato per te non so come saremmo uscite da quella situazione. Come potrò mai sdebitarmi?» chiede la suora alla sua vecchia amica.
«Non pensarci nemmeno, Marisa. Mi sono divertita tantissimo, specialmente con il lanciarazzi, mi serviva proprio divagarmi un po’ , non si vive di solo ripieno, giusto? Mi è dispiaciuto per l’auto del Vescovo, mi è scappato un colpo ma spero che quella nuova gli sia piaciuta…»
«Si, c’è rimasto proprio male! » ride la suora «Gli hai fatto saltare una Multipla e gli hai comprato una Jeep Cherokee, non finiva di ringraziare la provvidenza! Ma non c’era bisogno Gilda, hai fatto anche troppo… finanziato tutti i preparativi, avviato la costruzione del Museo della Corona di Galla Placidia… lo stabilimento per la produzione della Zuppa Imperiale…»
«Per quello mi raccomando, eh? Ci tengo, ho ordini fin dal Sultano del Brunei. Pugno di ferro in guanto di flanella o giù di lì, metti suor Emerenziana a contrattare con i sindacati» suggerisce la Calva Tettuta, ritrovando il piglio confindustriale.
«Ah, ah, ma certo, non preoccuparti» la rassicura la suora, poi dandole di gomito le indica il Vescovo:
«Guardalo, Gilda, non ha ancora capito niente di quello che è successo…»
«E ti credo» risponde la Calva Tettuta, «tra lui e don Martino si sono scolati una botte di vino… e quando si è svegliato ormai la mia Delta Force Rana aveva fatto sparire tutto. »  Poi, indicando all’amica la coppia che coadiuva S.E. Ardizzone dice: «Non li trovi teneri, Marisa? James non molla il campanellino e don Martino gli tiene il broncio. Beata gioventù!»

Sul grande palco allestito sul lungomare, davanti al ristorante “La coratella”, un’orchestra di All Stars sta eseguendo l’introduzione di “Historia de un Amor” nella versione mambo di Perez Prado.
Johnny Tempesti col suo sax tenore guida la sezione dei fiati tra cui spiccano i fuoriclasse Kuz Guardatí, italo-francese, alla tromba; Peter Petersen, norvegese, al clarinetto; Marco Cubillas, colombiano, al trombone e Walter Cotequinho, brasiliano, al sax baritono. Agostino picchia sulle percussioni, Armando ha abbandonato la fida fisarmonica per battere il ritmo con le claves, mentre Oscar sostiene l’armonia con il suo organo Hammond. Spicca nella sezione ritmica la presenza al  basso del cubano Giorginho Cerezo, in rotta dagli Adelante Compañeros per divergenze sul repertorio e soprattutto sugli emolumenti. La cantante Luana si muove languida scuotendo le maracas, operazione nella quale è maestra.
La pista è gremita di ballerini, tra cui spiccano le bionde Olena e Ljudmila. Quest’ultima è attorniata da una torma di indigeni, mentre Olena fa coppia fissa con Puccio Bongiovanni, inconfondibile con la sua camicia aperta sul petto villoso e la magliettina a proteggere l’arietta sulle spalle. Il marpione finge di non vedere le occhiate minacciose di Luana, e si affanna intorno alla russa nel suo stile accalappia-turiste-a-Brisighella.
Ad un tratto la luce sul palco si affievolisce, ed uno spot illumina la scalinata dietro al palco. Si apre il sipario e, coperta dai grandi ventagli in piume di struzzo sventolati dai due boys Petr e Ivan discende con movenze fatali lei, l’etoile, fasciata da un abito di lamè, con lunghi guanti di seta ed in testa un turbante a forma di ananas: poi, sull’ultima nota di Johnny, i ventagli si scostano e nonna Pina, ritornata per un giorno Wanda, si dona ai suoi ammiratori e con voce roca intona:
Ya no estas mas a mi lado corazón
En el alma sólo tengo soledad
Y si ya no puedo verte
Por qué Dios me hizo quererte
Para hacerme sufrir mas

Ad un tavolino del ristorante è seduto un uomo anziano, abbronzato, con un Panama in testa ed un sigaro Cohiba Siglo II in bocca. Pepe Secundo ascolta rapito nonna Pina, e si accorge appena della prosperosa cameriera Manuelona che, sfoggiando un seno della quinta misura abbondante, gli posa davanti una bottiglia di rhum, un bicchiere ed una ciotola di noccioline salate.

Siempre fuiste la razón de mi existir
adorarte para mi fue religión
en tus besos yo encontraba
el amor que me brindaba
el calor de tu pasión.

All’improvviso dal fondo della strada si sente lo smarmittare di una Ape Car Piaggio, sul cui cassone svetta una mulatta considerevole, che incita il guidatore ad affrettarsi.
«Miguel, cabròn, tra tante macchine che c’erano proprio esta scatoletta dovevi rubare!» lo apostrofa Paio.
«Ma mi amor, è l’unica che potevo guidare senza patente. Se ci fermavano i vigili?» risponde il giardiniere, ligio alle regole della strada.
«Mierda a todos los guardias de tráfico!» esclama Paio, esasperata. «Y mierda para ti!» poi, scorgendo una figura ben conosciuta:
«Eccola là, quella sciacquetta! Ferma immediatamente Miguel, fammi scendere!» ordina la cubana. Miguel, preoccupato, cerca di trattenerla:
«Por favor, amor, non farlo…» ma Paio si è già lanciata sulla pista, mentre il pappagallo Flettàx, sentito l’odore di noccioline, si dirige svolazzando verso il tavolo di Pepe Secundo.

La sagoma della cubana, in canottiera e gonnellina rossa, si staglia in mezzo alla pista, mentre i ballerini si spostano per farle largo.
Olena la vede arrivare, si ferma e la aspetta. Paio le si piazza davanti, e con un sorrisetto la sfida: «Fammi vedere adesso quello che sai fare…»
Olena la fissa negli occhi, e le dice: «Non ti è ancora bastato, vedo…» poi abbranca Puccio e gli sibila in un orecchio: «Preferisci morire ballando o facendo amore?» al che Puccio trova più allettante rispondere: «Facendo l’amore, ma…» e mentre Paio si è già messa in posizione con Miguel, Olena gli ordina: «Allora vedi di ballare bene, finuocchietto»

Es la historia de un amor
Como no hay otro igual
Que me hizo comprender
Todo el bien, todo el mal
Que le dio luz a mi vida
Apagándola después
Hay que vida tan obscura
Sin tu amor no viviré

Pepe si mangia con gli occhi la sua amata Wanda, mentre Flettàx gli mangia le noccioline.
«Che mujer!» commenta tra sé e sé, chiedendosi cosa sarà mai quella bevanda che ha davanti.

The End

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«O saggio Po, un cruccio mi attanaglia»
Il vigoroso Svengard, il norreno che ha trovato un posto nel cuore della Calva Tettuta dopo la dipartita del Cavaliere, cammina avanti e indietro di fronte al cinese Po, che sta svolgendo i consueti esercizi di Tai-Chi nella posizione del babbuino artritico.
Il confuciano poggia entrambe le gambe a terra prima di rispondere al biondo vichingo.
«O glande uomo del nold» risponde il saggio «Sei ploplio siculo che sia un cluccio ad attanaglialti? Di solito il cluccio allovella, il dubbio attanaglia. Che ti cluccia, comunque , o glande?»
«Maestro» risponde un accorato Svengard, sorvolando sull’aggettivo usato dal cinese, «tu che conosci i più reconditi anfratti dell’animo umano, aiutami»
«Se posso, mio amico, lo falò volentieli. Anche nel mio intelesse, è una settimana che spacchi legna, tla poco il boschetto salà diventato un campo da golf. Dimmi pule, dunque» lo invita Po.
«Po, in nome delle antiche scorribande in risció, rispondi a questo quesito: sai dirmi per quale motivo in questa storia hanno partecipato cani e porci, e solo io sono rimasto a spaccar legna?»

Ferragosto con Olena (XVIII)

Il convento delle Suore della Carità del Beato Turoldo Cesanese del Piglio è situato in una collinetta che sovrasta Ladispoli. Per arrivarci c’è un’unica strada sterrata, dove a fatica si incrociano due auto.
Il convoglio di quattro pick-up Toyota si avvicina, alzando una nuvola di polvere.
Dal campanile della chiesetta suor Pulcheria, posta a vedetta munita di binocolo, li vede arrivare e comunica con la radio-trasmittente:
«Stanno arrivando. Passo.»
«Suor Pulcheria non giocare alle spie. Scendi subito e vai al tuo posto. Passo e chiudo»
I pick-up varcano l’arco del cortile, delimitato da un alto muro di cinta, e si dispongono a raggiera, ad una decina di metri l’uno dall’altro.
Gli occupanti scendono e si dispongono dietro, al riparo, con le armi spianate.
Poi, ad un cenno del capo, due di loro si staccano e si avviano verso il portone, dove bussano con decisione con il pesante battente di metallo.
Si sente uno scalpiccio di passi, poi si apre uno sportellino e compare la faccia angelica di suor Burialda, che amorevolmente chiede:
«Pace e bene, fratelli. Cosa vi guida al nostro convento?»
Uno dei due, sgarbatamente, risponde: «Suora, siamo venuti a prendere quello che sapete. Apriteci e consegnateci il Santone, e nessuno si farà male»
La suora guardiana sfodera il suo miglior sorriso, e risponde modestamente: «Temo, cari fratelli, che questo non sia possibile…»
All’udire la risposta l’uomo comincia ad inveire: «Che dici, corvaccio! Apri immediatamente o ti faccio saltare la porta!» e si avvicina minacciosamente alla finestrella, trovandosi però davanti la canna di un AK-47 Kalashnikov con la quale l’esperienza gli suggerisce di non avere discussioni.
«Ma che diavolo…» scappa detto al soldato che, cominciando ad intuire che qualcosa non sta andando secondo i piani, si gira verso il capo per ricevere istruzioni.
Quasi simultaneamente dal campanile, dalle stalle, dal boschetto alle spalle e da una feritoia nel muro di cinta quattro razzi vanno a colpire i pick-up, facendoli saltare in aria.
E’ solo il segnale dell’inizio di una fitta sparatoria; gli uomini nel cortile si trovano sotto un tiro incrociato che li martella; quelli che non sono caduti cercano di riorganizzarsi e guadagnare l’uscita.

Nella cantina il Vescovo Ardizzone grida all’assistente: «Che diamine stanno facendo là fuori, don Martino, le prove dei fuochi artificiali? Vedi che succede a lasciare troppa autonomia alle donne, altro che sacerdozio e balle simili! Vorrei sapere chi paga il conto!» poi, sconsolato, prende dalla rastrelliera una bottiglia, la stappa, si siede sulla panca ed inizia a bere.

Dalla torretta del Panzer V Panther appostato al di fuori del convento, una vecchietta osserva beffarda lo stupore degli uomini che, credendo di essere ormai in salvo, si trovano invece davanti un carro armato della Seconda Guerra Mondiale. La vegliarda spara una raffica di mitragliatrice ai piedi dei fuggitivi, giusto per far capire che aria tira, scaracchia potentemente e poi intima loro:
«Mettete giù le armi, finocchietti. I miei amici qua dentro hanno una gran voglia di provare il cannone, io li ho sconsigliati perché potrebbe anche scoppiare ma sapete, gli anziani sono testardi…» li sfida ridacchiando.
I russi, vista ormai la mala parata, buttano le armi e si inginocchiano con le mani dietro la testa.
«Ecco, bravi. Vedo che sapete già come si fa» dice nonna Pina, e da dietro il carro sbucano Oscar ed Agostino, che imbracciando dei mitra si affrettano a prendere in consegna i prigionieri. Dalla torretta sbuca il testone di Armando:
«Ve l’avevo detto che questo gioiellino prima o poi ci sarebbe servito…» accarezzando il panzer che ha tenuto nascosto per decenni nel magazzino degli attrezzi.

I pochi uomini rimasti in piedi, dentro al cortile, si stringono intorno al capo.
Il silenzio che è calato, rotto soltanto dal rumore delle fiamme che avviluppano le auto, è spezzato ad un tratto da una musica che prorompe dall’altoparlante piazzato sul campanile.
Союз нерушимый республик свободных
Сплотила
навеки Великая Русь.
Да
здравствует созданный волей народов
Единый
, могучий Советский Союз!¹
I russi si guardano in faccia, sconcertati: che diamine c’entrano le suore con l’inno dell’Unione Sovietica?

Aprendo la seconda bottiglia di Grechetto il Vescovo Ardizzone ascolta risuonare l’inno e commenta: «Cazzo, don Martino, i comunisti hanno preso il convento. Povere suore, faranno la fine dei chierichetti» poi, porgendo un bicchiere all’assistente, gli dice: «Bevi don Martino, prepariamoci alla resistenza!»

Nella sorpresa generale, la porta del convento si apre e ne esce una piccola delegazione: davanti, sventolando una bandiera rossa, Ljudmila in minigonna con in testa la corona di Galla Placidia; seguita da Ivan, Petr, e Victor, che reggono un lanciarazzi ciascuno.
Il gruppetto si ferma per far passare quello che è in tutta evidenza il loro comandante; la musica si interrompe e, fieramente, il capitano Olena Iosifovna Smirnova, in divisa dell’Armata Rossa, avanza verso i superstiti. Olena fissa freddamente gli uomini davanti a sé, che indietreggiano timorosi; solo uno rimane al suo posto, sostenendo il suo sguardo. Olena lo squadra impassibile, poi con voce gelida lo saluta:

«Bentornato, colonnello Levchenko» sottolineando con disprezzo il grado dell’uomo.
«Olena?» dice il russo, portandosi una mano alla fronte a coprire il riverbero del sole. «Un’entrata scenografica, complimenti… hai pensato a tutto, come al solito… persino la bandiera, vedo» constata Levtchenko, con una risatina nervosa.
«Proprio così, Evgeni… la mia bandiera non è cambiata, a differenza di qualcuno…»
«Capisco, naturalmente… il capitano Smirnova, l’incorruttibile. E quei traditori?» chiede indicando i suoi tre ex-sodali. «Come hai fatto a convincerli?»
«Dovresti dirmelo tu, caro Evgeni, sei tu l’esperto di tradimenti… mi è bastato di minacciarli di fargli esplodere la microcarica esplosiva che gli ho fatto inghiottire, sai com’è, a volte basta un piccolo incoraggiamento… a te invece cos’è servito, Evgeni?» chiede Olena con la voce carica di delusione.
«Olena, lascia che ti spieghi…» prova a dire il colonnello.
«Taci!» intima la donna. «Cosa vorresti spiegare? Hai fatto credere di essere morto, hai tradito e venduto tutti i tuoi compagni, per che cosa Evgeni, eh, per che cosa?»
«Tu non sai di che parli, mia cara… siamo stati traditi tutti, tutti! Solo gli stupidi come te non se ne sono accorti! Un attimo prima eravamo tutti sovietici, e un attimo dopo abbiamo cominciato a spararci addosso! Che ne era rimasto del nostro sogno, della nostra grandezza? Nazionalisti, integralisti, accaparratori… e io avrei dovuto farmi ammazzare per questo, mentre banditi e mafiosi rubavano, arricchivano, prosperavano? Ho tradito, dici? Si, qualcuno è morto, danni collaterali, sarebbero morti lo stesso e se non fossero morti in guerra sarebbero morti comunque al ritorno, gonfi di vodka fino a farsi scoppiare il fegato… No cara, non era certo quello il mio destino!»
«Il tuo destino?» commenta Olena con disprezzo. «Il tuo destino era quello di diventare un ladro, un traditore, un assassino? Senza nessun onore, nessuna morale?»
«Ah, ah, come siamo diventati sentimentali! Morale, dici… non mi pare che tu ti sia mai tirata indietro quando c’è stato da far fuori qualcuno…» dice sarcastico il russo.
«Io ero un soldato!» grida Olena, fremendo di indignazione. «Combattevo per la mia Patria, mentre quelli come te la vendevano pezzo a pezzo! Io facevo il mio dovere!»
Evgeni applaude, lentamente. «Ma che brava… eppure, cara mia, non siamo tanto diversi, noi due…c’è chi è nato per dominare, e chi per essere dominato.» Poi, avvicinandosi, le sussurra all’orecchio: «Sei ancora bella, Olena… ti ricordi come ci sentivamo quelle sere, nudi nella neve, dopo la sauna? Come pulsava il sangue nelle vene? Eravamo vivi, Olena, vivi! Possiamo esserlo ancora, insieme, tu ed io… torna con me Olena, ti ricoprirò d’oro, lascia stare questi pezzenti!» dice il russo, indicando le suore ed i vecchi che si sono fatti intorno.
Olena alza il viso verso il sole, ed un raggio si riflette nei suoi occhi azzurri e va a colpire il volto rugoso dell’ex-colonnello.

«L’uomo che amavo,» scandisce lentamente «mio marito, Evgeni Nikolaevič Levchenko, è morto in Cecenia. Era un eroe. Qui vedo solo un patetico omuncolo accecato dall’avidità… un assassino, un torturatore, un sadico, un pazzo senza dignità. Uno squallido rinnegato sottomesso al dio denaro, ai soldi…»
«Soldi! Si!» ruggisce il colonnello, raddrizzando le spalle. «Macchine, donne, gioielli, opere d’arte, perché dovrei lasciarle a chi non le merita, a chi non sa gustarle? A chi non le apprezza, non le capisce, non ne è degno! Io lo voglio, lo merito! Guardati, Olena! Potresti passare tutte le tue sere all’Opera, in vacanza ai Caraibi, cenare nei migliori ristoranti, e sei qui, con delle monache! Ed il pazzo poi sarei io! Ah, ah, ah!» ed il colonnello conclude con una risata di scherno il suo monologo.

Olena rivolge uno sguardo all’uomo che ha davanti con un’espressione che assomiglia alla compassione. Gli si avvicina, ed estrae dalla tasca destra della giacca una medaglia attaccata ad un nastrino.
«Colonnello, questa è la medaglia al valore che mi è stata data dopo la vostra morte. Ve la restituisco» e gliela appunta al petto.
Poi estrae dalla fondina la sua fedele Tokarev TT-333 e mormora: «E’ finita, Evgeni. Tra poco arriverà la polizia, passerai il resto della vita in carcere». Gli punta la pistola in fronte, ma poi ci ripensa, la gira e gliela mette in mano.
«C’è un colpo solo, Evgeni. Fai la cosa giusta». Lo bacia velocemente e si allontana, voltandogli le spalle.
Evgeni Levchenko, con la pistola in mano, rimane per un attimo pensieroso. Poi prende una decisione, alza la pistola ed avvicina la canna alla bocca, ma all’improvviso una smorfia di odio gli stravolge i lineamenti, punta la pistola verso la schiena di Olena e spara.

Le suore assistono inorridite; Olena, sorpresa, si gira lentamente, ma ancora in tempo per cogliere lo stupore dipinto sulla faccia del suo ex marito, e la macchia di sangue che si allarga sotto la decorazione che gli ha appena appuntato.
«Devo essermi scordata di caricare la pistola come mi avevi detto» dice suor Pulcheria stringendosi nelle spalle, mentre Virginio Tempesti detto il Santone stringe ancora in mano la pistola con la quale ha fulminato l’assassino di sua moglie.

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¹ La Grande Russia ha saldato per sempre
Un’unione indivisibile di repubbliche libere!
Viva l’unica e potente Unione Sovietica
Fondata dalla volontà dei popoli!
(tratto da Inno dell’Unione Sovietica – versione del 1944. Fonte: Wikipedia)

Ferragosto con Olena (XVII)

«Animali che non siete altro, avete portato la suora a casa mia? In modo che la polizia possa collegare a me tutta questa faccenda? Voi siete dei pazzi, dovrei spararvi seduta stante e sciogliervi nell’acido! Vi ha visto qualcuno arrivare fin qua?» chiede il russo, esasperato.
«Nessuno, capo…» risponde Ivan, a testa bassa «siamo andati direttamente nel parcheggio sotterraneo, e da lì abbiamo preso l’ascensore»
«Il parcheggio…» pensa il capo, ripromettendosi di cancellare le registrazioni delle telecamere di sicurezza. Prende un grosso respiro, resistendo all’impulso di far fuori su due piedi i suoi scagnozzi, e poi ordina:
«Adesso voi due, idioti, statemi bene a sentire e fate esattamente quello che vi dico. Tu, Petr, raduna immediatamente la squadra, andiamo al convento»
«La squadra?» chiede Petr preoccupato. «Tutti quanti? Ma signore, sono solo delle suore!»
«Non discutere i miei ordini!» urla il russo alzandosi in piedi e sbattendo le mani sulla scrivania. «Non voglio sorprese, hai capito? Deve essere un lavoro pulito, non dobbiamo lasciare niente al caso, sorvegliare le entrate, bonificare l’area, e alla fine niente testimoni, è chiaro adesso? Quel maledetto mi ha preso in giro, ma adesso la pagherà cara! Muoversi, scattare! E tu invece…» dice rivolto a Ivan
«Fai sparire la vecchia. Non voglio sapere come, non voglio sapere dove, ma deve sparire!»
«Ma capo, ehm, signore, devo farlo qui? Proprio qui?» chiede Ivan guardandosi intorno.
Il loro datore di lavoro alza gli occhi al cielo.
«Parola mia, non posso crederci. Allora, ti dico per filo e per segno quello che devi fare: prendi la vecchia, la porti in garage, la metti nel portabagagli, poi vai in un posto disabitato, le spari e le dai fuoco. Ci vuole tanto?»
«Ah, ecco. Così è chiaro» conclude Ivan. Poi un dubbio gli attraversa la mente:
«Ehm, e con Ljudmila che dobbiamo fare, capo… signore?»
«Ljudmila? Che c’entra Ljudmila, adesso?» ringhia il capo.
«Ljudmila l’ha vista, signore…» si giustifica Ivan.
Il russo fissa il suo sottoposto, indeciso se usare la Beretta che ha poggiato sul tavolo, poi decide per il momento di soprassedere. Scuotendo la testa, sospira: «Ljudmila… è laureata in astrofisica, da non credere, vero? E adesso per colpa di due deficienti dovrò far fuori anche lei…» poi riprendendo il suo tono autoritario chiama:
«Ljudmila!»
Dopo pochi secondi compare la ragazza.
«Si, zietto?» risponde la bielorussa cinguettando.
«Ljudmila vestiti, che devi accompagnare la vecchia suora nel bosco con questo mio amico»
«Con babbo natale?» chiede maliziosa la ragazza. «Ma certo zietto, devo vestirmi da Cappuccetto Rosso? »
«Non c’è bisogno, sarà una cosa veloce, Metti sopra una maglietta e vai»
«Come vuoi tu, zietto» risponde Ljudmila, corrucciata per non poter dare sfoggio ad una delle sue mise.

Il vescovo Ardizzone varca finalmente la soglia della cantina magnificatagli dall’amico abate, e trova ciò che vede buono e giusto. Decine di botti perfettamente allineate seguite da una sfilza di bottiglie messe ad invecchiare: il paradiso!.
«Visto superiora, ci voleva tanto?» dice a suor Matilda con aria soddisfatta. Le suore, sorprese, si scambiano uno sguardo interrogativo.
«Dove diavolo sono finiti tutti?» chiede sottovoce suor Matilda a suor Emerenziana, mentre l’assistente del vescovo inizia a controllare l’inventario.
Un luccichio in un angolo attrae l’attenzione del Vescovo. Si china a raccogliere l’oggetto e se lo passa davanti agli occhi, sorpreso:
«E questo che ci fa qui?» mostrando alle suore il bossolo di un proiettile calibro 9.
«Porca miseria non li avrà mica davvero infilati nelle botti» pensa tra sé suor Matilda, che tuttavia recupera immediatamente il sangue freddo e risponde al suo superiore:
«Oh, questo? Non ci faccia caso, Eccellenza, ogni tanto ne salta fuori qualcuno. Sa, qui durante la guerra sono passati i tedeschi, battaglie scaramucce attacchi ritirate, capisce? Ogni tanto esce fuori un vecchio bossolo. Dia qua, ci penso io» e così dicendo toglie di mano il bossolo al Vescovo e se lo mette in tasca.
Il Vescovo, sconcertato, risponde:
«Lo tenga pure suor Matilda, ma siete sicura che questi siano gli unici reperti bellici, avete controllato bene? Non vorrei che ci fossero in giro anche armi o bombe inesplose o qualche altra diavoleria. Forse è meglio chiamare i carabinieri a controllare, loro hanno gli strumenti adatti, i cani…»
«Ma no eccellenza, perché disturbare le forze dell’ordine, che hanno già tanto da fare? Probabilmente questo era conficcato nel muro, e qualche assestamento l’avrà fatto cadere…»
«Assestamento dice?» si chiede dubitativo Ardizzone. «Si, può essere.» poi pensando alla Zuppa Imperiale, richiama l’assistente:
«Don Martino, qui allora abbiamo finito, giusto? Direi di passare alle celle, adesso» e prima che l’assistente possa protestare si avvia verso l’uscita.
In quel momento il silenzio è rotto dal suono anacronistico di una sirena antiaerea. Le due suore si guardano strabuzzando gli occhi ed a suor Emerenziana scappa un «Ca…volo, il segnale…»
Il Vescovo, frastornato, chiede:
«Che cos’è questo pandemonio suor Matilda? Che vuol dire tutto questo?»
«Niente di cui preoccuparsi, Eccellenza, è la suora vivandiera che avvisa che il pranzo è pronto. Vogliamo appropinquarci? Magari le celle le visiterete più tardi» improvvisa suor Matilda.
«Si, andiamo, andiamo, ma faccia cessare questo fracasso!» ordina il Vescovo.
«Subito, Eccellenza, faccio strada, con permesso». La Superiora si avvia per le scale seguita da suor Emerenziana e prima che il Vescovo e don Martino escano dalla cantina quest’ultima, con una manata, chiude la pesante porta.
Il Vescovo, superato il primo momento di stupore, urla con il suo vocione: «Suor Matilda! Che scherzi sono questi, aprite immediatamente questa porta!»
«Mi scusi Eccellenza, è stata una corrente d’aria, apro subito» risponde suor Matilda, poi armeggia con la chiave finché non si sente un “tac” sospetto.
«Suor Matilda, ci tiri fuori di qua, ho detto!»
«Sono mortificata, Eccellenza, ma la chiave si è spezzata nella serratura… dovremo far intervenire un fabbro, andiamo immediatamente a chiamarlo…» e sale verso il piano superiore, lasciando il Vescovo esterrefatto a declamare una sfilza di improperi in latino.

Miguel, Paio Pignola, il pappagallo Flettàx ed il camionista ceco Pavel Zatopek stanno percorrendo la litoranea verso Capalbio dove il camionista deve consegnare, per conto della ditta Svoboda, una partita di liquore Becherovka molto amato dai frequentatori di quelle spiagge.
L’autotrasportatore osserva con interesse le lunghe gambe di Paio che sbucano dalla succinta minigonna, cercando di capire il legame tra la stangona mulatta ed il frivolo accompagnatore. I due infatti, da quando li ha fatti salire perché il loro camioncino della lavanderia era in panne, non hanno fatto che litigare e l’autotrasportatore considera se tra i due litiganti non ci sia modo di godere. Peccato che la lingua non gli consenta di capire quello che i due si dicono, altrimenti avrebbe sentito i due insolentirsi:
«Miguel, ora mi sono ricordata perché ti avevo lasciato. Sei un deficiente, e non solo dal punto di vista fisico» dice Paio, squadrandolo in maniera poco lusinghiera, e continua: «Perché non hai fatto il pieno, si può sapere?»
«Mia querida,» risponde i l giardiniere «siamo partiti così in fretta che ho dimenticato tutto, e tra l’altro ho lasciato a casa anche il portafoglio con soldi e patente.» Poi, notando gli sguardi del camionista, suggerisce: «Però vorrei chiederti, mia querida, di non sventolare così il gonnellino, altrimenti l’autista potrebbe insospettirsi»
«Ma che stai dicendo?» insorge la cubana. «Io sventolo quanto mi pare e piace! Non ho niente da nascondere, io!» dimenticando forse il particolare non proprio secondario di non essersi ancora sottoposta all’operazione di cambiamento di sesso.
Pavel comunque non sospetta niente, è solo leggermente confuso, quasi affascinato, dai lunghi piedi della mulatta, 44 o giù di lì, ed ogni tanto con la scusa di cambiare marcia allunga le mani verso le cosce muscolose della salsera.
Miguel osserva mortificato i maneggi del ceco ed i sorrisetti che Paio gli lancia di traverso: il suo sangue ribolle, ma essendo sprovvisto di documento di guida è costretto a sopportare.
«Cornuto!» gracchia Flettàx, con tutto il tatto di cui dispone un Ara Macao padano.

«James caro, il tuo outfit da cappellano militare è perfettamente azzeccato. Mi ricordi Henry Fonda in “C’era una volta il West” ma con molti più bottoni. E’ vero che i bottoni non sono comodissimi in caso di necessità urgente, ma l’insieme è molto elegante. »
«La ringrazio signora, l’ho trovato nella sagrestia e per combinazione è proprio della mia misura. Anche il suo abito è appropriato, se posso esprimere la mia opinione» dice il maggiordomo, ammirando la tuta mimetica in sfumature autunnali della Calva Tettuta, completata da un paio di stivali con la zeppa di Vivienne Westwood.
«Grazie James, temevo che fosse troppo quaresimale» poi si guarda intorno con circospezione e cambia discorso:
«Senti James, volevo chiederti una cosa»
«Dica signora, se posso essere d’aiuto»
«Ma questa cosa» e così dicendo si guarda intorno indicando il convento «non sarà un tantino al di sopra delle nostre possibilità? Voglio dire, le suore in quanto a preparazione militare lasciano un po’ a desiderare. Tra l’altro tendono ad empatizzare con il nemico, ama il prossimo tuo, porgi l’altra guancia non so se mi spiego, forse era meglio chiamare dei professionisti»
«Natascia è stata scrupolosa nella preparazione, signora, non dovrebbero esserci intoppi»
«Si James, ma Natascia è Natascia… ad esempio, prendiamo te, James. Sei un ottimo maggiordomo, direi anzi perfetto, ed in più di una occasione hai mostrato di avere coraggio da vendere, ma sei addestrato per queste evenienze? Voglio dire, hai un curriculum vitae adeguato?»
James annuisce con modestia.
«In effetti signora mi rendo conto di aver omesso una piccola parte del mio excursus professionale, un periodo che ho ritenuto non significativo rispetto alle mansioni da svolgere»
«Ah davvero James? E quale sarebbe questo excursus su cui hai, diciamo, sorvolato?» chiede Gilda con una punta di rimprovero.
«Ecco, signora, ho svolto il servizio militare come guardiamarina. Diciotto mesi di ferma, addestramento alla navigazione ed agli armamenti, mesi passati a battere il mare in lungo e largo» rimembra il maggiordomo sognante.
«Guardiamarina? James, tu non finisci mai di stupirmi. Per la divisa bianca, vero? Elegante, non c’è che dire. Tuttavia James vorrei farti notare un piccolo particolare che forse ti è sfuggito»
«Davvero, signora? E quale?»
«Non vedo acqua qua intorno, James. Potrebbe essere difficoltoso veleggiare.»
«Oh, senza dubbio signora, ma volevo solo dire che la disciplina militare non mi è sconosciuta»
«Ottimo allora, mi sento più serena, e ad ogni modo tra poco vedremo come andrà a finire. Prendi comunque questo biglietto, è il numero della Delta Force Rana, in questo momento quei ragazzotti si trovano in Arabia Saudita per indagare sullo strano caso di giornalisti scomodi usati come ripieno per tortellini, ma in un paio di orette possono essere qua operativi»
«Davvero tranquillizzante, signora. A proposito di arabi, preparerei un caffè con una miscela fifty-fifty, la gradisce?»
«Grazie James, sei un tesoro»

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Mimì e Cocò

Finalmente la Seleçao brasiliana ha trovato i degni eredi del trio delle meraviglie Didì, Vavà e Pelè: i formidabili Mimì e Cocò sono pronti a scendere in campo e far rivivere i sogni dei tifosi verdeoro.

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Segnati dall’ondata di suicidi avvenuta in seguito all’umiliazione subita nei mondiali del 2014, dove la squadra di casa venne brutalizzata dagli spietati germanici, sono stati sguinzagliati per tutto il mondo degli osservatori per segnalare i migliori talenti in circolazione: altro che il sopravvalutato Neymar, altro che l’evanescente Coutinho!

Qui si sta parlando di giocatori di classe limpidissima, una spanna sopra i Kakà e Dudù ai quali l’anziano ex-presidente di una delle due squadre di calcio milanesi, quella con la maglietta più brutta, soleva inculcare i rudimenti dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.

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Il festoso popolo brasiliano dunque potrà tornare tranquillo a ballare la samba e passeggiare per la spiaggia di Copacabana, abbandonando le tristezze della bossa nova e della deforestazione dell’Amazzonia, degli omicidi di attivisti politici e sindacali, di rappresentanti degli indios e di propugnatori delle libertà civili: grazie a Mimì e Cocò si alzerà il velo sulla propaganda disfattista, Marielle Franco non è stata uccisa ma è morta di freddo, come del resto Gesù, e la foresta pluviale amazzonica non è una meraviglia ecologica ma solo un enorme rottura di coglioni.

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La prima partita della nazionale rinnovata dovrebbe essere giocata contro il combattivo Venezuela, sulla carta il risultato è scontato in quanto il divario tecnico è notevole ma nel calcio non si sa mai, la palla è rotonda ed a volte rimbalza addosso a chi la tira: non è sicuro ad esempio se sabotare le reti delle porte possa minare il morale dei giocatori venezuelani o piuttosto spingerli a giocare con più determinazione.

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Nell’attesa, che sta diventando spasmodica, le scuole di ballo stanno preparando per il prossimo Carnevale nuove coreografie, ispirate ai due palleggiatori; via al trenino con il duo delle meraviglie:
A-E-I-O-U-ipselon,
A-E-I-O-U-ipselon,
Fio Maravilha, nós gostamos de você
Fio Maravilha, faz mais um pra a gente ver!¹

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¹ Quando suonavo ai veglioni questa non mancava mai… che bei tempi ragazzi.

Tutta colpa di Marco Polo! (come chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati)

L’altra sera, aiutato da un paio di bicchierini di melogranello, mi sono trovato a riflettere su qual è stato il preciso momento in cui i cinesi sono passati ad essere, anziché risorsa come ci è stato ripetuto per decenni, una minaccia mortale nientemeno che per la nostra libertà.

Il melogranello è un liquore a base di melagrana¹ che ho acquistato alla Fiera dell’Artigianato a Milano; per i miei gusti è troppo dolce ma mi tiene compagnia nei momenti di nostalgia verso il paese natale, che addirittura ha il melograno nello stemma comunale.

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Nel coro degli allarmisti si distingue l’anziano ex premier che si candida al parlamento europeo con lo scopo dichiarato di arginare la penetrazione gialla: mi sono detto che se è preoccupato persino lui, che pure con i cinesi ha fatto fior di affari non ultimo la vendita della sua titolatissima squadra di calcio, evidentemente qualcosa di vero deve esserci e devo affrettarmi a capirlo, anche perché la bottiglia sta finendo.

A proposito di penetrazioni, una delle partecipanti alle famose cene eleganti del suddetto ex premier nonché testimone al processo contro di lui sembra sia stata avvelenata con materiale radioattivo, come nelle peggiori spy-story. Una deputata marocchina dello stesso partito dell’ex premier invita con indubbio tempismo a ricercare mandanti ed esecutori tra i propri connazionali. Non risulta comunque che siano sospettati i cinesi.

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Può essere stato per le squadre di calcio? Non credo. Per l’incetta di bar, di negozi di parrucchiere e barbiere, di centri estetici e massaggi? Per l’invasione di all-you-can-eat e sushi bar? Fastidiosi certo, ma non a livello di minaccia mortale (anche se sugli avvelenamenti sarei possibilista). Sarà perché hanno preso in mano gran parte del settore del divano (altro che artigiani della qualità!) e della stoffa, nonché delle tintorie? Sarà per i negozi di cover e di pile per i cellulari?

Il mio quartiere si è trasformato a poco a poco in una dependance cinese, molto discreta peraltro: finanziano persino la parrocchia, in quanto hanno in uso alcuni locali dell’oratorio altrimenti inutilizzati, e li usano per insegnare il cinese ai bambini cinesi nati qua; magari quando andrò in pensione mi iscriverò anch’io. Ed il ristorante cinese ha preso in affitto il piazzale della chiesa per usarlo come posteggio per i clienti, esclusi naturalmente gli orari delle messe. Il nostro parroco non deve aver colto la minaccia mortale: invece è più sensibile al destino del Venezuela, in quanto l’altra domenica ci ha invitati a pregare per i poveri bambini venezuelani ai quali il loro presidente non vuole bene.

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E’ strano però che finché i cinesi ci servivano per produrre merci a costo basso ci andavano bene, anche se contribuivano ad abbassare sia la qualità dei prodotti che gli stipendi degli addetti di qua: è la globalizzazione, ci dicevano, magari all’inizio porta qualche disagio a qualcuno, ma vedrete che alla lunga ci sarà benessere per tutti.
Peccato che questa “narrazione” era un po’ come la storia nella nipote di Mubarak: una bugia bella e buona, e quelli che ci si sono trovato in mezzo, perdendo posti di lavoro e diritti, non l’hanno presa molto bene. Ci hanno guadagnato, e moltissimo, in pochi: tutti gli altri si stanno ancora chiedendo come mai tutto questo benessere non si è riversato su di loro; finora il giochetto di mettere i poveri contro i più poveri sta funzionando, anche se qualcuno ogni tanto sbrocca: che possa durare per sempre però non ci giurerei.

Sabato sono stato a teatro, al Piccolo Teatro di Milano, imbucato con una benemerita associazione di pensionati. La storia, ben recitata dal bravo Silvio Orlando, era di una malinconia così struggente che mi ha fatto sperare in una prossima rivoluzione mondiale che sfoltisca le fila dell’umanità. Sono sicuro che io sarei nelle fila degli sfoltiti in quanto facente parte di quelli con la pancia piena che vanno a teatro a Milano al Piccolo Teatro a riflettere sui mali dell’esistenza: tra di loro c’è sicuramente anche qualcuno che ai suoi tempi è stato maoista ed aveva in mente di cambiare il mondo ma adesso è contrario al reddito di cittadinanza perché così i giovani non hanno lo stimolo per cercar lavoro.

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Diciamocelo francamente amici: ma cosa sarebbero gli italiani se Marco Polo non avesse portato dalla Cina gli spaghetti? Saremmo rimasti in balia della polenta (per la quale peraltro avremmo dovuto aspettare più di un secolo Cristoforo Colombo) ed avremmo litigato furiosamente, ci si sarebbe divisi tra chi la preferisce molle con la salsiccia in mezzo, chi abbrustolita, chi taragna, chi cuncia con il formaggio filante ed il burro: ed hai voglia a suonare il mandolino! Perciò ben venga quel miliardo e mezzo di cinesi a visitare la nostra Disneyland mondiale; ben vengano i loro container zeppi di cianfrusaglie; ben vengano parrucchieri improvvisati e massaggiatrici volenterose. Speriamo solo che dopo averci comprato le squadre di calcio non imparino pure a giocare a pallone…

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¹ La pianta si chiama melograno. Il frutto si chiama melagrana. In questo blog come sapete si dispensa cultura a mazzi e soprattutto a gratis.

Volevano il salame e gli hanno dato la democrazia

Da bravo cittadino mi sto preparando alle prossime elezioni del parlamento europeo che dovrebbero tenersi il 26 maggio.
Come apprendista statista, non certo peggiore di quelli che abbiamo a disposizione, voglio dire la mia su queste elezioni e contribuire con suggerimenti di buon senso al funzionamento di questa Europa.

Dovrebbero votare 27 paesi (sempre che la Gran Bretagna si decida ad uscire, che ormai hanno oltrepassato la soglia del ridicolo), con una tendenza inesorabile di calo dei votanti che è sconfortante: le percentuali dei votanti infatti sono passate dal 61,99% del 1979 (Europa a 9) al 42,61% del 2014 (Europa a 28).¹
La bistrattata Italia in questa classifica è tra i primi, dietro solo a Belgio, Lussemburgo (interessati a mantenere gli uffici europei, più che altro), Malta e Grecia e ben prima di tutti quelli che ogni giorno alzano il ditino a darci lezioncine.

La mia prima proposta dunque è:

  • assegnare i rappresentanti non solo tenendo conto della popolazione ma di quanti si prendono la briga di andare a votare. Se non vai a votare non è che ti becchi quello che hanno deciso gli altri per te, altrimenti è come l’8*1000 dell’Irpef: no, ti tolgo semplicemente i rappresentanti e li do a qualcuno che ci tiene di più.

Sono stato molto critico sull’allargamento dell’Europa da 15 a 25 (ed oltre) ed i fatti ogni giorno mi danno ragione: lo dimostra soprattutto il fatto che questi nuovi entrati per la maggior parte dell’Europa se ne infischiano allegramente.

Prendiamo ad esempio tutti i paesi dell’ex area comunista: Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Bulgaria, Romania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Croazia.
Tra questi, 2 paesi (Repubblica Ceca e Slovacchia: la ex Cecoslovacchia) sono rimasti al di sotto del 20% di votanti; altri 4 sotto al 30% (Slovenia e Croazia _ la ex Jugoslavia _, Polonia e Ungheria); infine gli altri hanno superato il 30% ma rimanendo sotto il 40% tranne la Lituania con un lusinghiero 47,35 (ma veniva dal 20,98 precedente).

Di conseguenza le altre due mie proposte sono:

  • prevedere una soglia di sbarramento del 25%. Se in uno stato non va a votare nessuno, vuol dire che dell’Europa non gli frega niente, quindi i seggi vengano ripartiti tra gli altri paesi e si rivedano tutte le convenzioni con quel paese.
  • la presidenza di turno deve essere data solo a paesi per i quali si è espresso almeno il 40% dei votanti. Voglio dire, come ci si può sentire rappresentati dal presidente slovacco se nel suo stesso paese ha votato solo il 13,05% ?

Mi viene da dire: ma cari amici, non volevate la democrazia per poter votare ed esprimere liberamente le vostre opinioni politiche? E adesso che questa benedetta democrazia ce l’avete, che ci fate?
Non è che, in fondo, avere qualcuno che scelga per voi vi sta bene adesso come allora?
Se è così mi dispiace, ma vi hanno fregato: volevate solo il salame nei supermercati, ve l’hanno incartato con la democrazia…

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Barbara Matera, una delle nostre più valide rappresentanti

¹ http://www.europarl.europa.eu/elections2014-results/it/turnout.html

Felicità! (Счастье)

Grazie Ucraina!
Lo sospettavamo da tempo, ed ora ne abbiamo l’autorevole conferma: Al Bano è un pericoloso sovversivo!

Personalmente sono stato testimone dell’affetto e persino della devozione di cui è oggetto il nostro cantante in Russia, tanto da indurlo a richiamare in servizio l’ex moglie Romina per una rentreé memorabile, evento che come italiano mi ha inorgoglito anche se sinceramente non mi capacitavo di come potesse essere possibile, ma adesso tutto è chiaro: Al Bano è un amico di Putin, e prova ne sia che ha cantato più volte con il coro dell’Armata Rossa, una volta diretto persino da Toto Cutugno!

Basta e avanza per ritenerlo persona non grata e metterlo al bando: ma non illudetevi, amici ucraini! Il nostro cantante è immortale e sarà qua per fortuna anche quando il vostro governo sarà morto e sepolto: tra l’altro se aveste chiesto il parere delle circa 230.000 connazionali presenti nel nostro paese, non credo che tra i problemi maggiori dell’Ucraina vi avrebbero elencato ai primi posti Al Bano.

Ma tant’è, in questi tempi bui è sempre un piacere potersi fare una risata, e dopo mesi che qua ci triturano i cabasisi con tunnel si – tunnel no come se ne andasse dell’intera civiltà occidentale (e divido le responsabilità tra governo e opposizione, anche quando il governo l’opposizione se la fa da solo: ci avete rotto le scatole. Il mondo non casca ne col tunnel ne senza tunnel, di cose da fare in questo paese ce ne sono a bizzeffe anche senza tunnel quindi finitela e cercate di essere seri).

Dunque grazie ancora, Ucraina! Ci avete regalato un momento di vera felicità, più ancora della nomina di Lino Banfi all’Unesco; da parte mia prenoto il prossimo concerto del mio idolo al Cremlino: Al Bano, ti amo!

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Perché non si dica che sia affetto da pregiudizi verso il popolo ucraino!

Abend

Nel gergo dei dinosauri informatici come me, l’acronimo abend sta per “abnormal end” ed indica la fine inaspettata di un programma, che può avere diverse cause: in genere si tratta di dati in input non corretti e non controllati (esempio tipico: un dato alfabetico dove ci si aspetta un numero) ma si può trattare anche di errori di analisi o di programmazione che inducono il programma a percorrere strade non previste finché non si imbatte per pura fortuna in una via d’uscita oppure, più frequentemente, si schianta: Abend.

Proprio ieri è precipitato un aereo in Etiopia; e quando si parla di Corno d’Africa non posso fare a meno di pensare a mio nonno attorniato da negretti a piedi scalzi, che immagino correre spingendo aerei fatiscenti fino al faticoso decollo.
Niente di tutto questo: l’aereo caduto era un nuovissimo Boeing 737-Max8, un aereo del costo di oltre 100 milioni di dollari, vendutissimo in tutto il mondo.
Poco più di tre mesi fa un aereo simile era caduto in Indonesia, con le stesse modalità: poco dopo la partenza, con grossi problemi di stabilità della altezza e velocità.

Si parla di un sensore non funzionante, o calibrato male, che ha considerato la normale ascesa del velivolo per raggiungere la quota di crociera come il pericolo dell’aereo di andare in stallo, cioè di precipitare a causa della mancanza di aria sotto le ali: per cui il sistema automatizzato (il programma) ha abbassato repentinamente la punta verso il basso, e si è innescata una lotta tra il pilota umano che cercava di rialzare l’aereo ed il sistema che lo riabbassava. Ha vinto, purtroppo, il sistema.

Nonostante i test siano sempre più sofisticati, sia hardware che software, è risaputo che i problemi più grandi nella messa in produzione di un progetto si hanno all’inizio, perché si scopre appunto di non aver considerato proprio tutte le possibilità, o di aver sottovalutato la resistenza di certi elementi agli stress, o di non aver previsto il funzionamento sotto determinate condizioni: si corre allora ai ripari, con releases (rilasci) di nuovo software, aggiornamenti, eventualmente richiami di modelli per cui si riconosce il difetto di fabbrica.
Pensate a Windows: quante fix (correzioni) o upgrade (miglioramenti) vengono fatti dopo il rilascio?

E’ ovvio che un conto è fare programmi per contabilità, dove al massimo si possono confondere dei numeri ma non si ammazza (in genere) nessuno, ed un conto è fare programmi per far volare gli aerei: nel secondo caso ci si schianta veramente.

Nelle ultime settimane, in metropolitana a Milano, ci sono stati degli incidenti dovuti a frenate troppo brusche che hanno causato cadute di passeggeri, con ferimenti e fratture. In questi casi bisognerebbe tener d’occhio compagne di viaggio dotate di congruo airbag e tentare di appigliarcisi, ma se la decelerazione è troppo brusca nemmeno questo può garantire dal non subire seri danni.
Anche in questo caso si è parlato di sensori che dovrebbero accorgersi di ostacoli lungo la linea e rallentare la velocità per evitare o ridurre l’impatto: ma di ostacoli sembra che non ce ne fossero, e dunque i sensori hanno inviato gli impulsi sbagliati, oppure il programma che ha ricevuto l’impulso non si è comportato come avrebbe dovuto.

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Nel 1974 Roberto Vacca, un ingegnere, scrisse un profetico libro di fantascienza: La morte di Megalopoli, che parlava della fragilità delle società tecnologiche in cui un piccolo incidente poteva portare ad una reazione a catena devastante, fino al crollo della civiltà.
Il libro mi ha impressionato così tanto che da allora nutro una seria diffidenza verso la tecnologia: in auto ho il cruise control ma non lo attivo mai perché ho paura che poi non si disattivi: fa ridere, lo so, però ripenso ad un incidente di qualche tempo fa, quando un ragazzo ad un casello autostradale andò a travolgere a 150 all’ora un’auto con una coppia che stava pagando il pedaggio, e non si è mai capito se sia stato lui a sbagliare oppure il cruise che non si è disattivato.

Viviamo in un mondo dove la tecnologia e l’informatica sono sempre più pervasive: con il prossimo 5G saremo del tutto immersi in una rete globale, e non ci sarà più apparecchio elettronico che non sarà collegato ed accessibile.
Fino all’ultimo mi rifiuterò di sostituire gli elettrodomestici: non vorrei che si mettano d’accordo tra di loro, perché se la bilancia segnalerà che ho superato il limite, il frigorifero non si aprirà più…

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Vieni tu o vengo io?

L’ultima che ci siamo visti, con il mio amico Vincenzo e sua moglie, è stato una decina di anni fa. Mio figlio partecipava ad una manifestazione di rievocazione medievale a Quattro Castella, non distante da Parma, e così ne abbiamo approfittato anche noi per una rimpatriata. Ci siamo sempre tenuti in contatto, ogni tanto ci sentivamo per telefono, ed ogni volta ci promettevamo: “dai, a primavera vengo su” oppure “dopo Pasqua veniamo a fare un giro”…
Il tempo è passato, amico mio, e tutte quelle discussioni sull’Inter, sulla politica (sui 5S ci avevi visto meglio di me, ma tu avevi avuto l’esperienza di Pizzarotti…), del lavoro che non era più quello che avevamo vissuto noi, non le faremo più; a forza di “vieni tu o vengo io” non ci siamo più incontrati: pensavamo di avere tutto il tempo del mondo e invece no, Big Ben ha detto stop, fine delle trasmissioni.

Quando sabato la moglie Rosanna mi ha chiamato non volevo crederci: ma che si fa così, all’improvviso, con questo male che ti tenevi dentro senza saperlo o senza volerlo sapere, senza lasciare il tempo di promettersi di vedersi ancora, da me o da te? E sono rimasto così, stupido, pensando a che diavolo avevamo di più importante o urgente da fare che non venir giù io e berci insieme una bella bottiglia di malvasia o venir su tu a farci una bella pizzoccherata…

Però ci siamo divertiti, eh, Vince? Chissà se dove sei andato ci sono tavoli da ping pong…

Sassofono e ping pong

 

Ferragosto con Olena (XVI)

«Eccellenza, non vorrebbe iniziare l’ispezione dalle cucine? La nostra suor Germana sta preparando la zuppa imperiale, ci farà l’onore di restare a pranzo con noi?» chiede suor Matilda, cercando di prendere tempo. Il Vescovo Aliprando, tutt’altro che insensibile alle tentazioni culinarie, sentendo attivarsi la salivazione, si informa con finta indifferenza:
«Zuppa Imperiale? Con il brodo di carne, intendete?»
«Certamente, eccellenza» risponde la Superiora «secondo la ricetta originale della Vecchia Scuola Bolognese» lanciando un sorrisetto speranzoso alle altre suore.
Il vescovo si rischiara la gola, propenso ad accettare immediatamente l’invito, ma un’occhiata del segretario lo richiama agli obblighi della sua funzione.
«Ebbene, cara suor Matilda, dite pure alla cuoca di aggiungere un posto a tavola… ma prima il dovere, su, fatemi strada verso le cantine»
«Non vorreste magari cominciare dalle celle delle suore?» propone speranzosa la suora.
«Suor Matilda, per la miseria!» intima il Vescovo con il suo vocione «se ho detto cantine sono cantine, su, non fatemi perdere tempo! Sembra quasi che non vogliate farmele vedere, le vostre cantine! Ah, ah, non ci avrete mica nascosto qualche scheletro?» chiede Ardizzone scherzando, non cogliendo gli sguardi preoccupati delle monache. Suor Matilda cede:
«Come vuole Eccellenza, lo dicevo solo perché nelle cantine c’è fresco, e non vorrei… come non detto, le faccio strada. Suor Emerenziana, potete accompagnarci per favore?» chiede la badessa, pensando che un paio di mani abituate a distribuire sberloni possano essere utili.
L’anziana suora alza gli occhi al cielo ed annuisce, seguendo i due per le scale che portano al piano inferiore, non mancando di farsi un segno della croce rivolgendo un appello al Beato Turoldo.

Nell’ampia sala dell’attico di un elegante palazzo in stile Liberty in viale Tiziano, nel quartiere Flaminio a Roma, un uomo seduto ad una scrivania su una poltrona in pelle del costo superiore al minimo Isee necessario ad ottenere il reddito di cittadinanza, scuote la testa e la cenere del sigaro Davidoff Nicaragua Toro che stringe tra le dita. Con una smorfia di disappunto si rivolge alla ragazza presente nella stanza, che solo un occhio poco allenato potrebbe scambiare per la sua segretaria.
«Ljudmila, portaci una bottiglia di vodka, e poi vai di la a pitturarti le unghie» le ordina l’uomo.
Ljudmila Attikova, ventottenne bielorussa, stiracchia il suo metro e ottanta di sensualità e si alza dal divano dove, in shirt e reggiseno, stava distesa sfogliando l’ultimo numero dell’edizione russa di Vogue.
«Subito, zietto» mormora con voce roca all’orecchio dell’uomo, e si avvia ondeggiando verso la cucina dove si trova il capiente frigobar.
«E ti ho detto di non chiamarmi zietto» le grida dietro l’uomo seduto alla scrivania, scuotendo ancora la testa.
«Come vuoi, zietto» risponde la bellezza, con un sorrisetto impertinente.

L’uomo alza lo sguardo verso le due persone in piedi dall’altra parte della scrivania, incredulo.
«Si può sapere che vi è successo, deficienti? E il vostro compare, dove lo avete lasciato?»
Ivan Kozlov e Petr Prostakov, l’uno con una mano fasciata e l’altro con un vistoso cerotto sul naso ed entrambi gli occhi neri, in piedi a capo chino, con le mani dietro la schiena, si scambiano un’occhiata preoccupata.
«Abbiamo avuto un incidente stradale…Victor è all’ospedale» cerca di giustificarsi Ivan.
«Degli idioti, siete degli idioti!» urla l’uomo. «E cos’è che vi siete messi, perché diavolo vi siete vestiti da Santa Klaus? E’ una tua idea, vero caporale?»
Ljudmila rientra, reggendo un vassoio con sopra una bottiglia di Pertsovka ghiacciata e tre bicchieri, lo poggia sulla scrivania, e dopo aver lanciato uno sguardo malizioso ai due ospiti commenta:
«Carini i tuoi amici, quest’anno il rosso va molto di moda» ed ancheggiando lascia la stanza, spargendo dietro di sé una scia di Black Opium e feromoni.

Ivan deglutisce e continua:
«Ecco, boss, siamo stati al convento come voi ci avete ordinato, ma…»
L’uomo sbatte il palmo della mano che non regge il sigaro sul tavolo e urla:
«Ma? Che significa, ma? Non tollero ma! Vi ho affidato un compito, l’avete portato a termine, si o no? Non voglio sentire scuse, e non ammetto fallimenti, mi conoscete! E chiamami signore, che boss sa di mafioso! Ti sembro un mafioso, io? Io sono un uomo di affari!»
Petr, al quale sotto al costume il sudore ha cominciato a scorrere lungo la schiena, viene in aiuto del suo compagno:
«Signore, è andata così… ci siamo presentati al convento, fingendo di essere incaricati del gas… »
«Del gas? Vestiti in quel modo?» chiede sospettoso il capo.
«Ehm, abbiamo detto che c’era una promozione speciale, le suore ci hanno fatto entrare senza sospettare niente. Molto simpatiche le suore, ci hanno anche firmato un contratto»
L’uomo d’affari, non soddisfatto dalla piega del colloquio, estrae dal cassetto una Beretta APX Combat, con la quale inizia a giocherellare. Capita l’antifona, Ivan decide di vuotare il sacco:
«Signore, abbiamo dovuto torchiare un po’ le suore…»
«Oh, adesso si ragiona. Continua, su!» lo invita l’uomo col sigaro, con un cenno di approvazione.
«Non volevano parlare, ossi duri… così abbiamo dovuto sparare alla più vecchia»
«Danni collaterali, vai avanti»
«Così si sono ammorbidite… e abbiamo saputo che quello che ci avete mandati a cercare non c’è, ma tornerà questo fine settimana»
«Ottimo! E troverà una degna accoglienza…» sibila l’uomo. Poi un pensiero gli attraversa la mente , e chiede ai sui sottoposti:
«Vi siete assicurati che i testimoni non possano parlare?»
«Ecco, boss, ehm, signore… abbiamo pensato che far sparire tutte le suore sarebbe stato un po’ sospetto… allora abbiamo preso un ostaggio» dice Ivan, sperando la loro iniziativa sia gradita.
«Un ostaggio? Si, può essere una buona idea… e dove l’avete nascosto?»
Ivan e Petr si guardano, rendendosi conto di non aver considerato un piccolo particolare. Il capo poggia il sigaro sul portacenere, si alza lentamente dalla poltrona appoggiandosi alla scrivania e, fissando negli occhi i due babbi natale, li interroga:
«Non lo avrete mica portato…»

In cucina intanto Ljudmila ha stappato una bottiglia di Blanc de Blanc, ed ha riempito due calici. La sua ospite, una suora minuta dall’aspetto centenario, raschia la gola, solleva il calice ed osserva la fontanella di bollicine salire dal fondo, e con un cenno di approvazione dice:
«Grazie figliola, io veramente preferisco il Franciacorta, ma se non c’è di meglio…come hai detto che ti chiami, figliola?»
«Mio nome Ljudmila… e vostro nome, sorella?» chiede la ragazza, curiosa.
La suora sorride stringendo gli occhi e, prima di buttare giù il bicchiere di champagne tutto d’un fiato, risponde:
«Chiamami pure Pina. Nonna Pina»

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