Mia nonna di parte materna, Annunziata, era analfabeta. Era la seconda moglie di mio nonno, sostituta della prima morta di stenti in quei tempi grami, tempi di guerra, “matrigna” non certo per vocazione, per me fu la nonna più amorevole del mondo; trovata forse con un passaparola da un uomo come mio nonno che aveva senz’altro contribuito, con le sue assenze ma forse ancora di più con le sue presenze, a non rendere facile la vita della prima moglie: sai, Gaetano, ho sentito che a Pignà, Appignano, c’è questa signorina, sono tante sorelle, è una brava donna, non più giovanissima, farebbe proprio al caso tuo…
Quando ho fatto il militare, alla fine degli anni ’70, la cosa che più mi ha meravigliato è scoprire che ancora ci fossero, in Italia, dei ragazzi della mia età analfabeti. Gente che non aveva mai potuto andare a scuola; o gente che sapeva a malapena leggere e scrivere perché non aveva nemmeno concluso le elementari. Per loro c’erano le lezioni pomeridiane e per molti fu sicuramente l’ultima occasione per sedersi su dei banchi di scuola; andare sotto le armi aveva la sua utilità, a volte.
Mio nonno paterno Ernesto, ricordate Ciao Nì?, non l’ho mai conosciuto perché fu inghiottito dal buio del periodo finale della guerra civile: faceva il portaordini in bicicletta, si dice che fu ucciso dai partigiani; il corpo non venne mai trovato, ed a dire il vero dalle nostre parti distinguere i partigiani veri dai banditi non era sempre facile. Di lui rimane solo un ritratto, da adolescente in divisa da esploratore, ed il nome, che mio fratello ha ereditato. Doveva essere istruito, per quei tempi: orfano, era stato portato in Italia dall’Argentina da un prete, e aveva frequentato gli Artigianelli, l’istituto caritatevole di San Severino che accoglieva ragazzi poveri o abbandonati e li formava ai mestieri artigiani, appunto; il nome Amleto dato a mio padre deve essere farina del suo sacco. Questa formazione a dire il vero non gli servì a molto, dato che da apolide qual era lavorare, anche a quei tempi, non era per niente facile; e nemmeno sposarsi se è per quello, e perciò impossibilitato nel dare ai figli il proprio cognome. La cosa complicò abbastanza la vita a mio padre ed ai suoi fratelli, che dovettero aspettare la legge che consentisse ai figli “naturali” di vedersi assegnato il cognome delle madri; prima l’attribuzione era lasciata alla fantasia o alla pigrizia degli ufficiali di stato civile: a Napoli c’erano tanti Esposito, al mio paese andavano di moda gli ortaggi e le verdure.
Mio padre ha la licenza elementare. Dopo di quella, per i figli dei lavoratori che dovevano a loro volta diventare lavoratori, c’era la Scuola di Avviamento Professionale: in teoria obbligatoria, in pratica frequentata da chi non avesse bisogno di lavorare per mangiare. Lui di bisogno ne aveva, ed a dieci anni si ritrovò garzone di bottega di un fabbro; il suo compito era quello di “acciaccare” il carbone, cioè rompere i pezzi grandi in pezzi più piccoli in modo da poterli usare nella forgia, della quale poi doveva tirare il mantice per mantenere vivo il fuoco: come avviamento non c’era male. Babbo, l’ho detto più volte, è un uomo di un’inventiva speciale e di capacità straordinarie, nonché di straordinaria umanità; nel nostro paese gran parte delle ringhiere, recinzioni e cancelli sono state fatte da lui, e sa fare ogni tipo di lavoro, dal calarsi nei pozzi al saldare grondaie; una cosa è sicura: se dovessimo trovarci in una foresta lontano dalla civiltà, lui riuscirebbe a salvarsi, io col mio computerino ci farei ben poco.
Mia madre, di sette anni più giovane, rientrò nella riforma Bottai del ’40, e quindi potè frequentare la scuola media unificata; la guerra era appena finita, il mondo da ricostruire; al giorno d’oggi sarebbe diventata forse una politica, o una sindacalista, data la passione che metteva nel difendere le cause comuni e la curiosità che ha sempre avuto; forgiata forse dalle battaglie con la nuova mamma, che non si capacitava di come questa ragazzina continuasse a passare i momenti liberi leggendo libri e giornali (“Che ce fai co’ tutta ‘ssa cartaccia?”); a ottant’anni tiene tutti i nipoti, e specialmente quelli sparsi per l’Italia, simpaticamente sotto controllo grazie a Facebook, che a qualcosa in qualche caso serve.
Io mi sono diplomato perito capotecnico in Informatica. Ho appreso con commozione che ancora adesso i diplomati degli istituti tecnici si chiamano periti capotecnici, me l’ha rivelato un ragazzo a cui ho fatto un colloquio di assunzione poco tempo fa: l’avrei preso solo per quello ma il dirigente che doveva decidere ha preferito un laureato, scelta assurda per fare il programmatore secondo me, ed infatti se n’è pentito poco dopo, peggio per lui. Adesso mi dicono che la percentuale sia cambiata, ma all’epoca in tutto l’istituto ci saranno state una decina di ragazze, e venivano guardate come aliene (e di aliene avevano anche le fattezze, a essere sinceri); era il secondo anno in cui era stata istituita la specializzazione di informatica, e diciamo che la cosa nella vita lavorativa successiva mi favorì non poco.
A che pro, si chiederà chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, questo amarcord familiare? Per pura vanità, vantarmi di un fatto di cui solo in minima parte ho meriti, e peraltro solo di metà di quella minima parte, considerando l’apporto della consorte e della di lei famiglia: per dire che, a coronamento di una escalation secolare, mio figlio si è appena laureato e con una votazione di centodieci e lode.
“Vi ho messo le ali, ora volate!” diceva Omero, il santone musicista di cui vi ho raccontato, alle figlie dopo essersi ritirato nella sua grotta a Fiumicino, e averle lasciate abbastanza inguaiate anche se con le ali.
Perciò, figlio mio, adesso sta a te. A noi ci hai già fatto volare: spicca il volo, dai.
(91. continua)