Siamo al molo

Non molto lontano da casa mia c’è un capannone che è sede di una struttura gestita da una cooperativa sociale legata alla Caritas dove si può portare quasi ogni tipo di roba usata, abiti, scarpe, mobili, biancheria da cucina, piatti, elettrodomestici, libri insomma ogni sorta di cosa che sia in buono stato e possa essere utile a qualcuno.

Quelle ritenute idonee vengono messe in vendita a buon prezzo, la richiesta è parecchia, i bisogni sono tanti. A differenza di tanti mercatini dell’usato proliferati di recente chi porta le sue cose non ne ottiene un ricavo, ma lo fa per solidarietà se non altro con quei ragazzi che nella cooperativa lavorano e da questa vengono pagati, pur se poco.

Quando dirigevo il gruppetto teatrale di cui vi ho parlato ogni tanto ci facevo un salto per vedere se ci fosse qualcosa adatto al pezzo che avevamo in mente di mettere in scena: abiti, accessori per lo più, una volta ho preso una grande poltrona in vimini che volevo adattare a trono reale, ma che è poi finita nella stanza da lavoro di mia suocera.

Ogni tanto, quando per casa comincia a girare qualcosa che viene troppo spesso scansata senza essere usata, vado anch’io a rifornire il mercatino; l’ultima volta, per dire, ho portato una bella coperta matrimoniale di lana che ha fatto felice l’addetta che ha detto “questa va via subito”, e una poltroncina da studio che ho dovuto cambiare perché mi faceva male alla schiena, ma temo che fosse più colpa della mia schiena che della poltrona.

Dopo aver consegnato mi fermo sempre a fare un giretto, specialmente dalle parti dei libri e dischi: cinque euro tre pezzi, come si fa a non approfittare? Anche se in casa non ho quasi più spazio e temo sempre che la libreria un giorno o l’altro cadrà in testa al condomino del piano di sotto… e ripenso con tenerezza a nonna Annunziata, che diceva a mia madre bulimica di lettura: “ma che ce fai co’ tutta ‘ssa cartaccia” e con commozione a mia madre che ora invece non legge quasi più, abbattuta dalla rottura del femore che ne ha limitato molto i movimenti e dalla cura di mio padre, che piano piano sta tornando bambino.

Proprio a loro pensavo quando, portando a casa appunto i tre libri presi al mercatino, aprendo “Assassinio al Comitato Centrale” di Manuel Vázquez Montalbán è caduto un biglietto.

“SIAMO AL MOLO” c’era scritto in stampatello da una mano tremante, ed ho immaginato un nonno addormentato sotto l’ombrellone leggendo il suo giallo e sua moglie che, per non svegliarlo, gli lascia un bigliettino scritto di fretta proprio tra le ultime pagine che era arrivato a leggere.

Magari, chissà, passati gli anni quei nipoti si sono trovati a dividersi i libri dei nonni, magari anche loro senza spazio per metterli, e ne hanno potuto tenere uno, uno solo a testa e tutti gli altri portarli al mercatino, che ai nonni sarebbe piaciuto così.

Sono sicuro che se avessero sfogliato quel libro e visto il bigliettino avrebbero tenuto quello; e avrebbero ripensato a quei momenti felici, alla vita che scorre, e avrebbero sorriso al messaggio ritrovato: noi Siamo al molo, ragazzi, buona vita a voi.

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Aliens. Ho perso i punti di riferimento (e anche le virgole)

Ma che ne so boh non ci capisco più niente anzi non ci ho mai capito niente vivo in mezzo a gente con la quale non ho niente in comune non abbiamo punti di contatto i nostri valori sono differenti le nostre visioni della vita e della società divergono anche quello che dovrebbe unirci quella forma di fratellanza e di appartenenza che potrebbe essere data dalla religione seppur la mia così tiepida ci divide e ci contrappone non so di che parlare con questa gente la cultura non aiuta il ragionamento non serve il richiamo ad una comune umanità non attacca vedo solo la gretta difesa di privilegi e interessi vivo in mezzo ad alieni ma con la sensazione di essere io l’alieno perché leggere libri perché informarsi è inutile tutto è inutile tutto è luogo comune e pregiudizio la dittatura del buonsenso che è conformismo bigotteria grettezza egoismo e hai voglia a dire che se crescono le ingiustizie e disuguaglianze bisogna andare a colpire le cause invece di prendersela con quelle che ne sono le vittime se si è perso l’orizzonte ideale e quando persino l’idea di ingiustizia è traviata quando si reputa giusto che i lavoratori si accontentino di un tozzo di pane senza diritti e continuamente ricattati ma sia ingiusto per i ricchi pagare le tasse e ancora di fronte all’evidenza dei danni che apportiamo alle relazioni alla convivenza civile alla natura si negano tutti i rapporti di causa-effetto di che ci meravigliamo signora mia è sempre stato così ma cosa ci siamo messi in testa la verità è che calpestiamo lo stesso suolo ma siamo di specie diverse io probabilmente un dinosauro voi sarete forse i nuovi sapiens che domineranno il mondo ma spero vivamente che un asteroide vi colpisca e vi stermini tutti alieni maledetti.

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E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’

Nell’estate del 1980, quando Gianni Togni spopolava con la canzone “Luna”, io stavo felicemente servendo la patria cercando di essere il più possibile credibile, per non farmi sopraffare da militari coetanei e spesso più vecchi per niente disposti a farsi comandare da uno come me, e soprattutto a cercare di non fare troppo la figura del fesso con i marescialli del reparto, i veri dominatori della caserma.

Per sembrare più autorevole mi ero fatto crescere una bella barbetta, che mi donava qualche annetto in più e secondo me non stava male, correggendo anche una piccola sfuggevolezza del mento.¹
Dopo i sei mesi di addestramento a Sabaudia, ero stato mandato in servizio, che durava nove mesi, in una sede alquanto disagiata: Rimini.
Credo immaginiate tutti come le estati a Rimini possano essere un inferno; specialmente poi se alle 17, se non si era in servizio, si poteva andare in spiaggia; ed ancora di più la sera, fino al contrappello di mezzanotte, che per chi non è pratico è la conta dei presenti. Chi non si presentava in tempo veniva messo in punizione, che consisteva di solito  nella consegna ovvero  nell’obbligo di non uscire dalla caserma, o nei casi più gravi dalla camerata.²
Come ufficiali, dirlo adesso mi fa un po’ ridere, rispetto alla truppa eravamo privilegiati; innanzitutto il nostro stipendio non era di quelle striminzite 1000 lire al giorno che spettavano ai soldati di leva, ma era decente tanto che mi permise di mettere da parte qualche soldino (che poi spesi tutto nei primi mesi di lavoro a Parma per pagarmi vitto e alloggio) e godevamo di altri privilegi, come il circolo e la mensa Ufficiali; quest’ultima era situata nella caserma dell’Aeronautica, che era abbastanza lontana dalla nostra; gli aviatori ci squadravano un po’ con la puzza al naso, specialmente quelli di complemento come me che erano solo di passaggio, ed eravamo considerati un po’ dei parvenu.
Nella mensa ufficiali imparai a sbucciare la frutta con il coltello senza prenderla in mano; abilità utilissima in società ma che, non praticando da decenni, ho perso. Adesso se devo sbucciare un’ arancia prima la mordo e poi la sbuccio con le mani, tipo Manfredi in Pane e Cioccolata.

Tanti amici mi hanno chiesto nel tempo perché avessi fatto domanda per fare l’ufficiale. Non ero di certo un militarista, e anzi non avevo nemmeno grandi attitudini militari, in realtà credo di essere risultato agli ultimi posti del mio corso. Non lo sapevo nemmeno io: per la paga, senz’altro; ma soprattutto perché ingenuamente pensavo che se proprio dovessi essere comandato da un coglione, tanto valeva che quel coglione fossi io; non avevo considerato che nella catena di comando di coglioni se ne possono trovare ad ogni gradino ed a iosa; questo vale ovviamente anche nella vita civile, ma se capita da militare non c’è sindacato a cui appellarsi.³

Il 2 agosto 1980 era una giornata normale, una domenica. Il nostro unico pensiero era quello di arrivare a sera, toglierci la divisa ed andare in spiaggia, quando arrivò la notizia: alla stazione di Bologna era scoppiata una bomba.

Ricordo il senso di sbigottimento, lo sbalordimento davanti alla barbarie che era stata commessa, le notizie arrivavano a sprazzi ed i morti e feriti aumentavano sempre più: colpiti ragazzi, famiglie, turisti, gente normale che andava in vacanza o tornava a casa; ricordo la preoccupazione per i commilitoni, che non ne fosse stato colpito qualcuno che andava in licenza; l’angoscia delle persone care, ricordo che mi chiamarono da casa per sapere se stessi bene, io che non avevo nessuna ragione di trovarmi là, figurarsi la trepidazione di qualcuno che aveva una persona cara in viaggio.
Avevo appena vent’anni, come i miei compagni di Bologna che furono chiamati a prestare i soccorsi, soldatini di leva sbalzati in mezzo all’orrore ed alla distruzione; si rimboccarono le maniche piangendo, fecero quello che c’era da fare, avremmo potuto essere tutti lì ed avremmo fatto tutti le stesse cose. Li ringrazio e li abbraccio, dopo tanti anni.

Non mi addentro nella storia, che come tutte le stragi di quella troppo lunga stagione italiana è costellata di depistaggi, connivenze, omertà; di pezzi dello stato che operavano contro lo stato; a distanza di quasi trent’anni si è riusciti ad avere una sentenza giudiziaria definitiva per gli esecutori, ma è notizia di pochi giorni fa che la procura inquirente ha deciso di archiviare l’indagine sui mandanti.

Io non lo trovo giusto. In questi casi non si può ballare tarantelle di “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. Uno Stato degno di questo nome deve avere la forza di andare fino in fondo e scovare le verità “vere”, non quelle di comodo per chiudere la vicenda purchessia.
Lo deve in primo luogo alle vittime ed alle loro famiglie, a tutti quelli che ne furono colpiti direttamente e indirettamente, a tutti quelli che si prodigarono negli aiuti e si videro cambiare la vita, a quelli che si trovarono a scavare tra le macerie sentendo che solo per caso non era toccato a loro. Lo si deve a tutti quelli che hanno servito questo paese, anche se per un brevissimo tempo, e vogliono continuare ad essere orgogliosi di essere Italiani.

(154 – continua)

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Note.
¹ Purtoppo alla mia consorte non piace altrimenti me la farei ricrescere.
² O almeno credo che fossero quelli gli orari, ma la parte di neuroni relativa a quel periodo si è cancellata come una scheda SD difettosa.
³ A mio avviso qualcuno di noi avrebbe potuto essere utilizzato nell’amministrazione dello Stato, non necessariamente militare, anche alla fine del servizio. Tipo una scuola per funzionari statali, tipo quella francese. Mi sembra uno spreco non sfruttare le risorse quando ci sono.
³ La foto allegata potrebbe essere del mio collega Riccardo Malagigi. Lui c’era, e non credo che lo dimenticherà più.

Che palle!

Il mio albero è molto ordinato. Lo sto guardando adesso, mentre scrivo, dal divano, ed è veramente ordinato. Mette paura da quanto è ordinato. Io sono stato interdetto dall’avvicinarmi all’allestimento, perché i miei accostamenti cromatici non sprizzano armonia e buon gusto. Metto palle a caso, per capirci, e possibilmente tutte quelle che trovo nello scatolone. Non vedo la necessità di effettuare un turn-over delle palline natalizie, si sono già riposate tutto l’anno, ma è il mister che decide la formazione.
Comunque non m’importa, tanto in fondo al mio cuoricino l’albero è rimasto un accessorio, un’usanza nordica, che da piccoli facevamo giusto per non farci mancare niente; le palline erano di vetro, delicatissime, e quelle nuove si compravano solo quando si rompevano quelle vecchie.

Abbiamo un nuovo governo. E’ uguale a quello di prima. Deve cambiare la nuova legge elettorale fatta da loro stessi appena pochi mesi fa e con la quale non abbiamo mai votato. Sarebbe meglio che i governi non si impicciassero di leggi elettorali e costituzionali, secondo me, ma pare essere lo sport preferito. Una dimenticabile ministra dell’istruzione di qualche anno fa sostiene che il popolo non mangia leggi elettorali. Ai tempi, un suo compagno di governo sosteneva che nemmeno con la cultura si mangia. Sarà mica che si sono già mangiato tutto?

Il presepio mette allegria. Uno dei momenti più belli, da bambini, era quando si usciva e si andava per campi, muniti di sporta di plastica non biodegradabile e coltellino, a raccogliere il muschio (il “vellutino”) per fare il prato. I personaggi erano tutti in gesso, mica in resina o in plastica: ognuno portava i segni delle mille battaglie combattute. Lo zampognaro aveva perso più di una volta la testa per la lavandaia; al soldato romano qualche barbaro aveva tagliato un braccio e lo aveva riattaccato approssimativamente.

Fino a qualche anno fa per il presepio usavo un bel tavolo, un metro per un metro, e ci mettevo sopra tutti i personaggi che avevo: grandi, piccoli, il deserto, il laghetto, le casette di montagna, animali, tanti animali.
E’ un segno dei tempi che un argomento che dovrebbe ispirare tenerezza come il presepio sia diventato motivo di lite. Quando mio figlio andava alle elementari ci fu una polemica perché una maestra, piena di zelo multiculturale, aveva sostituito in una canzoncina di Natale la parola “Gesù” con “virtù”, per non offendere la sensibilità dei musulmani, diceva lei (poi ha ritrattato). Secondo me, al netto della laicità della scuola ed altre correttezze politiche, è una sciocchezza non far sapere perché festeggiamo il Natale, se no sembra che lo facciamo solo per far felici i negozianti e Amazon.

Quando ero piccolo io i musulmani non esistevano. Perlomeno non in Italia.
Sapevamo che vivevano da qualche parte tra Turchia, Marocco (che tutto il nordafrica era Marocco) e Arabia Saudita, ma ignoravamo che ce ne fossero di diversi tipi, molto litigiosi tra di loro peraltro. Sunniti e Sciiti? Già avevamo difficoltà a capire le differenze tra Cattolici e Protestanti, figurarsi. I Buddisti se ne stavano in Tibet; i Confuciani in Cina. Che poi anche il Tibet è in Cina, anche se loro non vorrebbero. Gli Indu stavano in India e adoravano le loro vacche sacre e magre. Poi c’erano quelli che pensavano che le religioni fossero l’oppio dei popoli e forse avevano ragione, ma purtroppo si sono estinti e sono diventati liberali(sti).

Mezzo secolo fa, a scuola i personaggi li facevamo con il Pongo; prima si costruiva l’impalcatura, l’anima, con il fil di ferro, che poi si rivestiva con gli strati necessari di materiale colorato. Vi ho già raccontato di quell’anno che i pupazzi furono vandalizzati da due antesignani dell’Isis, e della dura punizione che li colpì. Ora molto probabilmente i genitori avrebbero denunciato i maestri o meglio ancora avrebbero picchiato il maestro, non il proprio figlio, come successo non più di un mese fa a Palermo ad un professore che aveva osato rimproverare il loro pargoletto.

A leggere certi illustri commentatori de “La Repubblica” sembra che tutti i sostenitori del Si siano dei fini costituzionalisti, e quelli del No degli emeriti coglioni. Respingo questa accusa: non sono emerito!

Anno dopo anno il mio presepio si è ridimensionato. Il tavolo è stato venduto, lo spazio man mano si restringeva così come il tempo che mi veniva concesso per il progetto. Quest’anno si è dovuto rifugiare in una mensola della libreria di mio figlio, 30 x 50: minimalista, con sette personaggi sette e zero animali. Con un piccolo colpo di stato sono stato esautorato anche da questa realizzazione, che ha preso vita con due ore di lavoro al posto dei giorni che ci dedicavo io e soprattutto senza lasciare segatura o sassolini in giro. Le decine di pupazzetti che avrei usato affastellandoli uno sull’altro sono rimaste a dormire nello scatolone, in attesa di tempi migliori.

A proposito di colpi di stato, l’amico Erdogan continua a imperversare, anche ieri ha arrestato qualche centinaio di oppositori politici (curdi). Sta pensando anche lui di cambiare la Costituzione, è una mania.

Qualcuno ha inventato un buon sistema per evitare la confusione: una parente stretta ha fatto il presepio tipo plastico della ferrovia: è tutto incollato su una base, e basta poi mettere i personaggi. Molto pratico! E di bell’effetto. Per l’anno prossimo io sto pensando di usare uno schermo fisso con una foto del presepio Caracciolo di Napoli: altro che pecorelle!

Mi è piaciuta la mossa di Trump di nominare ambasciatore per la Cina un amico del presidente Xi Jinping ed a segretario del dipartimento di stato un amico di Putin. Da quelle parti guerre non dovrebbero essercene, perlomeno. Non avrebbe amici anche per l’Iran e Cuba, Mr. Trump?

Insomma, quest’anno lo spirito natalizio non pervade il mio animo. Rivoglio i tempi in cui le palle bianche potevano coesistere senza problemi con quelle rosse e blu; in cui i fiumi erano fatti di carta stagnola, quella dei pacchetti di sigarette e delle tavolette di cioccolata; quando Natale veniva una sola volta all’anno e i panettoni non si vendevano a settembre; in cui chiedevo a Gesù Bambino una pistola da cow-boy e non capivo perché arrivasse sempre, immancabilmente, un libro.

(115. continua stancamente)

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Scusate l’interruzione (sono stato preso da un’onda arancione)

Capita, ed a volte spesso, di non riuscire a mantenere gli impegni presi. Contro la proprio volontà, perlopiù; o per cosciente indolenza. Avrei dovuto illuminare i fratelli minori sul come riconoscere quei segnali che possono fare di loro, se non vigilanti, delle vittime dei loro fratelloni; senonché, e spero che nel frattempo qualcuno non sia caduto in qualche fraterno tranello, ho avuto altro da fare. Volendo incidere un’altra tacca tra le tante cose che so fare male, e non essendo momentaneamente disponibile uno stage di ballo tip tap, ho colto questa opportunità che già due anni fa mi aveva fatto lippi-lappi. Insomma, mi sono iscritto ad un workshop di canto Gospel e sono stato un po’ impegnato. Non so a voi, a me quando si parla di canto Gospel vengono immediatamente alla mente quelle chiese americane, ripiene di gente colorata con delle voci da far paura che vestita di tuniche variopinte si  dimena, nonostante la mole,  con leggerezza prodigiosa.

Innanzitutto spero che tutti sappiano cos’è un workshop. In italiano sarebbe un laboratorio, cosa che richiama immediatamente alla mente martelli e lime a me forse più adatti che non gorgheggi  e trilli; ma workshop fa tutto un altro effetto.

Ci siamo dunque ritrovati in poco meno di duecento in un teatro per due giorni e mezzo straordinari. Non pensiate che avessi chissà quali obiettivi. Che sia un cantante diciamo medio(cre) lo sapete; che il mio inglese traballi, pure; e che nel mio animo rimanga sempre una qual certa riserva verso la religione (quell’oppio dei popoli caro all’amico _ compagno si può ancora dire? _Vladimir Ilyich Ulyanov in arte Lenin) credo l’abbiate intuito, specialmente quando vira verso il fanatismo.  Certo detto da uno che canta in un coro parrocchiale può sorprendere ma l’uomo è fatto di contraddizioni e poi insomma, non si sa cosa si troverà di là, come disse l’imperatore Costantino facendosi battezzare in punto di morte, ma se qualcosa c’è io mi porto avanti.

Quindi un workshop di Gospel non poteva che farmi bene.

Innanzitutto ho avuto la conferma statistica che il rapporto uomo-donna in cori che non siano alpini è di uno a cinque. Sembra che gli uomini ritengano disdicevole dedicarsi al canto; se qualcuno fosse preoccupato per la propria virilità lo rassicuro, non è più di moda castrare per poter fare le vocine da soprano; e comunque l’operazione andava fatta in tenera età. Meglio così, piatto ricco mi ci ficco potrebbe dire qualcuno non attratto esclusivamente dalle performance vocali.

Quindi dicevo eravamo lì, un bel gruppone di impiegati, operai, casalinghe, studenti e qualche pensionato, quando sono arrivati questi due mostri sacri. Anzi gli altri due, perché il primo era il maestro del coro Gospel Always Positive Carlo Rinaldi (sempre sia lodato) che è l’anima di questo evento. Ho già detto che un atteggiamento fiducioso e ottimistico predispone ad ottenere buoni risultati, ed è uno stile di vita al quale di norma cerco di attenermi. Ecco, c’è da dire che questo atteggiamento interiore al maestro Rinaldi non manca di certo: quando ci ha comunicato che il giorno dopo avremmo cantato all’Expo di Milano, sul sagrato del Padiglione della Veneranda Fabbrica del Duomo proprio sotto alla riproduzione della Madunina, perfino a me questo ottimismo è sembrato un pelino eccessivo.

A dire la verità, una decina di giorni prima avevamo ricevuto un elenco dei pezzi che avremmo fatto, ed i relativi link youtube: peccato non aver fatto una foto della mia faccia la prima volta che li ho sentiti. Nei giorni seguenti ho stimolato i sorrisetti di compatimento di mia moglie, che scuotendo la testa si chiedeva tra se e se, ma a voce non troppo bassa, dove volessi andare con la mia vocetta a cantare Gospel; grazie a questi suoi amorevoli incoraggiamenti  avevo quasi imparato tutti i pezzi, se non altro abbastanza da non sbagliare labiale in caso di playback.

Esistono in giro molti grandi artisti che non amereste avere come coinquilini. I nostri due, Chris Mazen e Chantéa Kirkwood, avremmo voluto adottarli a turno: in questo modo però gli avremmo impedito di donar gioia anche agli altri e così, anche se a malincuore, alla fine li abbiamo dovuti lasciar andare.

Abbiamo iniziato a cantare alle 19:30 di venerdì, e con brevi interruzioni siamo andati avanti fino alle 23 di domenica: il mio stato d’animo è passato dal: a) o cacchio, quando ci hanno detto che metà dei canti imparati non li avremmo fatti, ma in compenso ne avremmo fatti  altrettanti sconosciuti ; b) mannaggia ai Genesis (ricorderete le mie lezioni di inglese!), quando dopo due ore capivo appena tre o quattro parole di un discorso, e scopiazzavo senza vergogna gli appunti del vicino; c) cavolo mi sono messo a fare con i tenori che non ci arrivo… va bè, meglio qua che i bassi sono troppo bassi; d) no per favore i testi lasciateceli leggere, io non mi ricordo dal naso alla bocca;  e) pensa te, vogliamo fare gospel e manco le mani a tempo battiamo! f) verso le 23 di venerdì, ormai in crisi mistica: si… può… fare!

E si è fatta. Dovessi dire come ci siamo riusciti non saprei; abbiamo cantato anche un canto in lingua Zulu, con una coreografia improbabile. Duecento persone che cantano, bisogna riconoscerlo, fanno un certo effetto anche se non sono dei Bocelli; e cantare con alle spalle la Madunina ci ha dato una spinta particolare.

Apro una piccola parentesi sull’Expo. Io sono fortunato, abito vicino e ci sono già stato un paio di volte. A me piace. Come quelle cose belle che non sai bene a cosa servono: ma belle. Fatte bene, organizzate, vive. Non sembra nemmeno di stare in Italia, nemmeno le code sono italiane. Nutrire il pianeta è un po’ un optional, a quel che ho visto; ma di bellezza del mondo se ne vede tanta. E non è nemmeno tanto caro per mangiare come dicono.

Insomma, abbiamo cantato un’ora e mezza; disturbati dagli occupanti il padiglione del Gambia che forse innervositi dal canto zulu hanno pensato che volessimo dichiarare guerra, ed hanno messo gli amplificatori a manetta.

Poi di corsa allo spettacolo dell’Albero della vita! Una fiumana di gente ed un’onda arancione che cercava di farsi largo! E si, perché avevamo delle belle magliette arancioni, una macchia di colore che spiccava in mezzo alla folla.

Pensavo quindi di aver toccato la vetta della mia carriera canora, quando invece domenica l’abbiamo dedicata a preparare i pezzi per la messa in Duomo; mica gli stessi, se no sarebbe stato troppo facile. Menzione speciale alla polenta e brasato preparata da dei valentissimi cuochi valtellinesi; gli avevano detto che c’era da cucinare per un coro, e da quelle parti i cori mangiano leggero.

Domenica sera in Duomo c’erano, così riportano i giornali, duemila persone, e senza gambiani intemperanti. Qualche titolo, solo per rendervi conto dell’emozione che potevamo avere, e che credo abbiamo trasmesso: Holy Spirit, Halleluja salvation and glory, Total Praise, Come let us worship the Lord, Holy Lord, You Can no stop no more… Certo, eravamo in duecento, se anche non ci fossi stato non se ne sarebbe accorto nessuno, e forse non se ne è accorto nessuno anche se ci sono stato. Ma c’ero! Ed è meglio che lo scriva, altrimenti fra un po’ finirà che non ci crederò nemmeno io…

(59. continua)

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