Olena regina d’Abissinia – 1

“Ho solo una vaga idea di dove approderemo.
Intanto partiamo, poi si vedrà.”
Cristobàl Pallançon, esploratore portoghese, 1512

«E tu, Paio, vuoi prendere come tuo legittimo sposo il qui presente Miguel per amarlo, onorarlo e rispettarlo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà finché morte non vi separi?»

Paio Pignola, raggiante nell’abito a sirena realizzato nell’atelier di Jean-Astolphe Girifalchi, in testa una coroncina di perle Akoya, si volta sorridente verso i paggetti che le hanno retto lo strascico durante la marcia nuziale ovvero il piccolo Chico, frutto di una notte d’amore tra Miguel e Conchita la donna barbuta, e due koala suoi amici conosciuti a Villa Rana dove la colonia di cui facevano parte era stata ospite per un lungo periodo quando dei devastanti incendi avevano distrutto il loro habitat in Australia. Torna poi a guardare il suo Miguel, che per l’occasione ha scelto un sobrio completo fucsia con scarpe Cucchiaroni in tinta e camicia senape, rimasto in trepida e preoccupata attesa.
«Sì! Yo lo quiero tambien!»
Un sospiro di felicitazione ma soprattutto di sollievo si leva dagli oltre trecento invitati, seduti su poltroncine in velluto verde poste in file parallele nel cortile dell’hacienda Pedro Pineda di proprietà di don Ignacio, padre di Miguel, invitati che accaldati dal sole marzolino accolgono con soddisfazione la formula finale che spianerà la strada al ricco banchetto:
«Con i poteri conferitomi dallo stato di Zacatecas vi dichiaro marito e mogl… marito e marit… insomma fate voi. Per me siete sposati.»
L’ufficiale di stato civile Aloysio Tamburron, per gli amici Lisetta, delegato dal sindaco di Laguna Seca, conclude così la breve ma toccante cerimonia con la quale i fidanzati di lungo corso coronano il sogno d’amore.
«Evviva gli sposi!» urlano gli invitati entusiasti , gli uomini sventolando i larghi sombreri e le donne gli scialli variopinti; Paio effettua il lancio del bouquet, momento atteso dalle damigelle Pamela e Lulù, nella vita affiatata coppia di lottatrici nel fango, ma eccede in entusiasmo e il mazzo atterra in decima fila in grembo all’anziana zia Candelaria, zitella e perpetua del parroco don Apolinario, che lo accoglie come presagio di buon augurio e si rifiuta di cederlo alle speranzose donzelle.
Don Ignacio, con la pancia trattenuta a stento nell’abito tradizionale, si liscia i mustacchi mentre discute con sua moglie, la rotondetta e baffuta Dona Antonieta:
«Non capisco perché non si sono sposati in chiesa. Chissà che ci avrà trovato quella stangona in quel fregnone di nostro figlio? Comunque spero che arrivi presto qualche nipotino, lei sembra portata, che ne dici moglie?»
Dona Antonieta alza gli occhi al cielo, scoraggiata.
«Ignacio, a guardarti mi verrebbe da dire che se abbiamo fatto un figlio noi può darsi che ci riescano anche loro. Andiamo dagli invitati adesso, prima che quelle cavallette spazzolino tutto il buffet. E non bere come al solito, che diventi ridicolo»
«Porca miseria Antonieta, non cominciare subito a rompere los cojones. Si sposa il nostro unico figlio, quando ci ricapita? Orchestra, attacca con la musica!» ordina don Ignacio al famoso complesso Los Vincisgraçias assoldato per l’occasione.

Le tavolate si animano man mano che le portate si susseguono e vino e pulque¹ scorrono copiosi ; gli ospiti d’onore sono fatti oggetto di mille premure: Gilda, che a coprire la calvizie sfoggia il nuovo turbante in seta Mantero con farfalle stampate, tra assaggi di nachos e sopitos , enchiladas e tamales volteggia in pista dividendosi tra lo zio dello sposo Ramon e il cugino Fulgencio, che la coinvolgono in scatenati huapando, bamba e jarana; Svengard, che dopo un triplete di tequila si è liberato di giacca e camicia, è impegnato in una gara di tiro alla fune contro una decina di ragazzotti del posto, suscitando sguardi di ammirazione unisex; nonna Pina pilucca delle chapulines, cavallette fritte, intingendole nella salsa guacamole e sorseggiando un margarita, godendosi l’esibizione delle due damigelle per le quali è stata allestita una piscinetta piena di melma e che, istigate dalla sposa, hanno avuto la discutibile idea di sfidare Olena la quale, dopo averle immobilizzate, invita il pubblico a schiaffeggiare loro le terga con dei rami di salice piangente; e last but not least James, impeccabile nel suo abito Diego de la Vega, fuma il sigaro offertogli dall’ufficiale di stato civile Tamburron, un Robusto Revolution Ovalado di cui non gli sfugge il nome della marca, Te Amo.

La pace e la serenità della festa vengono disturbate da un uomo a cavallo che varca l’arco del portone dell’hacienda; arrivato nelle vicinanze di don Ignacio scende agilmente di sella ed estrae da un capiente borsone in pelle una busta che gli consegna prontamente. Il padrone di casa ignora la mano protesa in attesa di mance e si dirige, accigliato, verso la destinataria della missiva.
«Mi dispiace disturbarvi ma il postino dice che è urgente, señora. Spero non sia niente di grave»
Gilda, ancora arrossata dopo l’ultimo norteño², guarda allarmata la busta e si rivolge al fido maggiordomo:
«James! James caro, puoi venire un attimo?»
James accorre solerte, lasciando momentaneamente sola Lisetta.
«Desidera, signora?»
«James, che tu sappia abbiamo in sospeso qualche affare con l’Agenzia delle Entrate? I contributi Inps sono a posto? Non vorrei ritrovarmi alle calcagna qualche esattore»
«Che io sappia, signora, non abbiamo pendenze significative. Ci sarebbe quella piccola vertenza con gli addetti all’imbustamento ai quali un quinto dello stipendio è stato pagato in tortelli della linea vegana in scadenza, ma niente di cui preoccuparsi eccessivamente»
«Be’, se è così togliamoci il dente. Chi è che ci scrive, James?»
Mentre don Ignacio, discreto, si allontana, James apre la busta, ne estrae un foglio e lo scorre brevemente.
«E’ lo studio del notaio Bernasconi di Lugano. La convoca in merito ad un testamento»
«Un testamento dici? Sarà morta zia Varna a Serrapetrona, finalmente? Aveva promesso di lasciarmi gli orecchini del suo matrimonio del ’54. Però mi sembra un po’ esagerato metterlo per iscritto con un notaio svizzero, gli sarà costato più del valore degli orecchini»
«Non credo si tratti di questo, signora. Il notaio accenna ad una eredità del Negus»
«Negus, Negus? Il nome non mi dice niente. Sarà mica un parente di Evaristo?» ipotizza la vedova Rana, alludendo al defunto marito. «Nonna Pina?» decide allora di dissipare il dubbio Gilda, agitando un braccio per richiamare l’attenzione della centenaria. «Nonna, conosce per caso un certo Negus? Pare che ci abbia lasciato un’eredità» chiede allora, interpretando come risposta affermativa lo sguardo stupito di nonna Pina, con la bocca rimasta aperta, e il rumore del bicchiere di margarita che le scivola dalle mani e cade in terra rompendosi in mille pezzi.

¹ ll pulque è una bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione della linfa dell’agave, tra 5 e 10% di gradazione alcolica. Assieme alla tequila è considerata la bevanda nazionale messicana.
² Un tipo di polca messicana

Una birra per Olena (III)

La Calva Tettuta, poggiato il telefonino sul vassoio argentato, si alza dal divano Frau personalizzato ed avanza fino alla finestra scorrevole dalla quale si accede alla grande terrazza prospiciente il giardino botanico Rana, dove vengono coltivate piante esotiche e rare come il Nanocellus Officiantes volgarmente detto prete nano e la Scamarcia Fracitia, dal colore bumbia acceso.
Gilda apre la finestra e va ad appoggiare, pensosa, il generoso petto che le è valso il meritato soprannome alla balaustra in pietra leccese; dopo qualche minuto di meditazione emette un sospiro e si rivolge interrogativa al maggiordomo James, che è rimasto in rispettosa attesa.
«James caro, pensi che Jürgen possa fronteggiare questa faccenda da solo? Francamente non mi pare attrezzato»
«Tenderei a dubitarne signora. L’ingegnere nei frangenti concitati non mantiene la freddezza necessaria» afferma il maggiordomo, ricordando il momento in cui aveva dovuto strofinargli i glutei con lo straccio intriso di acquaragia.
«Già, lo penso anch’io. Dovremo attivarci, giusto? Prendere il toro per la coda o giù di lì. Si ma, James?» chiede la vedova Rana, con la fronte corrugata dalla preoccupazione.
«Signora?»
«James, non vorrei essere pessimista ma mi sembra che siamo a corto di truppa. Dove sono finiti tutti quanti?» indicando il giardino desolatamente vuoto.

A Blaenavon, in Galles, nella grande miniera di carbone in disuso che ospita il Big Pit Mining Museum (Museo minerario del pozzo grande) si sta svolgendo un concerto fuori programma. Un gruppetto di attempate casalinghe, accese d’entusiasmo, applaudono e fischiano il proprio idolo, il famoso cantante Tom Jones, incitandolo a concedere il bis del suo cavallo di battaglia “Sex bomb”. L’artista appare decisamente provato e vorrebbe declinare l’invito, ma l’orgoglio del vecchio leone e soprattutto  un pungolo elettrico che una delle sue fan brandisce minacciosamente lo convincono ad attaccare il refrain. Non sono certo le esigenze di scena a richiedere che Tom sia legato alle caviglie da una lunga catena, e che sia vestito soltanto di un perizoma, per di più leopardato: l’anziano sex symbol è stato rapito dalla banda di babbione ostili alla sua amicizia con Priscilla Presley, l’ex moglie di Elvis.
«Vi prego, care signore, sono stanco…» chiede Tom, con la sua voce calda e roca che attizza ancor di più le indiavolate groupies.
«Nudo! Nudo!» urlano queste scatenate, strappandosi i capelli e lanciando verso l’improvvisato palchetto mutandoni e reggiseni, cosa quest’ultima che causa un crollo delle attrezzature da questi sorrette.
«Cazzo! Ma sono già nudo!» protesta il cantante. «E mi scappa pure da pisciare, con tutta la birra che mi avete fatto bere, fatemi uscire di qua!» e così dicendo cerca di liberarsi dalle catene, beccandosi immediatamente una scarica elettrica nel fondoschiena che lo riporta a più miti consigli.
«E va bene!» cede Tom «ma ancora una volta e poi basta, eh!» poi, sebbene, riluttante, inizia a cantare:
Aw, aw baby, yeah, ooh yeak, huh, listen to this
Spy on me baby use satellite
Infrared to see me move through the night
Aim gonna fire shoot me right
Aim gonna like the way you fight
And I love the way you fight

Improvvisamente la base si spegne, ed un mormorio di delusione serpeggia tra le ammiratrici. Dal buio del vecchio tunnel si sente cantare:
«Sex buomb, sex buomb, gliù ar a sex buomb…»
Con la bocca leggermente aperta dalla sorpresa tutte si girano lentamente verso l’origine del suono, da dove avanza una figura vestita con una tuta militare completamente nera, con la faccia striata di nero e con un berretto, anch’esso nero, in testa. Anche gli stivali che le arrivano sopra al ginocchio sono neri. Con un mitra Spectre M4 a tracolla, Olena avanza verso il palco, canticchiando.
«Molto pratico questo attrezzo» dice alla donna che impugna il pungolo elettrico. «Tu provato prima su tuo marito, sì? Brava» la elogia muovendo la testa in segno di approvazione.
«Ora da brave liberate uomo, prego. Bello giuoco dura puoco» consiglia Olena, togliendo la sicura al mitra.

Poi rivolgendosi al prigioniero, rimasto a bocca aperta:
«Signor Jones, mi manda Priscilla. Belle mutandine, ma ora voi potete rivestire, prego.»

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Una birra per Olena (II)

L’ingegner Jürgen Matthäus, un sessantenne non molto alto, rossiccio, rubicondo e sovrappeso, direttore responsabile degli impianti Rana in Germania, siede sprofondato nella poltrona del suo ufficio alla Rana Tower di Monaco di Baviera, a due passi dal Deutsches Museum, ed a stento riesce ad articolare qualche parola.
«Jürgen, carissimo, che piacere sentirti» lo saluta la Calva Tettuta, nel tentativo di metterlo a suo agio. «Tutto bene con i nipotini? Salutami la cara Hilga, quando la vedi. Volevi parlarmi, caro?»
«Ja, frau Rana,» attacca l’ingegnere, con un marcato accento tedesco che l’agitazione accentua:
«E’ terripile, terripile! Non posso kretere ke questo successo in Cermania. Inconcepipile!»
«Ma di cosa stai parlando, caro? Non avrete anche voi un governo gialloverde per caso?» chiede Gilda, che ha a cuore la stabilità politica dell’Unione Europea.
«Nein, nein, peccio, molto peccio!» e un brivido serpeggia per la schiena di Gilda, ma prima che questa possa fare supposizioni su derive nazionaliste l’ingegnere continua:
«Hafete presente nuofo makkinario ke afremmo tofuto installare in Stalag Rana-1?»
«Ecco, adesso su due piedi non proprio, Jürgen, tra l’altro non ti avevo detto di cambiare nome a questi stabilimenti? Il nostro marketing trova che non diano un’immagine rassicurante¹. E i sindacati ci stanno col fiato sul collo, lo sai» lo rimprovera Gilda, preoccupata per le relazioni sindacali. «Comunque, che è successo a questi macchinari?»
«Ieri pomericcio appiamo portato nuofe makkine nei kapannoni. Makkine ti nuofa cenerazione, potentissime! Protucono il toppio tell’impasto Krakatofeln ti kuelle fecchie con la metà tegli attetti.»
«Krakatofeln? Ah, già, crauti e kartoffeln, da quelle parti ne andate ghiotti. Ma addirittura raddoppiare la produzione mi sembra esagerato, caro Jürgen. Chi ha ordinato queste macchine?»
«Ehm, siete stata foi signora, ciusto un mese fa, ho kuì la mail con l’ortine…»
«Io, dici? Mah, chissà dove avevo la testa. Aspetta un attimo, Jürgen» lo ferma la padrona, e coprendo la cornetta con la mano chiede a James:
«James, che tu sappia Flettàx ha imparato ad inviare le mail? Non vorrei che oltre ad imitare le voci si metta ad inserire ordini»
«Tenderei ad escluderlo, signora» risponde il maggiordomo «le zampe zigodattili non sono compatibili con le tastiere Qwerty»
«Gli uccelli non hanno segreti per te, grazie caro» lo loda Gilda, e riprende la conversazione interrotta:

«Ma senti Jürgen, e dell’altra metà di operai che ne facciamo? Quelli sono specializzati in Krakatofeln, come li riconvertiamo?»
«Nostro ufficio ricerka stutiato nuofo prototto che potrà afere successo krantissimo!»
«Davvero Jürgen? Stento a crederlo. Ricordo ancora la Kakkuzza, il ripieno cavolo cappuccio e zucca, una boiata che persino la buonanima di Toshiro Laganà si rifiutò di avallare» osserva Gilda, con una smorfia di disgusto.
«Kvesta itea rivoluzionaria, frau Rana! lo appiamo kiamato Wurstellino»
«Che nome grazioso, Jürgen! Di che si tratta stavolta?» chiede una dubbiosa Gilda.
«Appiamo pensato una krossa innovazione! Non useremo la karne come ripieno, ma useremo wurstel come involukro e lo riempiremo ti tortellini. Ceniale!»

La Calva Tettuta rimane qualche secondo in silenzio per elaborare la proposta del suo direttore dopodiché, non prima di essersi sistemata la bandana in seta di colori cangianti, emette il verdetto:
«Contrordine, Jürgen. Lascia stare il nome dello stabilimento. Fammi un piacere, però»
«Tica, signora»
«Impacchetta tutto il tuo reparto di creativi e mandalo alla catena di montaggio, gli operai in avanzo sforneranno senz’altro idee migliori e con un costo sensibilmente minore. Da parte mia cercherò di dimenticare questa telefonata e di ricordarti com’eri, caro Jürgen. Ma, a proposito di telefonata, non mi hai ancora detto perché mi hai chiamato. E’ per questa storia dei wurstellini?»

«Nein, frau Rana, nein… atesso kvesto non è problema… le makkine! Kvesta notte le makkine sono state fatte saltare in aria ed i kapannoni tati alle fiamme! Polizei parla ti attentato, siamo kiusi!»

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¹ Gli Stalag (abbreviativo di Stammlager) erano campi di concentramento tedeschi per prigionieri di guerra della Seconda Guerra Mondiale. Niente a che vedere con gli Stalag Rana, abbreviativo di Stabilimenti Laganà così chiamati in onore dell’ex  direttore R&S Toshiro Laganà, deceduto tragicamente (cfr. Niente sushi per Olena – 2018)
² Ara Macao insolente e scurrile scappato ad un senatore padano e rifugiato nel parco di Villa Rana (cfr. Ferragosto con Olena – 2019)

Una birra per Olena (I)

Nel giardino all’inglese di Villa Rana, ricco di alberi secolari, cespugli, grotte, fontane con giochi d’acqua e ruscelli dove si abbeverano i caprioli, sopra un rialzo artificiale in tufo di Fiumicino è costruito un tempietto in stile dorico dove Gilda, la padrona di casa, ama ritirarsi quando il suo spirito tende alla malinconia.
In questi casi ella si reca al tempietto con una tisana alle erbe di mellifrace ed un libro del suo autore preferito, il filosofo-naturista Augusto Propoli, scelto tra i tanti della sua biblioteca: “Corpo o anima? Come dire addio alla stitichezza con le erbe di mellifrace” , “Farci o esserci? Come ritrovare la regolarità intestinale con le erbe di mellifrace” e “Si può dare di più? Come aumentare il piacere sessuale con le erbe di mellifrace”, quest’ultimo il suo preferito e lì, accovacciata sulla poltrona Bergere in pelle bordeaux con le gambe ripiegate sotto di sé, gli occhiali modello Lolita poggiati vezzosamente sul bel nasino, si concentra corrucciando leggermente il labbro superiore nel tentativo di assorbire gli insegnamenti del Maestro.
Lo sforzo si prolunga in genere per tre-cinque minuti dopo di che, vuoi per l’effetto calmante della tisana, vuoi per la profondità dei contenuti del libro o vuoi per lo scorrere dell’acqua del ruscelletto, un torpore o cecagna che dir si voglia la colpisce, gli occhiali le scivolano dal nasino ed il libro le cade dalle mani finendo in terra con un rumore attutito dal grande tappeto persiano Tabriz.

E’ appunto in uno di questi frangenti che una figura a noi ben nota, vestita in un inappuntabile completo nero di Girifalchi, scarpe in vernice Graziano Cucchiaroni lucidate a specchio, con un’unica concessione alla frivolezza data dalla pochette con pesciolini rosa watermelon, si materializza sulla soglia del tempietto reggendo un vassoio in argento sul quale è poggiato un cellulare ultimo modello che ronza in modalità vibrazione.
James entra nella stanza, si porta la mano chiusa alla bocca e tossisce con discrezione, svegliando delicatamente Gilda dal sogno in cui, indossato solo un corto camice bianco da infermiera, sta applicando al filosofo Propoli un clistere a base delle erbe da lui magnificate, per testarne l’efficacia e constatarne i benefici.

«Chiedo venia, signora, c’è una chiamata per lei»
«Oh, James» risponde la vedova Rana stiracchiandosi «stavo facendo un sogno bellissimo, ero una paramedica e giocavo al dottore e l’infermiera con un filosofo»
«Sono dispiaciuto di doverla disturbare, signora, ma l’ingegner Matthäus ha insistito, sembrava oltremodo agitato»
«Jürgen agitato? Questo mi sorprende molto, James. Jürgen è la flemma in persona, l’unica volta che l’ho visto agitato è stato quando la cameriera Hilga dell’Hofbrauhaus l’ha accusato di non pagare gli alimenti per il sostentamento dei quattro figli che lui non ricordava assolutamente di avere»
«Rammento bene quella sera, signora, una scena imbarazzante se posso esprimere il mio parere.»
«Già, ce n’è voluto del bello e del buono per convincere Hilga che quello che stava insolentendo non era il padre dei propri figli. Il povero Jürgen dovette perfino calarsi i pantaloni per dimostrare di non avere la voglia a forma di castagna matta sulla chiappa sinistra. E l’orchestrina di ottoni continuava a suonare, che rebelòt!» conclude Gilda, scuotendo la testa.
«Una situazione davvero incresciosa, signora»
«Puoi dirlo forte, James. Tra l’altro ricordo che tu fosti chiamato a constatare con mano che il nostro Jürgen non avesse cancellato la voglia con qualche vernice, sfregandogli il didietro con un solvente»
«In effetti la signora Hilga pretese che io fossi molto scrupoloso con l’acquaragia, dovetti applicarmi con solerzia» ricorda il maggiordomo con un brivido di raccapriccio.
«Certo che fu un bel colpo per la ragazzona scoprire che quello che aveva creduto suo marito non fosse Jürgen ma il fratello gemello Helmut. Pianti e strepiti, ricordo male James?»
«Perfettamente, signora. L’ingegnere, nonostante l’accoglienza della cognata, si comportò da perfetto gentiluomo ed acconsentì a coprire i debiti del fratello gemello»
«Tutto è bene quel che finisce bene, James. E dunque, che vorrà mai quel ragazzaccio? Passami il telefonino, che sentiamo il motivo di tanta agitazione»

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Ferragosto con Olena (I)

Gilda Quacquarini, vedova Rana, si pulisce lentamente il viso dal fango del quale è imbrattata, lo butta a terra scuotendo le mani, e sbuffa dall’angolo della bocca guardando con odio la sua avversaria.
E’ in ginocchio nella grande vasca allestita nello stadio di Boryeong, a 200 km da Seul, Sud Corea, dove si stanno svolgendo i campionati del mondo di lotta nel fango femminile.
La sua avversaria, una tonica Barbara D’Urso, l’ha appena atterrata, e sogghigna guardandola dall’alto in basso, con le gambe larghe e le mani appoggiate ai fianchi, ricoperta anch’essa interamente di fango.
«Ti è bastato o ne vuoi ancora?» chiede perfidamente la simpatica conduttrice, e continua:
«Arrenditi vecchia smandruppona, Svengard è mio!»
Più che l’epiteto inelegante è l’udire pronunciare il nome dell’amato dalla bocca della rivale che le fa ribollire il sangue. Si rialza lentamente, in tutto lo splendore del suo metro e sessanta e si sistema il bikini, la cui parte superiore stenta a contenere le forme grazie alle quali è conosciuta come Calva Tettuta.
Strizza i begli occhi verdi, fissa la presentatrice e risponde alla provocazione ricorrendo al vernacolo che riaffiora nei momenti di tensione:
«A scì? E mo’ te lo faccio vedé io, brutta sgallettata, de chi è Svengard!»
Così dicendo avanza verso la D’Urso, la quale con una smorfia di disappunto piega le gambe e flette leggermente il busto in avanti, rimettendosi in posizione di combattimento. Gilda avanza, esegue una finta a destra ed una a sinistra; la D’Urso si sbilancia, ed in un attimo la furia tascabile le è dietro e la afferra per i capelli, tirandola verso il basso; la show-girl cerca a sua volta di attaccarsi ai capelli di Gilda, ma non trova la materia prima: si ritrova in mano solo la bandana con la quale la vedova Rana ricopre la calvizie causata dal pentolone di ripieno di agnolotti bollente rovesciatole in testa proprio dal suo Svengard anni prima.
«E adesso chi è che se arrende, eh?» e comincia a sbatacchiare la testa della D’Urso sul fondo della vasca, provocando un rumore sordo, attutito dalla melma:
“Tum… tum… tum…”

¡Wepa!
Un, dos, tres,
un pasito pa’lante Maria
un, dos, tres,
un pasito pa’tras

Sono le 6:20 del mattino in casa Rana. Gilda sta dormendo nel suo letto King Size a forma di cuore, nuda come mamma l’ha fatta, con gli occhi coperti da una mascherina da notte per non essere colpita dai raggi del sole che penetrano nella stanza dall’enorme portafinestra che da sul balcone.
Risvegliata all’improvviso dalla suoneria del suo Huawei nuovo fiammante, “Un dos tres Maria” di Ricky Martin, allunga un braccio per svegliare il suo amante, Svengard il vichingo.
La ricerca però non sortisce effetto, di Svengard non c’è traccia.
«Sven?» chiama Gilda, con la voce ancora impastata dal sonno. Alla fine, dato che il norreno non risponde, si decide a togliersi la mascherina.
Sorpresa di non trovare il suo amore al suo posto, si chiede per un attimo se non sia andato in cantina a controllare un rumore, o a vedere se la luce in cucina è accesa; ricordatosi poi che era il suo defunto marito Evaristo ad avere problemi di prostata e non certo il gagliardo vichingo, allunga finalmente il braccino verso il comodino dove è poggiato il cellulare.
«Chi sarà mai a quest’ora?» si chiede Gilda ancora accaldata dopo la lotta nel fango notturna.

Dal giardino si sentono dei colpi ritmati: “Tum… tum… tum…” . Gilda si affaccia sul balcone, dopo essersi ricoperta con una vestaglia leopardata, e si appoggia alla balaustra, ammirando il suo Svengard che, a torso nudo, sta spaccando la legna per l’inverno dopo aver abbattuto un pioppo cresciuto abusivamente nel bosco domestico.
Dalla cucina vede uscire Miguel, il messicano che è stato assunto come badante di nonna Pina e uomo tuttofare, che con in testa un vassoio di frutta ed ancheggiando come Carmen Miranda sta recandosi a dare da mangiare all’Ara Macao che si è installato nel giardino dopo essere scappato dalla villa di un senatore padano.
Il pappagallo, riconosciutolo, lo saluta cordialmente:
«Cra…! Cra…! E’ finita la pacchia! E’ finita la pacchia!»
Miguel si guarda intorno circospetto, pronto a passare alle vie di fatto nei confronti dell’insolente uccello tropicale, che continua con i saluti:
«Terùn! Terùn! Cra…! Negher!»
Miguel smettendo di ballare posa il vassoio a terra e si accinge a spiumare il pappagallo, quando Gilda, avvedendosi delle sue intenzioni, lo richiama all’ordine:
«Miguel!»
«Si, señora?»
«Miguel, quante volte devo dirti di non infastidire Flettàx?»
«Ma yo…» prova a giustificarsi il messicano, prontamente stoppato dalla padrona di casa
«Ma yo, ma yo. E’ un animale delicato, poverino. Ha sofferto molto.»
«Ma señora, l’uccello me offende! »
«Miguel smettila di dire stupidaggini. E’ ridicolo! Un ragazzone come te, offenderti per un uccello» e rientra in camera, dove il telefonino ha ripreso a squillare.

Gilda guarda il numero sconosciuto; rimpiange di avere concesso le ferie a James, il fido maggiordomo, ed infine si decide a rispondere:
«Pronto?»
«Sia lodato Gesù Cristo!» risponde la voce squillante in linea.
«Sempre sia lodato» risponde una sorpresa Gilda. «Ma chi è che parla?»
«Sono suor Matilda Inclinata del convento di Ladispoli. C’è la madre badessa?»
«La badessa? Che badessa? Ma no, guardi suora, deve aver sbagliato numero, questo non è un convento»
«Ma certo che non è un convento, lo so bene. Tutt’altro, a quello che mi risulta.»
«Tutt’altro? Cosa vuole insinuare suora?» chiede Gilda, iniziando ad innervosirsi.
«Voglio dire che in quel posto si fornica e si vive nel peccato. Sbaglio per caso?»
«Si forniché? Ma come si permette, nel peccato ci vivrà lei!»
«Su su non è il caso di prendersela. Tanto al giorno d’oggi fornicano tutti»
«Senta suora, non l’ho ancora mandata al diavolo per il rispetto che ho per l’abito che indossa, ma se continua così mi costringe proprio a…»
«Che abito?» la interrompe la suora. Gilda, confusa, risponde:
«Come che abito? La tonaca, no? Il saio, o come si chiama. E che diamine, mica mi posso mettere a insultare una consacrata»
«Perché?» chiede sinceramente incuriosita la suora.
«Ma come perché! Perché sono stata educata così, che i preti e le monache vanno rispettati! Però se continua posso cominciare adesso a fare un’eccezione »
«Ah, ah, ah…» una risata squillante, dall’altra parte del telefono, interrompe la dichiarazione di guerra di Gilda, che rimane sbalordita a guardare il cellulare.
«Ah, ah, Gilda sei incredibile. Non sei cambiata per niente!»
Gilda continua a guardare il cellulare con la bocca aperta. Finché non si decide a chiedere:
«Ma scusi, noi ci conosciamo?»
«Ah, ah, ma che certo che ci conosciamo, tontolana! Sono Marisa, ti ricordi adesso?»

swimsuitmuddy

Non escludo il ritorno

Cari amici del blog, è giunta l’ora di tirare le somme di questo anno passato con voi. Ne sentivate il bisogno? Non credo, ma concedetemene il vezzo. Quando ho iniziato a scrivere questi raccontini avevo ben chiaro in mente che non avrei potuto ne dovuto andare avanti all’infinito. Volevo condividere dei ricordi, degli sprazzi di vita che chiamavo del secolo scorso, inteso come tempo ormai lontano, dimenticato ed oggi forse incomprensibile. L’ho fatto, penso, con generosità: ho presentato me, il mio anzi i miei paesi, la mia famiglia, le mie passioni, tanti amici e tante storie; a volte ho preso spunto da vicende dell’attualità grottesche o farsesche, talvolta  drammatiche. Scrivendole mi sono trovato a sorriderne, qualche volta a commuovermi; l’esercizio quasi quotidiano credo mi abbia fatto bene, non so a voi ma a me pare che la mia scrittura sia migliorata, la trovo un po’ più fluida; ho individuato anche un certo stile personale, che arriva divagando al punto facendo un po’ innervosire i frettolosi: in questo le letture giovanili di Woodehouse e Jerome K. Jerome hanno avuto il loro peso.

Il blog era un mondo abbastanza sconosciuto per me; vi ho scoperto delle belle persone con le quali condividerei volentieri un bel bicchiere di vino rosso contandocela su davanti ad un camino acceso; sarei probabilmente di poca compagnia perché dopo qualche minuto mi addormenterei beato, vi pregherei pertanto di non svegliarmi. Sono sorpreso da quanti poeti ci siano ancora a questo mondo, ed anche della necessità che tanti hanno di mettere a nudo i propri stati d’animo; ho conosciuto persone di grande spessore che,  a rischio di gettare perle ai porci, mettono a disposizione la loro cultura gratuitamente, solo per il piacere di scambiarsi opinioni. Tante storie tristi e tante storie divertenti; con qualcuno il colloquio è quasi giornaliero, e ci si allarma quando per qualche tempo da quelle parti non arrivano notizie…

Voglio rassicurarvi in anticipo, amici: non preoccupatevi per me! Il mio era un contratto a progetto, stipulato tra me e me: ed i progetti, si sa, prima o poi si concludono. A volte finiscono nei contratti a tempo indeterminato ma precario del Jobs Act, ma finiscono. Non male, a mio parere; del resto l’avevo detto di non essere Marina Ripa di Meana!

Potrei andare avanti ancora, perché di storie da raccontare ce ne sono tante e tante ce ne saranno; ma mi sono accorto che quest’impegno mi sta richiedendo un po’ troppo tempo, e semplicemente non ce la faccio più a mantenerlo… ho bisogno di leggere di più, di studiare di più, di informarmi di più, di ascoltare più musica. Tra l’altro anche ripassare l’italiano non mi farebbe male. Continuerò a seguirvi però! Non con l’assiduità attuale, perdonatemi… da programmatore, stabilirò un giorno della settimana e cercherò di mettermi in pari.

Con i social invece sono indeciso… ne riconosco una validità, e forse una imprescindibilità nel mondo odierno, ma sinceramente mi sembra che l’utilizzo stia diventando compulsivo anche per me, e dunque vorrei liberarmene. Non credo tra l’altro che lo strumento mi sia congeniale… voglio dire, lì sopra va bene la battuta, il cazzeggio, la foto, la condivisione di contenuti creati da altri al 90%… ma la discussione non va d’accordo con i tempi social. O sono i miei tempi a non essere social, o sono io che sono a-social, non so.

Niente panico, comunque! I miei lettori più affezionati si dispereranno, ma col tempo se ne faranno una ragione; per gli altri, pur non arrivando ad infischiarmene francamente, sento un po’ meno responsabilità.

Arrivederci dunque, amici. Come ho detto, sto qua, non scappo: pronto con voi a ridere, commuovermi, arrabbiarmi e di conseguenza maledire Gorbaciov.

Poi, siccome come avrete capito non sono proprio un campione di coerenza, non si sa mai; come faceva intendere uno dei nostri più grandi poeti contemporanei, prima di finire caricatura di se stesso nell’immonda trasmissione televisiva Music Farm: non escludo il ritorno.

(69. fine)

califano