Cronachette dell’anno nuovo che assomiglia tanto al vecchio (4)

Amiche e amici,

oggi è la giornata della memoria. Motivo forse per cui scrivo queste cronachette: così se perdo la memoria me le posso andare a rileggere e chiedermi se ero davvero io quello che scriveva quelle cose là. L’altra settimana, a proposito, quando vi dicevo che con i miei fratelli abbiamo aperto i cassetti di mia madre e tirato fuori i suoi ricordi, c’erano anche delle lettere che conservava gelosamente: quelle che noi fratelli le scrivevamo da bambini per la festa della mamma, le cartoline e le lettere che le mandavamo quando andavamo in gita (per fortuna non esistevano i telefonini, whatsapp e gli sms…), e tra queste una lettera che le scrissi da militare, per raccontarle alla mia maniera come me la passavo a servire la patria. Allora non si tornava a casa molto spesso, io in tutto il militare sono andato in licenza 2-3 volte, ma considerate che ho passato una estate a Sabaudia ed una a Rimini, quindi non è che avessi tutta questa smania di tornare a casa.

Comunque ieri sera ho partecipato ad una serata in preparazione della giornata della memoria, organizzata dai pensionati dei balli popolari del martedì; vi ho parlato poco di queste persone ma sono davvero ammirabili, prima di tutto perché per la maggior parte provengono dal sindacato ed in genere da quella che una volta si chiamava sinistra, dunque anche se provati hanno ancora degli ideali; poi perché hanno ancora voglia di mettersi in gioco, di organizzare, di creare occasioni di partecipazione…  Così ieri sera la serata ha proposto la visione di tre brevi documenti:  il primo un’intervista a Ines Figini, un’operaia comasca nata nel 1922, scomparsa da un paio d’anni, che raccontava come sia stata deportata nel ’44 non perché ebrea, ma perché a seguito degli scioperi nel comasco aveva “osato” prendere le difese dei suoi compagni; e così insieme ad altri operai ed operaie venne portata nel lager di Mauthausen, e poi ad Auschwitz-Birkenau ed infine a Ravensbrück, dove rimase fino alla liberazione ad opera dell’esercito sovietico. Il secondo documento è un’intervista di Walter Veltroni (ogni tanto ne azzecca qualcuna, come quando da direttore dell’Unità fece ripubblicare tutti gli album di figurine dei calciatori Panin) a Sami Modiano, ebreo, che viveva con la sua famiglia a Rodi: qui i tedeschi lo presero il 23 luglio del ’44, con suo padre e sua sorella (la mamma era morta) e tutta la comunità ebraica e li portarono ad Auschwitz-Birkenau, dove ben pochi si salvarono. Sua sorella morì dopo appena un mese dall’arrivo, e suo padre poco dopo la seguì, lasciandosi morire. Sami, così come Ines, quando i tedeschi erano ormai braccati vennero incamminati in quelle che erano chiamate “marce della morte”: i tedeschi non volevano testimoni in vita e non volevano nemmeno sprecare pallottole, perciò facevano camminare i deportati, ridotti spesso a larve di uomini (Sami pesava 23 chili, e aveva 14 anni!) fino a che non morissero per il freddo e lo sfinimento. Sami si salvò solo perché, svenuto durante la marcia, venne messo sopra un mucchio di cadaveri da due compagni; risvegliatosi trovò la forza di tornare al campo per cercare riparo, e venne salvato da una dottoressa russa che lo trovò in fin di vita.

Infine, il terzo documento mostra un viaggio di pochi anni fa di ragazzi delle superiori per visitare Auschwitz, a cui partecipò anche Davide Van De Sfroos, il cantautore laghée: lo sguardo di questi ragazzi, le riflessioni, quello che sono capaci di documentare con foto, disegni e scritti fa ben sperare per il futuro, nonostante tutto.

E’ assurdo, e grottesco per riportare le parole di una amica blogger, che alla commemorazione ad Auschwitz non siano stati invitati rappresentanti russi. Nello stravolgimento della storia in atto, può darsi che tra qualche anno ci faranno credere che i campi di concentramento erano gestiti dai sovietici, ed i nazisti erano i liberatori.

Dopo la parte culturale e memoriale, cibo e danze! Da mangiare le volenterose pensionate e non hanno preparato dei piatti simil kosher: segnalo tre tipi di hummus, di cui avrei fatto a meno perché è un cibo che non riesce proprio a piacermi. Non ho portato il mio salame perché alcuni puristi non lo ritenevano filologico, ma se lo avessi fatto avrebbe avuto molto più successo dell’hummus, ne sono sicuro. Il prosecco comunque, kosher o no, c’era.

Le danze israeliane sono molto divertenti. Io sono uno dei più scarsi perché tendo a dimenticare i passi, anche se orecchio per la musica ce l’ho e quindi almeno il tempo lo tengo; fra qualche tempo, chissà, potrei anche diventare bravo. Sempre che la memoria mi assista…

A presto!

Giusto per rendere l’idea, non siamo noi ma potremmo esserlo…

Orticello di guerra

Ieri mia madre, chiacchierando del più e del meno durante la telefonata domenicale, parlando dei fiori del mio balcone mi ha chiesto se non stessi curando il mio “orticello di guerra” e poi ha intonato una canzoncina chiedendomi se me la ricordassi. Considerando che la canzone è del ’41 non vedo come avrei potuto ricordarla, ma lei insiste che la cantavo da piccolo e quindi può darsi che qualcuno me l’abbia insegnata (secondo me si confonde un po’: nel ’41 aveva sei anni e mio nonno era in guerra, dunque senz’altro l’avrà cantata lei…).
In sottofondo ho sentito agitarsi allarmato mio padre al quale la canzoncina deve aver risvegliato ricordi non proprio piacevoli. Veramente non so se al mio paese gli orti di guerra ci fossero, dato che intorno era tutta campagna: loro quando avevano fame (sempre) cercavano di andare a rubare qualcosa ai contadini…
L’ho comunque cercata e la riporto, si intitolava “Caro papà” :

Caro Papà
ti scrivo e la mia mano
quasi mi trema, lo comprendi tu.
Son tanti giorni che mi sei lontano
e dove vivi non lo dici più.
Le lacrime che bagnano il mio viso
son lacrime di orgoglio, credi a me.
Ti vedo che dischiudi un bel sorriso,
e il tuo Balilla stringi in braccio a te.
Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra,
con fede con onore e disciplina
desidero che frutti la mia terra
e curo l’orticello ogni mattina,
l’orticello di guerra
e prego Dio
che vegli su di te babbuccio mio.

Caro Papà,
da ogni tua parola
sprigiona un “Credo” che non si scorda più
fiamma d’amore di patria che consola
come ad amarla mi insegnasti tu.
Così da te le cose ch’ho imparato
le tengo chiuse, strette nel mio cuor
ed oggi come te sono un soldato
credo il tuo Credo con lo stesso amor.
Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra,
con fede con onore e disciplina
desidero che frutti la mia terra
e curo l’orticello ogni mattina,
l’orticello di guerra
e prego Dio
che vegli su di te babbuccio mio

che vi devo dire, può darsi che l’abbia cantata veramente, perché ancora mi commuove…

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Niente sushi per Olena – 13

Dedico questo pezzo ad un amico alpino, classe 1932.

Nonna Pina scruta le lontane montagne innevate. Un velo di tristezza le offusca per un attimo la vista, ma subito si riprende e rischiara la voce, sciogliendo il groppo che le si è formato in gola. Lentamente, a voce bassa, si rivolge ad Olena:
«Natascia, te l’avevo mai detto che ho un fratello in Russia?»
Lo straccio con il quale Olena sta pulendo la sua arma rimane a mezz’aria e la russa, sorpresa, si  volta verso la centenaria.
«Davvero, Babushka? Non sapevo voi avete fratello, dove trovare lui?»
Nonna Pina ignora la domanda, e seguendo il filo dei suoi pensieri inizia a raccontare:
«Eh sì, sono già settantacinque anni che è in Russia»
«Settantacinque anni Babushka? Deve essere molto anziano anche lui, allora»
«Al contrario Natascia, il mio fratellino è molto giovane»
«Non capisco, signora, come può essere giovane? Deve avere…» – Olena, confusa, fa due calcoli – «… deve avere almeno cento anni!»
«E pensare che non volevo farlo partire… come è buffa la vita»

Olena si siede in silenzio, con le gambe incrociate, per non disturbare nonna Pina nei suoi ricordi.
«Mario è più piccolo di me di cinque anni… io del ’14, lui del ’19. Quando entrammo in guerra, fu arruolato negli alpini. Io mi offrii di fargli ottenere un posto al sicuro qua, in Italia, sfruttando le mie conoscenze… ma lui niente, non volle, testardo. “Con che faccia potrei guardare i miei amici”, mi disse… dovevi vederlo che figurino, con la sua bella divisa ed il cappello con la penna nera in testa! A quel tempo si era anche fatto crescere un pizzetto, le ragazze ci andavano pazze, ma lui non si voleva legare, troppo presto diceva, mi voglio godere la vita…» Pina prende fiato, e sospira.
«La guerra doveva durare poco… e invece… qualche mese dopo la sua divisione venne mandata in Albania, e da lì in Grecia. E poi in Russia…»
Pina, ormai persa nella sua storia, continua quasi parlando a se stessa:
«Alpini in Russia… che follia! Loro che amano le montagne, a combattere nelle sterminate pianure russe…»
Olena annuisce, ripensando ai racconti dei suoi genitori.
«E’ stata grande tragedia per tutti, Babushka…»
Pina muove una mano nell’aria con fastidio, a scacciare parole che suonano ormai vuote.
«Gli alpini sul Don… il crollo del fronte, la ritirata, l’accerchiamento…»
«Soldati italiani si batterono come leoni, ma quella era nostra Patria, Babushka…» osserva Olena con rispetto.
«Ah, lo so, lo so!» dice orgogliosamente nonna Pina «Non ce l’ho mica con i tuoi compagni, sai, Natascia? Hanno fatto quello che andava fatto, quando c’è chi ti vuole imporre la sua presenza con le armi. E nemmeno il mio Mario ce l’aveva con loro, sai? Combatteva perché doveva, per portare a casa la sua pelle e quella dei compagni»
«Guerra brutto affare, Babushka…»
«E poi venne quel 26 gennaio del ’43… russi dietro, russi davanti… dovevano sfondare, o sarebbero morti tutti. Che potevano fare? E la divisione del mio Mario, la Tridentina, attaccò…a Nicolajevka»

Pina si ferma, gli occhi appena visibili sotto la fitta rete di rughe delle palpebre. Fissa Olena negli occhi, cercandovi un riflesso del gelo di quel gennaio.
«Sei mai stata a Nikolajevka, Natascia?»
«No, Babushka. Io vengo da Siberia, quattromila chilometri lontana»
Nonna Pina sorride amara:
«Quattromila chilometri… e noi pensavamo di invadervi…» poi con un tono dolce, fragile:
«Natascia, ti posso chiedere un favore?»
«Certo Babushka, tutto quanto volete»
«Quando quest’affare sarà finito, mi accompagni da Mario? Mettiamo un fiore e torniamo»

Olena alza il volto al sole, con gli occhi blu straordinariamente lucidi.
«Io prometto voi di si, Babushka»
La nonna, soddisfatta, sorride, si batte una mano su una coscia e dice:
«D’accordo, allora. Ah, e naturalmente viene anche James. Lui ci sa fare con i fiori»

 

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Mamma, solo per te la mia canzone vola: za zà! (V)

Nonna Annunziata, o meglio Nunziata come veniva chiamata, era la prima di sei sorelle.

L’altro giorno ho fatto lo spiritoso sui nigerini: ma anche noi non scherzavamo, qualche annetto fa. Ora tanti figli pare che li facciano solo i ricchi ed i ciellini: avremo quindi un futuro di ricchi ciellini e di poveri nigerini?

Suo padre voleva un figlio maschio: provava e riprovava ma niente, non c’era niente da fare: solo femmine uscivano. Ada era la più piccola e Nunziata, data la differenza di età, si era trovata a farle più da mamma che da sorella.

Faceva caldo, quel luglio; la notte prima i tedeschi se ne erano andati, di sorpresa, senza sparare, e si diceva che si fossero spostati al fiume più a nord, per difendere Ancona e il suo porto.

Ad Ada toccava andare a prendere l’acqua, alla fonte che era appena fuori dal paese; lo faceva volentieri, insieme alla sua amica Luisa, perché così potevano svagarsi un po’ dalle faccende di casa, chiacchierare e scambiarsi intimità, sogni, fantasie e progetti per il futuro.
Ada non era una bellezza: minuta, timida, a sedici anni aveva appena un accenno di seno ed i denti davanti un po’ troppo pronunciati; aveva dei bei capelli neri, che teneva legati in due trecce che usava arrotolare come appoggio per la brocca dell’acqua, ed un sorriso dolcissimo che gli illuminava il viso. Luisa invece si che era bella; alta, slanciata, un petto sodo, faceva girare la testa a tutti i ragazzi. Ma lei non guardava nessuno: era già fidanzata, ma il suo promesso era al nord a fare la guerra con Mussolini, e così lei non sapeva se essere contenta per la sconfitta dei tedeschi o dispiaciuta per il suo Mario. Che ne sapevano loro di politica! Loro volevano solo che quella guerra maledetta finisse al più presto e che si tornasse a vivere normalmente, a divertirsi, a ballare, a godersi i giorni di sole insieme alle famiglie, alle amiche.
Nei giorni precedenti avevano avuto paura ad uscire, con tutti quei soldati intorno; ma adesso per fortuna era finita, e si sentivano più tranquille; dicevano che sarebbero arrivati i liberatori, anche se non immaginavano bene da cosa le avrebbero liberate: dalla miseria, forse, o dalla fame?

Sprechiamo tanta di quella acqua che forse farebbe bene anche a noi doverla andare a prendere alla fonte con la brocca in testa. Riusciremmo contemporaneamente a chattare su Whatsapp?

Camminando affiancate così, con la brocca in equilibrio sulla testa, arrivarono all’ultima curva prima della fonte. Accovacciati a lato della strada, sull’erba, videro quattro uomini armati. Soldati sembrava, ma non come quelli che se ne erano andati; questi apparivano più dei predoni del deserto, almeno a sentire i racconti dei grandi, in testa avevano delle specie di turbanti, ed al posto delle divise sembravano indossare delle tuniche da beduini. Scuri di pelle, fumavano e discutevano tra di loro in una lingua che non riconoscevano.
Ada rimase paralizzata dalla sorpresa, Luisa invece più pronta capì subito che era meglio togliersi da quella situazione, la prese per un braccio e in silenzio cercò di spingerla a tornare sui loro passi.

Ma era troppo tardi. Dietro di loro comparvero altri quattro uomini, con un ghigno disegnato in faccia, come quello delle jene che fiutano la preda, facendo segno di non aver paura, invitando intanto i loro compagni ad alzarsi, a partecipare anche loro al banchetto.
“Scappa!” fece appena in tempo a dire Luisa. Poi, le brocche caddero.

Il numero di donne stuprate selvaggiamente e spesso uccise dalle famigerate truppe marocchine, al seguito dell’Armata Francese, è solo stimato, si parla addirittura di 60.000. Nemmeno le vecchie e le bambine vennero risparmiate; e nemmeno uomini e bambini, che i marocchini non guardavano in faccia a nessuno.

Solo alla sera Luisa riuscì a rialzarsi, e ad avviarsi verso casa. Aveva pregato Dio di farla morire, ma non era stata esaudita; chiamava piangendo “Ada! Ada!” ma quella non rispondeva.
Ada forse aveva fatto una preghiera diversa, era là ma non c’era più; la sua mente si era rifiutata di partecipare all’orrore, lasciando solo il corpo a subire gli affronti di quegli animali. Sul volto insanguinato aveva un sorriso; dalle labbra le usciva una cantilena, una nenia che sua madre usava per farla addormentare da piccola.

Passò due anni in manicomio. Nonna Annunziata, che era stata nominata sua tutrice, ogni tanto andava a trovarla; ad un certo punto i medici videro dei miglioramenti, e dopo un po’ pensarono che le avrebbe fatto bene passare un periodo a casa.

Così Ada, sempre con il sorriso dolce in faccia, tornò alla sua casa, dove i genitori non c’erano più ed erano rimaste solo due sorelle; queste la abbracciarono, e vedendola stanca la accompagnarono nella sua vecchia stanza, al piano di sopra; lei le salutò con gli occhi, ripose la piccola valigia di cartone, aspettò che tornassero in cucina e salì in soffitta. Alzò la scaletta di legno, impolverata, che giaceva per terra vicino ad un vecchio baule che conteneva i ricordi di famiglia; aprì la finestrella dell’abbaino e si trovò sul tetto; fece tre, quattro passi, forse sorrise ancora chissà, e si buttò.

(152 – quinta puntata)

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Nota.
La storia qui narrata è vera. Ada, la sorella più piccola di mia nonna, venne violentata da un gruppo di soldati, impazzì, fu ricoverata in manicomio e poco tempo dopo essere stata dimessa si suicidò.  Il luogo non dovrebbe essere quello, perché le truppe marocchine sfogarono le loro bestialità tra la Ciociaria e la Toscana, e non risulta che fossero stanziate anche nelle Marche. Quindi o Ada era altrove o non furono truppe marocchine; ma la sostanza non cambia. Luisa l’ho invece inventata io, in omaggio alla Ciociara di Alberto Moravia ed all’immensa Sofia Loren, classe 1934, quasi coetanea di mia madre.

Mamma, solo per te la mia canzone vola: za zà! (IV)

Nel giugno-luglio del ’44 nel maceratese passò il fronte. Ovvero i tedeschi, incalzati dagli alleati, principalmente Polacchi ed Inglesi, con il contributo più tollerato che gradito degli italiani del Corpo Italiano di Liberazione, si ritirarono verso Nord, non senza un’aspra resistenza e dure battaglie: ma questa è roba per appassionati di storie militari, argomento affascinante specie per chi come me ha avuto la fortuna di non vivere quelle vicende di persona: per gli altri, un po’ meno.

I tedeschi quindi, ritirandosi ordinatamente, andarono ad assestarsi sulla Linea Gotica, quella linea fortificata di circa 300 chilometri che tagliava in due l’Italia, da Massa a Pesaro, e che venne superata solo nell’aprile del ’45, preludendo la rotta delle armate germaniche, e quindi la resa e la fine della guerra.

Ma in quel luglio la fine, anche se sperata, era ancora ben lontana; i soldati di passaggio perquisivano ogni casa per requisire tutto quello che poteva essere utile ai loro bisogni. Il vicolo dove abitava mia madre si trova all’inizio del paese, appena dopo la porta di Sopra; è un vicolo cieco lungo e stretto, che si chiama vicolo delle Monache perché confinante col convento delle Clarisse.

A proposito del convento, attorno ad esso, a delimitare due lati del vicolo, c’è un muro alto, eretto per preservare la privacy delle suore e proteggerle da sguardi indiscreti; il recente terremoto l’ha lesionato ed ora, se passate da quelle parti, vedrete il vicolo ingombro di impalcature di sostegno. Secondo me si faceva prima a buttarlo giù e rifarlo, magari più basso: tanto di suorine da vedere ne sono rimaste ben poche.

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Quattro soldati si misero all’imbocco del vicolo; altri due passarono a perquisire le case per vedere di racimolare qualcosa da mettere sotto i denti.

Nonna Annunziata, che aveva assunto il comando della casa, era analfabeta sì, ma non certo una sciocca, anzi. Innanzitutto era stata a contatto con famiglie importanti: era stata a Roma come cuoca del Prefetto, era stata a servizio dalla Marchesa Ricci, e dopo la guerra lavorerà per altre famiglie di “notabili”, tra cui qualche onorevole. Diciamo che, nei limiti del tempo, aveva visto e vissuto il mondo più di tanti altri. Essendo considerata quindi come persona di fiducia, un orefice di Macerata, preoccupato che gli venisse requisito, le diede da custodire un piccolo tesoro: una sera si presentò in casa ed, avvolti in una pezza di tela, le affidò i gioielli più preziosi che aveva tenendosi quelli di minor valore, temendo che se i tedeschi fossero passati dal suo laboratorio senza trovare niente non l’avrebbe passata liscia.

La casetta dei nonni era, come tante di quelle del centro storico, su tre livelli; il piano terra, con uno sgabuzzino, un bagnetto ed una specie di grotta; il primo piano, con la cucina e la stanza da letto dei nonni; il piano di sopra, con le due stanze dei bambini; da lì si accedeva al tetto, con una scaletta posta dietro un’anta che sembrava di un armadio.

Dunque in una delle stanze di sopra nonna radunò le tre bambine, 9, 6, e 3 anni; mio zio invece che era appena più grandicello, come gli altri della sua età alla vista delle uniformi era scappato per campi.

Arrivati in cucina, i due presero quelle poche cose che trovarono, una pagnotta, qualche uovo; poi vollero andare al piano di sopra, a controllare che ci fosse qualche dispensa nascosta.

Sulla soglia della camera nonna, che li precedeva, li supplicò di non fare rumore, che svegliavano la bambina; e lo fece di sicuro a gesti, dato che non conosceva certo il tedesco; al che uno dei due la spostò, e mise la testa dentro la camera; la vista di zia Raffaella che effettivamente dormiva nella culletta di legno, e delle due sorelline che le stavano intorno spaventate, lo dissuase dal continuare la ricerca, o forse un soprassalto di umanità, chissà. E per fortuna non cercarono ancora, perché oltre al tesoro avrebbero trovato anche la bicicletta del nonno nascosta sotto al letto: e anche quella faceva comodo.

Se la nonna fosse stata disonesta (o “furba” secondo l’interpretazione oggi in voga) avrebbe anche potuto dire che il tesoro se lo erano preso i tedeschi, chi poteva contraddirla? Ma quella non era roba sua e tornò al legittimo proprietario.

In quel ’44, ma quello ve l’ho già raccontato, mio padre sedicenne era stato portato con i suoi coetanei in campeggio in Alta Italia¹, dove c’era un campo di addestramento all’Alpe del Viceré; indietro non si poteva tornare, e del resto era anche uno dei motti con cui erano cresciuti, e vennero arruolati nella Repubblica Sociale. A momenti ci lasciavano le penne; ma questa pure è un’altra storia.

(151 – quarta puntata)

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¹ Il concetto di Alta Italia comprendeva tutto quello che c’era a Nord della pianura padana. Ho cercato tante volte di immaginare i pensieri di un ragazzo di sedici anni di allora, catapultato in mezzo alla guerra a centinaia di chilometri da casa. Non ci sono mai riuscito, e mio padre non mi ha aiutato molto a capire. La guerra non si può raccontare, secondo lui, e forse nemmeno si deve, se non per dire che è brutta. Avanti bisogna andare, senza voltarsi: chi si ferma è perduto.

Mamma, solo per te la mia canzone vola: za zà! (III)

Una pagina della seconda guerra mondiale poco conosciuta è quella dei prigionieri di guerra o degli internati civili nei campi di concentramento alleati.

Ci è stato raccontato della tragedia dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre del ’43; le pene dei quali vanno interamente addossate al re ed al governo Badoglio che vigliaccamente prima li lasciarono senza ordini, e poi invece di dichiarare la resa annunciarono che la guerra continuava, ma al fianco di quelli che fino al giorno prima erano i nemici. Era ragionevole pensare che i tedeschi avrebbero accolto i soldati italiani con rose e fiori? Non credo, e infatti così non fu.

Ma poco o niente ci è stato raccontato del trattamento che i nostri militari e civili subirono nei campi alleati e specialmente francesi, e ancor più in quelli francesi nelle colonie d’Africa; incarogniti contro quella che avevano vissuto con ragione come una maramalderia, usarono sovente l’internamento come vendetta, accanendosi contro quelli che sicuramente erano nemici, ma che non erano certo andati in guerra, tranne poche eccezioni, per loro diletto. Andò meglio a quelli che finirono nei campi inglesi o americani. Ma avevamo perso la guerra, anche se facemmo finta di averla vinta, e dunque Vae Victis; avevamo la coda di paglia lunga chilometri, e queste vicende rimasero solo nelle memorie dei reduci, che non ne parlavano volentieri, e man mano in quelle degli storici: poi basta.

Mio nonno era del 1911; in quell’anno suo zio partì per l’Argentina, in cerca di lavoro e fortuna; l’intenzione era forse quella di tornare, ma un paio di guerre mondiali e le vicende familiari glielo impedirono. Ma lasciamo stare anche gli zii argentini, per adesso.

Gaetano aveva un gemello che si chiamava Torello. Non so se Torello fosse il diminutivo di Salvatore o fosse proprio il suo nome; fatto sta che quando fu il momento di andare sotto le armi, a 21 anni, di due gemelli che erano la Patria magnanima ne richiedette solo uno. Seguendo l’ordine di trascrizione all’anagrafe sarebbe toccato andare a mio nonno ma Torello, considerando che Gaetano era sposato e aveva un figlio, generosamente si offrì di andare al suo posto.

Al tempo la ferma di leva era di 18 mesi; ma se quello era un problema relativo, le conseguenze si sarebbero viste più tardi, e non delle più piacevoli. Torello infatti fu richiamato alle armi, e nel ’41 venne spedito in Russia con l’Armir a spezzare le reni a Stalin. Torello di nome e di fatto, fu tra i fortunati che riuscirono a scampare alla disfatta ed a tornare a casa con tutti i pezzi al loro posto; certamente i suoi sentimenti non erano benevoli nei confronti di chi l’aveva mandato là, a combattere contro i russi con gli stivali di cartone; ma ancora di più ce l’aveva con quella testa di cavolo del suo gemello, che dopo esser stato salvato dalla leva era andato ad arruolarsi volontario per l’Africa, con un figlio di 3 anni ed un’altra, mia madre, che era appena nata.

Da quanto so non gli parlò più; per lui il suo gemello era morto là, in Russia, insieme ai suoi compagni congelati nella ritirata dell’8° Armata e poi nei campi di concentramento; al ritorno si trasferì a Civitavecchia, e si persero definitivamente di vista.¹

Questi erano i tempi, insomma; eroici o tragici a seconda dei punti di vista, o entrambi se vogliamo; contadini andavano ad ammazzare contadini, operai ad ammazzare operai, senza nessuna ragione al mondo se non quella delle ideologie malate dei loro capi; ed è facile ora dire “si potevano ribellare”: un cavolo si potevano ribellare, bisognerebbe provare a stare una ventina d’anni sotto dittatura per vedere quanto ci si può ribellare, e forse basta vedere anche quello che succede oggi, quando si prova a ribellarsi, qui ed in qualsiasi posto nel mondo.

Quanti sindacalisti, ambientalisti, giornalisti, oppositori politici vengono uccisi o imprigionati  tutti i giorni in paesi che in teoria sarebbero democrazie, come Colombia, Brasile, Messico, per opera di squadroni della morte? Per dire i primi tre che mi vengono in mente. Voglio dire, è difficile battersi per la verità e giustizia in regimi democratici, figurarsi in dittatura. Ma quando una democrazia è effettiva, se ci pensiamo? La caratteristica delle democrazie non dovrebbe essere garantire il rispetto delle minoranze, la libera associazione politica, il diritto al dissenso e la libertà di informazione e stampa? E se non c’è questo di che democrazia parliamo, di quella che ogni tanto concede di andare a votare per miliardari che si assomigliano sempre di più o che garantisce il diritto all’happy hour? Chiusa parentesi.

In mezzo a queste tragedie collettive Ida viveva la sua tragedia personale; suo padre non c’era e non si sapeva quando e se sarebbe tornato; sua madre era morta, ed era tempo di diventare grande, un po’ troppo in fretta per i suoi gusti e per quello che sarebbe stato giusto.

(146 – terza puntata)

¹ Se avessi tempo andrei a ricercare i fogli matricolari dei due, ed anche i documenti dell’internamento, anche per verificare se la memoria di chi mi racconta queste storie falla (senza offesa). In qualche armadio di qualche ministero ci saranno sicuramente.

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Mamma, solo per te la mia canzone vola: za zà! (II)

Ma per adesso lasciamo stare le suore, le riprenderemo più tardi.

Nei momenti peggiori, quando da mangiare c’era poco o niente, la nonna Giulia girava per le campagne portandosi dietro la piccola Ida, cercando di muovere a compassione i rudi campagnoli. La piccola doveva fare la faccia più sofferente possibile, parte che le risultava odiosa e la spinse a fare la promessa che da grande non avrebbe più chiesto niente a nessuno. Sembra che la nonna non fosse usa ad indossare mutande, cosa di cui nessuno si poteva accorgere dato che i vestiti arrivavano fino ai piedi; e che fosse capace di fare la pipì in piedi senza farsi accorgere dai vicini. Una bella abilità!

In un paese vicino c’era un parente alla lontana, Boezio, che aveva fama di essere un vero tirchio. Una sera la nonna, con la fame che superava di gran lunga l’orgoglio, andò a bussare alla sua porta. Questo parente aveva dei possedimenti, terreni, case, e viveva da solo con una governante, senza moglie ne figli.
Lo Scrooge accolse le due questuanti con malagrazia, e dopo avergli fatto fare il giro della dispensa, guardare e non toccare, invitò le due a tornare da dove erano venute.
“Ma piove, ed è notte, dove vuoi che vado con la bambina piccola?” – cercò di farlo ragionare Giulia.

La risposta gliela diede con versi che a Ida ancora bruciano:
“Piòe e mal tempè,
a casa d’altri non ce se vè,
se io stessi a casa d’altri
come l’altri sta a casa mia
piglirío la strada e me ne glirío via”¹

Incurante delle suppliche e rimostranze le mandò via; ed anzi, quando Giulia gli passò davanti, le intimò di posare la forma di cacio che si era nascosta sotto il vestito.

Questo Boezio, non avendo eredi, aveva fatto testamento a favore della sua devota governante. Un giorno conobbe però, non si sa come, una donna, una avventuriera romana; si può immaginare con quali arti la maliarda riuscisse a fare breccia tra le difese del misantropo. Sta di fatto che in poco tempo la Circe riuscì a far allontanare la governante, bruciò il testamento e stava per farsi impalmare dal rinvigorito Ganimede. Ma vuoi gli sforzi a cui non era abituato, vuoi l’aver troppo allargato le ante della dispensa, all’improvviso Boezio morì.

Una sera Giulia e Ida erano a teatro, a vedere una commediola della compagnia dialettale del paese, quando ecco presentarsi a loro l’ufficiale giudiziario con tanto di divisa. La vista le spaventò a morte: che voleva da loro?
L’uomo non aveva cattive intenzioni: doveva solo consegnare una lettera del notaio che curava l’eredità del Boezio. Non essendo stato possibile rintracciare eredi diretti, le ricerche avevano stabilito che la consanguinea più prossima fosse Giulia, e pertanto le spettava l’intera eredità! E fu così che Giulia, dopo essersi vista rifiutare una semplice caciotta, divenne proprietaria della fortuna di Boezio: che fortuna davvero era, perché solo per pagare la tassa di successione occorsero dieci milioni di lire, che dovettero naturalmente essere ricavati vendendo parte del patrimonio; l’altra parte fu venduta per pagare i debiti e qualcosa rimase anche da dividersi tra i figli. A mio nonno rimase un gruzzoletto, che va detto a suo onore non sperperò ma tenne da parte per i figli e per la vecchiaia; mia mamma ricorda ancora quelle 250.000 lire che costituirono la sua dote e con la quale anni dopo poté sposarsi.

Ma questo successe un po’ di anni dopo; voglio tornare invece al ’41 e spezzare una lancia a favore di nonno Gaetano.

Innanzitutto rettifico: nel ’41 non era partito volontario per la guerra. Era partito sì volontario nel ’35, quando si doveva andare a conquistar l’Impero; ma nel ’40 si trovava in Francia, per dei lavori che una impresa edile del paese aveva preso in appalto. Quando dichiarammo guerra alla Francia (i francesi non la presero molto bene: la “coltellata alla schiena”, la definirono) gli italiani che erano di là non si trovarono in una buona posizione, cercarono tutti di tornare il più velocemente possibile a casa. Purtroppo lui e i suoi amici vennero bloccati, com’era da immaginarsi, alla frontiera; vennero rinchiusi in un campo di concentramento, nel quale le condizioni erano terribili ma dal quale per fortuna si salvò; quando tornò a casa del bel Gaetano non c’era rimasto molto: pesava meno di 40 chili, aveva perso tutti i denti ed anche i capelli si erano diradati e ingrigiti. Aveva nemmeno 35 anni ma era già vecchio, la malaria se l’era già beccata in Africa, insomma di Amedeo Nazzari ormai c’era rimasto solo il baffetto.

Meglio malandato che morto, tuttavia; forse suo gemello Torello non la pensava allo stesso modo, ma questa è una storia che vi racconterò la prossima volta.

(145 – seconda puntata)

dichguerra

Mamma, solo per te la mia canzone vola: za zà! (I)

Qualche settimana fa vi ho raccontato dello sfortunato incidente domestico di cui è stata vittima mia madre. Assurdo, come capita spesso: nel bellissimo film di Manfredi del ’71,  “Per grazia ricevuta”, c’era un farmacista ateo, interpretato da Lionel Stander, che raccoglieva ritagli di giornale dove si riportavano disgrazie improbabili, o addirittura ridicole, per dimostrare che non da un dio ma dal caso siamo governati, o se di dio si tratta è un dio burlone o quantomeno distratto.
Ma non vorrei addentrarmi in questioni teologiche, per le quali tra l’altro non sarei attrezzato.

Nel ’41, come i più informati di voi sapranno, c’era la guerra. Raffaella, la mia nonna materna naturale, aveva tre figli, la tisi ed un marito che aveva avuto la bella idea di partire volontario per la guerra per seguire  i suoi amici, dopo aver già partecipato alla conquista d’Africa.
In questi casi di solito subentrano le zie o le cugine; ma Raffaella era stata adottata, di sorelle o cugine non ne aveva e così i figli, che dovevano essere allontanati per evitare il contagio, furono momentaneamente divisi: il maggiore, Alfonso, di 12 anni, e la piccolina Emanuelita di 3 anni restarono con la nonna, Giulia; mia madre invece, che non aveva ancora 6 anni, fu spedita a Forlì, nel centro sanatoriale di Vecchiazzano, che era stato inaugurato nel ’37 da Rachele Mussolini ed all’epoca era all’avanguardia nella prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie polmonari. A Ida pur nella pena dell’allontanamento quel posto sembrò un paradiso.
Comunque per un po’ anche lei era rimasta con sua nonna, Giulia, che tra le altre cose “’rcuglìa li lumi”², ovvero era specie di chiropratica o fisioterapista: se qualche donna si bloccava per mal il mal di schiena, caso non infrequente, lei era pronta a salirle sulla schiena e a stirargli muscolatura e ossa con l’aiuto del matterello. Inoltre prestava mia madre, dietro piccola ricompensa, per far compagnia alle donne anziane di notte; ce n’era una dalla quale assolutamente non voleva andare perché aveva la camera sopra alla stalla dei cavalli ed i letti erano infestati di pulci.

Forse, se Raffaella fosse rimasta viva, a mio nonno sarebbe convenuto non tornare perché l’avrebbe ammazzato lei: purtroppo così non fu, e le toccò andare all’altro mondo col pensiero dei tre figli soli e del marito a cui doveva lasciarli.

Gaetano, mio nonno, corse subito ai ripari: rendendosi conto che con tre figli da solo non ce la poteva fare, si predispose a trovare velocemente un’altra moglie. Mio nonno, c’è da dirlo, era abbastanza bello: abbronzato, capelli impomatati all’indietro e baffetti, ricordava alla lontana Amedeo Nazzari¹. Ma di donne nubili disposte a farsi carico di tre figli non è che ce fossero così tante; così, saputo che in un paese vicino c’era una signorina ormai non più giovanissima, di buona famiglia e con una marea di sorelle, in quattro e quattr’otto fece in modo che il matrimonio venisse combinato, e nonna Annunziata arrivò a prendere le redini della famiglia e della casa.
Credo di averlo già detto, ma per me e per tutti i miei fratelli e cugini nonna Annunziata fu “la” nonna; ci voleva un bene dell’anima ed era orgogliosissima di tutto quello che facevamo; per mio nonno aveva una venerazione, lo accudiva come un pascià e non gli permetteva mai di uscire di casa se non fosse meno che in ordine.

Nei paesi di una volta si dormiva con le chiavi alle porte. Anzi, non c’era bisogno nemmeno delle chiavi; quella dei miei nonni ad esempio si apriva semplicemente alzando il chiavistello; nessuno però si azzardava ad entrare senza aver bussato ed aver ricevuto il permesso di entrare. I nonni avevano la stanza da letto al primo piano, e nel pomeriggio facevano sempre il riposino; mi è capitato qualche volta di doverli andare a disturbare, magari per salutarli perché dovevo partire, e ho ancora viva la tenerezza che provavo nel vedere mia nonna alzarsi, in vestaglia e con i capelli sciolti, lei che portava sempre la “crocchia”, e salutarmi scusandosi per mio nonno che “stava riposando”.

Immaginiamo cosa avrà pensato mia madre quando, tornata a casa dall’Istituto, invece della sua vecchia madre se ne trovò una nuova, sconosciuta e più vecchia di quella di prima. La sorpresa non deve essere stata molto piacevole; sensibile ma di carattere abbastanza ribelle non fece molto per rendere la vita facile alla nuova arrivata.
A proposito di nuove arrivate, dopo poco tempo nonna Annunziata pur in un’età a quei tempi non più consona, rimase incinta; ed alla piccola, con tatto sopraffino, fu dato il nome di Raffaella.

Ma giudicare con gli occhi di oggi quello che succedeva 80 anni fa è un esercizio che non porta a niente: vorrei vedere adesso, a parità di condizioni, che succederebbe. Anzi, basta pensare a quello che succederebbe se mancasse la corrente per un paio di giorni… ma non divaghiamo.

Attaccato al vicolo dove c’era la casa dei nonni c’è un convento di Clarisse. A quell’epoca, complice la fame e la condizione generale delle donne, le vocazioni erano senz’altro più frequenti di adesso, e di suore ce n’era un bel drappello; ora ne sono rimaste una decina, di cui diverse in età avanzata. Cantano benissimo comunque, qualche anno fa animarono proprio la messa per il 50° anniversario di matrimonio dei miei e mi era quasi venuta voglia di unirmi a loro (nel canto dico, non nel convento). In questo momento purtroppo la chiesa è inagibile a seguito del terremoto.

(144 – prima puntata)

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Note

¹ “E chi non beve con me pèste lo cólga!”, avete presente? No? Mah, non so che parlo a fare

² Letteralmente sarebbe  “raccogliere i lumi” ma detto così non si abbina immediatamente al matterello. Ne ignoro l’etimologia, insomma, se qualcuno può darmi dei lumi lo ringrazio.