So’ Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio

Tra le ambizioni che nutro non c’è quella di diventare guru o maestro di life-style. Se c’è una regola di vita alla quale però mi attengo, e che mi sentirei in generale di condividere, è quella di cercare di circondarsi di persone positive.  Voglio dire, se uno ha già i suoi problemi non serve a molto avere intorno gente che si lamenta in continuazione; piuttosto invece meglio una spalla sulla quale piangere che però poi sappia anche, meglio se con leggerezza, indicare un piano B o una possibile soluzione.

Bisogna tuttavia ammettere che in certi periodi ci si sente come oppressi da una cappa pessimistica, e questo è uno di quelli: crisi economica, attentati, terroristi, insicurezza generale, venti di guerra e fondamentalismi  non inducono al benessere emotivo.

Fortunatamente, quando il morale tende a scendere verso i tacchi, accade qualcosa che provvede a riportarlo se non al settimo cielo almeno ad una altitudine decente: ed ecco accorrere in nostro aiuto il prefetto Tronca, commissario di Roma dopo il golpetto che ha spodestato il sindaco eletto Marino, che con qualche secolo di ritardo ha deciso di mettere al bando i centurioni.

A mio avviso, non so se saranno d’accordo gli amici romani, si tratta di una generalizzazione inaccettabile: c’è centurione e centurione.

La prima volta che andai a Roma fu con una gita parrocchiale, in occasione del giubileo del 1975. Accompagnavo mia nonna paterna, che peraltro non ne aveva alcun bisogno; non avevamo una grande confidenza perché lei aveva seguito la carovana di figli emigrati a Torino, e quindi ci vedevamo di rado. Era una donna dall’aspetto burbero, arcigna; la vita se l’era sudata, aveva dovuto tirar su cinque figli quasi da sola, ed i momenti di tranquillità non dovevano essere stati tantissimi. Non ricordo se visitammo tutte le Sette Chiese canoniche; di sicuro salimmo ginocchioni la Scala Santa. Ero un po’ in imbarazzo, perché tutti i miei amici interpretando correttamente lo spirito del pranzo al sacco si erano fatti preparare da casa dei panini al salame o anche alla mortadella; mia nonna invece aveva sorvolato sul sacco e si era concentrata sul pranzo: fettine impanate, frittata ed anche una fetta di ciambellone. Non me la sentivo di offenderla, perciò mettendo da parte il disagio spazzolai tutto.

Non era una gran cuoca nonna Ida, e forse la sua performance migliore fu quando, in occasione di una delle poche cene insieme, ci presentò delle patate al forno ripiene di tonno, viste con sospetto dalla maggior parte dei commensali ma da me gradite moltissimo.

Da piccolo il Carosello serale, che preludeva l’andata a nanna, presentava dei personaggi memorabili. Alcuni di questi ancora resistono: Calimero, l’omino Bialetti, il gringo della carne Montana… la pubblicità della Terital, che era il marchio di un tessuto sintetico, proponeva un buffo romano che sbuffava: “Ave, so’ Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio: fa’ la guardia nun me piace, c’ho du’ metri de torace!”.  Per un’intera generazione di bambini Caio Gregorio è stato l’archetipo del Romano.

Da allora sono stato a Roma tantissime volte, da turista e per lavoro: per me, è la città più bella del mondo.
L’ultima volta, per dire, sono andato lo scorso luglio con la famiglia, approfittando di una super-offerta Italo, e tra le altre cose siamo andati a visitare il nuovo museo dell’Ara Pacis, che pure aveva ricevuto tante critiche, trovandolo incantevole; finalmente dentro Castel Sant’Angelo, che avevo sempre visto solo dall’esterno; e per l’ennesima volta al foro di Augusto, apposta per la visita multimediale curata da Piero Angela.  Avremmo anche voluto entrare al Colosseo, ma c’era troppa file e abbiamo desistito. Tra l’altro c’era un caldo micidiale, il ponentino di Roma non spirava.

Salendo sulla terrazza del Pincio, trovammo uno dei centurioni. Di tristissimo aspetto: innanzitutto non era romano ma sudamericano, e questo è di per se un anacronismo inaccettabile; poi il cimiero non era costruito con il regolamentare spazzolone colorato di rosso, ma con delle piume strappate da un boa di struzzo, con un effetto pride non proprio virile; infine una daga in plastica di quelle che si possono trovare nei mercatini rionali, in quelle poche bancarelle che ancora vendono giocattoli non tecnologici. Per niente filologico, se seguite quello che voglio dire; antiestetico anche, e meritevole senza dubbio di entrare nella lista di proscrizione del prefetto Tronca.

Mi piacerebbe però sapere chi ha stilato al commissario la lista dei problemi di Roma. Ho sondato conoscenti, colleghi e amici ivi residenti e rilevo che nessuno vi avrebbe posto in cima la deportazione dei vari Caio Gregorio. Ma può darsi che la mia e la loro sensibilità siano influenzate da quegli antichi Caroselli: “Ave, so’ Caio Gregorio”.

(74. continua)

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Parigi, o cara

Sono stato a Parigi per la prima volta in viaggio di nozze. Non da solo, ci tengo a precisarlo. Siamo andati in treno, in un comodo vagone letto che partiva la sera da Milano Centrale ed arrivava a Parigi l’indomani mattina. Avevamo una piccola cabina con un letto a castello: il loculo era arredato con un piccolo lavandino che in basso aveva un armadietto contenente un orinale, per evitare in caso di necessità di doversi recare nei servizi comuni. Non ricordo se entrambi i letti furono utilizzati o ci accucciammo in uno solo, propenderei per la seconda ipotesi. Era la prima volta che andavamo all’estero (se non contiamo la Svizzera); non prendemmo l’aereo prima di tutto perché non avevamo tutta questa fretta di arrivare, e poi perché volare metteva ancora soggezione: i voli erano meno frequenti di ora ed  abbastanza cari; i low-cost non erano ancora stati inventati, e tutto sommato avere una aderenza con il terreno dava più affidamento. Si partiva con un mucchietto di franchi che ci si era premurati di prenotare in banca, altrimenti si portavano i travel cheque che erano degli assegni validi per l’estero che venivano poi cambiati sul posto, pagando una commissione. Ci avevano sconsigliato di partire con le lire, che venivano disprezzate dai transalpini: un franco valeva circa 220 lire.

L’agenzia di viaggi (non c’era ancora la possibilità di prenotare voli e alberghi on-line) ci piazzò in un bellissimo albergo, il Mercure, sotto la collina di Montmartre, a due passi dal quartiere a luci rosse di Pigalle. Lì vicino c’era anche il famoso cabaret Moulin Rouge, dove decidemmo di immolare il ricavato del taglio della cravatta per passare una serata indimenticabile, cenando ed assistendo al fantasmagorico spettacolo “Formidable”: non eravamo certo abituati a quegli ambienti sfavillanti  e ricordo che entrammo sentendoci un po’ in soggezione, timorosi di essere fuori posto e di dire o fare qualcosa di sbagliato. Passai la serata guardando con un occhio i seni delle ballerine e con l’altro mia moglie incantata (e incantevole).

In quei dieci giorni abbiamo girato Parigi in lungo e in largo; quasi sempre a piedi, le distanze non ci facevano paura, ma sempre certi di poter contare nei mezzi pubblici, capillari ed efficienti come dalle nostre parti era utopia sperare di trovare. Il Louvre, la Torre Eiffel (dove mangiammo la soupe à l’oignon: era quello che potevamo permetterci…), Les Invalides e la tomba di Napoleone, le Champs Elysées e l’Arco di Trionfo… la Senna e i Bateaux- Mouches…

Siamo tornati a Parigi altre tre volte, provando sempre l’emozione ed il piacere particolare di girare per questa grande città davvero cosmopolita; l’ultima volta fummo colpiti da alcune famiglie che passeggiavano lungo gli Champs Elysées: uomini barbuti davanti e  donne, coperte da capo a piedi dal burka, dietro. Discutemmo un po’ della cosa, perché l’argomento era di attualità: bisognava tollerarlo? Ci dicemmo, non troppo convinti, che fosse una forma di rispetto di scelte personali, anche se in fondo rimaneva il timore che sotto quel burka potesse esserci chiunque e con qualunque intenzione.

Venerdì 13 novembre la giornata era iniziata male. Dopo un chilometro di camminata per raggiungere la stazione, mi sono accorto di aver lasciato la giacca a casa, con portafoglio e tesserina del treno. Finalmente arrivato al lavoro, verso l’ora di pranzo mi raggiunge una chiamata di mia moglie, che piangente mi informa che dei ladri sono penetrati in casa ed hanno rubato quel poco oro superstite da un precedente furto: ricordi di fidanzamento, di anniversari, di matrimonio… anche gli orecchini che indossava quella sera al Moulin Rouge, ci hanno rubato.

La sera, dopo la visita in caserma per l’inutile denuncia, ancora rintronati per l’arrabbiatura e lo sdegno e poco inclini a provare empatia per il prossimo, apprendiamo dell’eccidio  di Parigi. Bestiale e insensato come quello della redazione di Charlie Hebdo dello scorso gennaio, anche se per quello si erano alzati dei ditini quasi a giustificare i criminali: eh, certo, con quello che scrivevano se lo sono cercato…

Si, è vero, confesso, non sono mai stato in Kenia, o in Nigeria, e nemmeno in Russia se è per quello, e di questi paesi non ho nessun ricordo personale ne ho portato a casa alcun souvenir. Della Russia a dire la verità ho una matrioska che mi regalò una collega, che la visitò quando San Pietroburgo era ancora Leningrado.

Può darsi che questo influenzi la mia sensibilità; può darsi che senta i morti di Parigi più “miei” di quelli keniani, nigeriani o russi, così come la perdita di persone care è più dolorosa di quella di conoscenti. Può darsi semplicemente che gli orrori siano così tanti che è impossibile farsi carico di tutti.

Siamo limitati, dopotutto.

(73. continua)

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Sono un ossimoro

Non sono un intellettuale. Non ci sarebbe bisogno di puntualizzarlo dato che chiunque se ne può render conto da solo leggendo tre o quattro delle mie righe; comunque voglio ribadirlo, nel caso qualcuno ravvisi che mi stia montando la testa.  A volte anzi mi sento un analfabeta di ritorno: l’altro giorno ad esempio stavo preparando un quizzetto per allietare una cena elegante (in mancanza di consiglieri regionali abbigliati da crocerossina), Chi vuol esser medievale, e mettendo giù delle domandine che dei ragazzi delle medie, ed anche delle elementari di una volta, avrebbero indovinato ad occhi chiusi, ho dovuto ricorrere alla consultazione di wikipedia; poi per ringraziare gli estensori dell’enciclopedia on-line  ma soprattutto per punirmi ho lasciato loro una donazione (piccola).

Aggiorno quanti non hanno più in casa ragazzi frequentanti la scuola dell’obbligo: ora la storia si studia in una successione che va dalla terza elementare alla terza media. In sintesi, i bambini finiscono le elementari e ignorano non dico chi sia stato Napoleone, ma anche Carlo Magno e persino Garibaldi. Il Medioevo, ad esempio, si studia solo in prima media: questa assurdità si deve alla riforma dell’allora ministra Moratti, poi dimenticabile sindaco di Milano.

Se fosse in mio potere, prendetela pure come poca stima per il ceto politico emerso dopo la caduta del mai troppo poco rimpianto muro, cancellerei con un deciso colpo di spugna tutte le leggi partorite dal 1994 in poi, negli anni della cosiddetta seconda repubblica , a prescindere dal colore e orientamento dell’estensore; anzi cancellerei  in toto la seconda repubblica e riporterei  la situazione allo status quo ante, in attesa di ripartire dalla terza repubblica. Purtroppo non cambierebbe molto, perché percepisco una coscienza collettiva abbastanza corrotta e temo che in poco tempo saremmo punto e a capo; certo che quando si levano statisti del calibro di un Renzi, Verdini o Alfano, e prima di loro D’Alema, Berlusconi e Calderoli, e progettano  (minacciano) cambiamenti alla Costituzione scritta da De Gasperi, Nenni e Togliatti, sento prudermi dappertutto e specialmente dalle parti dei palmi delle mani.

Ammetto senza farne motivo di vanto di non essere un pozzo di scienza: non so niente di filosofia, di greco, di matematica, e di mille altre discipline classiche o scientifiche; essendo curioso di tutto non mi intendo veramente di nulla; faccio mille cose senza pretesa alcuna di padroneggiarne veramente una. Prendete la scrittura: ogni volta sono assalito da dubbi grammaticali, e mi chiedo se in quel dato periodo non sarebbe stato meglio usare un congiuntivo al posto del  condizionale. Risolvo da orecchiante: 9 su 10 va bene, ma non è sempre detto.

Sono un pigro esagitato, la mia anima se ne starebbe in panciolle sul divano con un bel libro giallo ed un bicchiere di vino:  convive però con un cervello che cento ne pensa e di conseguenza mi impedisce di concentrarmi su una sola stupidaggine alla volta. Fortunatamente questa modalità multitasking sembra attivarsi solo per le quisquilie; dev’essere una forma di sfogo che mi permette poi di dimostrare rigore, affidabilità e soprattutto modestia nelle cose serie; o semplicemente sprecando tante energie in cose futili mi trovo poi giocoforza a doverle centellinare per quelle utili. Anche la memoria è fatta a modo suo: mi capita ad esempio di ricordare benissimo delle notizie di gossip anche non recentissime, e di confondere invece eventi e personaggi storici famosi.

Sono un timido esibizionista: me ne starei volentieri in un cantuccio a farmi i fatti miei, e mi ritrovo alla ribalta negli ambienti più improbabili, tirato per la giacchetta solamente per il fatto di non aver più vergogna di parlare in un microfono. A tal proposito, non so se avete notato anche voi come spesso non siano i più meritevoli a primeggiare, ma quelli che hanno la faccia tosta di alzare il ditino e parlare in pubblico. Lo dico sempre ai ragazzi del teatro: vedrete che due belle uova in faccia oggi vi saranno utili domani. Se non altro una frittatina può sempre venir fuori.

(72. continua)

Nicole-Minetti

Privacy e cerbottana

Andare a scuola, un secolo fa, era un po’ diverso da oggi. Il passaggio dalle elementari alle medie era molto sentito perché innanzitutto si dismetteva il grembiule nero che ci aveva accompagnato per cinque anni; nonostante il sollievo provato, sono un sostenitore accanito del grembiule per i bambini delle elementari. Non c’è sfoggio di magliette firmate o vergogna per dei capi troppo lisi: un grembiulino nero per tutti, e via andare. Noto con rammarico che, nelle scuole dove ancora se ne fa uso, è stato abolito il fiocco.

Poi perché si passava dalle classi monosesso alle classi miste, cosa che per ragazzini in pieno travaglio ormonale era un bello shock. Sapete, allora andavano di moda le minigonne, e c’era già abbastanza carne scoperta: a nessuno sarebbe venuto in mente di andare a scuola con dei pantaloni bucati, se non per disattenzione. Anche i jeans, adesso che ci penso, non erano così diffusi: a quella aggressiva dell’indumento americano si preferiva un’eleganza low profile, da signori di campagna.

Gli zainetti non li avevamo; ci bastava una cartella, un po’ più grande di quella delle elementari ma sufficiente anche per la sostanziosa merenda, e alle superiori nemmeno quella: i libri, quei pochi che servivano, si portavano sottobraccio stretti da una cinghia.

Non eravamo connessi. Non esistevano i computer, se non in enormi stanzoni ubicati perlopiù in banche o grandissime industrie che dalla nostre parti scarseggiavano;  il telefono c’era ma uno squillo fuori orario era sempre accolto con trepidazione. “Niente nuove, buone nuove” era la massima che regolava le comunicazioni quando ci si allontanava dalla base.

Già non era frequente possedere una macchinetta fotografica, a quell’età, figurarsi usarla per autoscattarsi negli spogliatoi della palestra; a parte il valore estetico del soggetto, ci sarebbero voluti i soldi per far sviluppare i rullini, e se anche li avessimo avuti sarebbero finiti dall’unico fotografo del paese, Peppe de Sittì: non avremmo di certo potuto appellarci al segreto professionale per non fargli riferire ai nostri genitori della bravata.

Se aveste scritto un bigliettino e lo aveste sparato con la cerbottana ad un vostro amico magnificando che so, le poppe  della compagna di banco, o dileggiando le manie o tic di qualche professore, in caso di intercettazione non avreste trovato ne solidarietà ne comprensione.

Qualcuno ricorderà che nel 1984 uscì nelle sale il film omonimo, tratto dal libro profetico di Orwell; devo dire che assistendo alla sua visione in un cinema milanese, accanto all’allora futura moglie a mia insaputa, feci una delle più lunghe dormite della mia storia cinematografica. Seconda solo alla performance realizzata con Dune, sempre nello stesso anno, il 1984: lì ci ritrovammo a ronfare testa a testa, sognando vermoni e sperando che mangiassero regista, cast e troupe intera. C’era anche Sting, e come sbagliarsi: un praticante di sesso tantrico come lui non poteva mancare in un pippone di tal genere.

Oggi leggo di una classe, nel torinese, dove ventidue alunni delle medie sono stati sospesi  perché sorpresi a fotografare con il telefonino i professori in aula e se stessi in palestra, per poi scambiarsi commenti più o meno offensivi  su Whatsapp, applicazione usata nella fattispecie come versione moderna della nostra cerbottana.

Alcuni genitori hanno preso le distanze da questa iniziativa. Non dei propri figli, no no: dei professori e della dirigente scolastica che hanno appioppato il provvedimento disciplinare. Per via della privacy, dicono: cioè quei professori non avevano nessun diritto di andare a sbirciare nei telefonini dei loro pargoletti.

A meno che quei genitori non siano tutti degli avvocati, e allora lodevolmente stiano cercando di educare i figli a cercare di individuare il cavillo nell’uovo ed al negare ogni evidenza, questa richiesta di rispetto del diritto alla riservatezza mi sembra eccessiva.

Voglio dire, fa un po’ ridere appellarsi alla privacy quando i loro figli, e magari loro stessi, mettono a nudo  sul Librofaccia ogni aspetto della loro personalità, e spesso non solo quella, comprese le foto fatte in palestra. Ci siamo consegnati volontariamente al Grande Fratello, inteso non esclusivamente come sagra televisiva dei guardoni, e stiamo lì a sindacare sulla privacy di quattro ragazzini brufolosi.

Secondo me, poi ognuno è libero di fare come crede, sarebbe meglio mandarli a scuola senza smartphone, i propri figli; ma se proprio ce li volete mandare, almeno non difendeteli se la cerbottana fa cilecca.

(71. continua)

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Poropom, poropom, poropompompompompom!

Questo post l’avevo scritto pensando a quando il 4 novembre era ancora festa nazionale… ma ero un pò in anticipo.

L'uomo che avrebbe voluto essere grave

Senza voler generalizzare, ma pochi inni nazionali rendono l’idea di un popolo come quello italiano. Pensate all’inno tedesco, Deutschland Deutschland uber alles: in sottofondo c’è un inquietante rumore di stivali e fucili. O la Marsigliese: ed ecco Marianna che sfida le baionette con la baguette sottobraccio.

L’inno italiano, che qualcuno derubrica a marcetta, inizia con “fratelli d’Italia”, scippato tra l’altro da un minuscolo partito politico di nostalgici senza nemmeno pagare copyright, ma raggiunge il suo culmine nelle geniali due battute di passaggio tra l’allegro marziale della strofa iniziale e l’allegro mosso delle strofe successive: poropom, poropom, poropompompompompom.

Lì risiede, piuttosto che nelle strofe risorgimentali, l’essenza italiana. Nel mutamento dal marziale in ballabile; dalla tragedia alla farsa. C’è la crisi? Poropom. Disoccupazione: poropom. Razzia della cosa pubblica: poropompompompompom!
Una collettiva alzata di spalle; un gigantesco “va bè, pensa alla salute”. Scurdammoce ‘o passato simm’é Napule (o di Como, o Roma, o…

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Titì nun ce lassà

Nella commedia “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” del grande Ettore Scola, il cialtrone Titino interpretato da un maiuscolo Nino Manfredi, dopo essere diventato persino stregone del villaggio, in dubbio tra il ritorno alla civiltà e l’appello rivoltogli dai membri della sua tribù (“Titì nun ce lassà”) sceglie la libertà: sale sulla sponda della nave e si tuffa verso il suo villaggio.

Rivendico il diritto di cambiare idea! Lo dice persino il nostro attuale ministro del tesoro a proposito dei limiti all’utilizzo del denaro contante, fino a ieri considerato sterco del demonio ed ora elevato  a motore di sviluppo; che dopo aver costretto tutti i pensionati ad aprire un conto corrente, anche quelli che non ne avrebbero avuto la minima intenzione, togliendogli il passatempo preferito di far la fila alle poste, ora si affermi che chiunque abbia un gruzzoletto sotto al materasso  lo possa spendere senza temere controllo alcuno sia giusto e sacrosanto mi conforta un po’; nel senso che, se come livello di cialtronaggine massima alla quale potevo aspirare c’era quello del buon Titino, la nuova vetta ministeriale per quanti sforzi potrò fare mi sarà irraggiungibile.

Credo di non essere stato l’unico ragazzo, a fronte di qualche rampogna o di qualche rimprovero ritenuto eccessivo o immeritato, ad immaginare di togliersi di mezzo per il gusto di vedere poi la reazione dei congiunti rimasti. “Vengo anch’io, no tu no”, insomma; come il buon Jannacci, immaginare di essere al proprio funerale per vedere l’effetto che fa. Fortunatamente soppesati i pro e contro, dove in cima alla lista dei contro c’è il fatto di non essere proprio sicuri di poter assistere in prima fila alla cerimonia, si finisce quasi sempre per desistere dal proposito.

L’ora delle decisioni irrevocabili, comunque, nel mio caso è passata da un pezzo ; se ormai persino i Papi possono dimettersi come un qualsiasi impiegato dell’Anas, non c’è scandalo se un povero cantastorie scrive di non voler scrivere più, per poi smentirsi il giorno dopo scrivendo di essersi pentito di aver scritto di non voler scrivere più.

Del resto come si fa a restare rintanati nel proprio orticello quando vengono messi a repentaglio i pilastri stessi sui quali si basa la propria cultura? Come non levare una parola indignata e pietosa in difesa del prelibato ciauscolo (o ciavuscolo, o ciabuscolo, fate voi) minacciato di estinzione (Immagino un dialogo nei corridoi dell’Organizzazione mondiale della sanità. Due ricercatori si incontrano. -“Ciao Mike, tutto bene? Di che ti stai occupando ora?” -“Di Ebola” -“Grande! Che sfida! Bellissimo, siamo orgogliosi di voi!” -“Grazie John. E tu, di che ti occupi?” -“Io? Io… ehm..  di salami” -“Ah. Ciao, John”)? Come non preoccuparsi per la prossima apertura alle proteine degli insetti? A tal proposito non so bene quale sia la posizione dei vegani, che come saprete non sono esponenti di una razza aliena qua convenuti da una lontana galassia ma seguaci di una alimentazione esclusivamente vegetale; contenti loro, parafrasando il notoriamente tollerante presidente della Figc (non la federazione giovanile comunista, non c’è più: la federazione gioco calcio), anche se non credo che con tale dieta l’uomo avrebbe potuto raggiungere l’attuale livello evolutivo: molto probabilmente sarebbe rimasto a penzolare su delle liane sbucciando banane.

La mia posizione, pragmatica come al solito, è dunque simile a quella dello scrivano Bartleby : preferirei di no; a differenza di quello, tuttavia, in mancanza di meglio mi acconcerei probabilmente anche ad assaggiare larve, ma solo come estrema ratio.

Prevedo che, tra qualche anno, quando la nuova dieta proteica avrà preso piede, associazioni di ambientalisti si schiereranno contro gli allevamenti di larve; gruppi di animalisti apriranno le gabbie a nuvole di cavallette; allevatori bio protesteranno che i loro bacarozzi sono selezionati secondo le più severe regole Iso-9000.

Non credo che le rigide regole sanitarie odierne lo consentano ancora, ma ricordo con tenerezza quando, da piccolo, in casa nostra si faceva la “pista”. Non abitando in campagna, e non rientrando il maiale nel novero degli animali da compagnia, non era allevato da noi; una volta ammazzato, in modo meno misericordioso di quanto si faccia oggi, veniva tagliato in due e babbo ne portava a casa la metà, una “pacca”. Sul tavolo e credenza della cucina si allestivano gli strumenti, coltelli affilati, tritacarne; veniva in casa un esperto, il pistaiolo (lu pistarolu) che disossava la carcassa e sapeva quali pezzi usare per ciascun insaccato. Non mi dilungo sulle tecniche di macinatura, salatura e pepatura che ogni pistaiolo custodiva gelosamente: per queste dovrei rimandarvi al mio amico macellaio-sassofonista Walter ben più ferrato di me. Fatto sta che alla fine della magia il maiale era scomposto in pezzi che sarebbero bastati mesi e mesi. L’osso del prosciutto, ad esempio, lo si sarebbe ritrovato insieme ai fagioli (e alle cotiche nuove)  al capodanno successivo. Non ho idea del perché lo stesso insaccato abbia nomi diversi a seconda della locazione geografica: perché in un posto si chiami coppa quello che in un altro è lonza, ed in un posto soppressata quello che in un altro è coppa; so che sia io che i miei fratelli a ciauscolo, salame lardellato, coppa e lonza ci siamo diventati grandi; che se penso a casa penso a ciauscolo e mi mette tristezza pensare che, fosse pure tra cent’anni, a qualcuno pensando a casa possano venire in mente scarafoni e cavallette.

(70. boh vedremo)

Manfredi_Sordi