Vita quotidiana al tempo del coronavirus (LXXX)

Mercoledì 13 maggio

Cielo bigio, giornata scura, piovigginosa. Sembra che la terra voglia dirci: “ma che fase due, statevene in casa che si sta meglio senza di voi” e non gli si può dare tutti i torti dato che in questo periodo tutti i parametri di inquinamento sono migliorati in tutto il mondo: bellissime le immagine viste ieri di Mumbai, la città più inquinata dell’India, dove finalmente l’aria era limpida e per le strade passeggiavano perplesse delle scimmiette, grattandosi il didietro.

Oggi sono in vena di ricordi, ieri sera ho rivisto il bel film su Mia Martini, una delle cantanti che ho amato di più; sono già passati venticinque anni dalla scomparsa e già questo è motivo di tristezza. La sua carriera, sembra incredibile perfino pensarlo, negli anni ’80 si interruppe perché nell’ambiente si diceva che “portasse male”: cattiverie, bassezze, invidie, perfidie, tutte sotto il cappello impalpabile della  superstizione: “io non ci credo ma…” Soffrì molto, abbandonò per anni le scene, si isolò; ritornò, bravissima e inquieta, e finì per morire da sola in una villetta di un paesino vicino all’aeroporto di Malpensa.

Mi è tornato in mente quando alle superiori, nell’attesa tra la fine delle lezioni ed il treno che mi avrebbe riportato quasi a casa, perché dovevo poi prendere ancora un bus, facevo una passeggiata di un paio di chilometri, sempre lo stesso giro perché non è che fossimo in una metropoli, e spesso sotto un portico incontravo sempre gli stessi quattro che facevano l’autostop, di cui uno era un mio compagno di classe. Dopo un po’ questi cominciarono a dire che io gli portavo sfortuna; io all’inizio scherzavo, poi cominciai a prenderli in giro dicendo che la colpa era solo loro se non li caricavano, primo perché erano brutti e secondo perché erano in quattro ma visto che questi continuavano mi toccò sistemarli. Presi da parte il mio compagno di classe e gli intimai di far smettere subito la storia, “perché, se no?” fu la risposta che del resto mi aspettavo. La settimana dopo, per pura combinazione, avevamo una partita di campionato, lui giocava nella squadra del capoluogo ed anche per quello se la tirava; in questi giorni ho letto che è uscito un libro del difensore della Juventus Giorgio Chiellini, che dice di provare verso alcuni avversari del vero e proprio odio; senza arrivare all’odio sicuramente quella squadra non la amavamo come nessuno tranne i propri tifosi ama la squadra di Chiellini e lo stesso Chiellini.

Si giocava in casa nostra, loro erano più forti di noi, ci difendevamo con le unghie ed i denti e tutto andò bene finché l’arbitro non ci fece una carognata e ci negò un rigore solare. Gli animi come è ovvio si scaldarono, spintoni e accenni di scazzottate; il nostro allenatore fu espulso; nell’azione seguente il mio compagno di classe che giocava in difesa provò a venire in avanti anche lui, ma nella nostra area non ci arrivò mai perché un mio compagno di squadra gli ruppe una gamba. Detto così pare brutale, io ancora oggi sono sicuro che fu uno scontro casuale, ma così non la pensò il mio compagno di classe.  Da allora di jella non si parlò più.

Un altro ricordo, più dolce, mi riporta al luglio 2001 quando i mie amici decisero di rievocare i venticinque anni dalla fondazione della nostra orchestrina e mi convocarono; io non toccavo più il basso da una decina d’anni e dovetti mettermi sotto seriamente a studiare, le mani non si muovevano più, i polpastrelli avevano perso i calli, anche nella lettura degli spartiti feci un po’ fatica perché avevo quasi dimenticato la chiave di basso; adesso si riesce persino a fare le prove collegati ognuno da casa propria ma allora facemmo tutto senza rete, riuscimmo a fare insieme solo una prova… Fu una bellissima serata, la piazza del paese era  strapiena con la gente che ballava sotto le logge che la delimitano (anche i miei genitori si fecero un paio di balletti) e fu una bella sorpresa anche per mia moglie e mio figlio, che non mi avevano mai visto suonare… uno dei pezzi più belli cantati dalla nostra cantante Antonina, che oggi purtroppo non c’è più neanche lei, fu proprio “Almeno tu nell’universo” di Mia Martini.  Ciao Antonina, e ciao Mia.

Amiche e amici, scusate se mi sono lasciato andare un po’ alla nostalgia ma è colpa del tempo, avrei dovuto rallegrarvi parlando del governo ma è andata così. A domani!

Mia-Martini-kfvC-U3170679065954ScD-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443

 

Però qualcosina per tirarci su ci vuole…

tumblr_inline_oskqwnsmGM1tvmbs1_1280

Vita quotidiana al tempo del coronavirus

Sabato sera io e mia moglie siamo stati a teatro a Milano, al Piccolo Teatro Strehler (non lo dico per tirarmela, è solo che ho un abbonamento pensionati _ anche se pensionati non lo siamo ancora, ma grazie ai buoni uffici di due amici ci siamo imbucati in un’associazione benemerita per risparmiare, e poi è comodissimo: andata e ritorno in pullman, posti prenotati… _). Sul pullman meno gente del solito, ed incredibilmente il baretto dove andiamo a prendere il panino prima dello spettacolo, di solito strapieno, era semivuoto e la gentilissima padrona è stata anche lì con noi a chiacchierare cinque minuti, quando normalmente non riesce ad alzare la testa dalla cassa. In sala qualche posto vuoto, ma nemmeno troppi: paura del contagio o dello spettacolo? “La tragedia del vendicatore” di Middleton, coevo di Shakespeare, non è leggerissima, anche se l’allestimento del regista Donnellan ha attualizzato la storia e l’ha “alleggerita”. La notizia della chiusura dei teatri, il giorno dopo, è stata dolorosa anche se non inaspettata.

Ieri siamo andati a fare una bella passeggiata sul lago. La giornata era calda, primaverile, era davvero un peccato rimanere in casa. Di solito scendiamo a Como con il bus, ma stavolta siamo andati in macchina, per ridurre al minimo i contatti: in giro meno gente del solito, meno confusione, ma non il deserto che temevamo: famiglie, innamorati, nonni e nipotini, turisti… gente che fa jogging, che va in bicicletta, in monopattino… ma al bar no, non ci fermiamo: siamo sicuri che li lavino proprio bene i bicchieri? E quello che starnutisce lì, stiamogli un po’ alla larga… ad un certo punto un raggio di sole mi entra e nel naso e fa starnutire me: quasi quasi mi viene da scusarmi, tranquillizzare i vicini, tutto ok ragazzi, è solo il sole…

Ieri pomeriggio mio figlio è venuto a Milano, per incontrare la sua compagnia di amici. Le raccomandazioni che si è dovuto subire erano più adatte ad una partenza per la guerra che per un viaggetto a quaranta chilometri, ma tant’è; poi una volta partito continuavamo a chiederci: con chi andrà? Ma gli amici li conosci? Non è che ce n’è qualcuno di Lodi? Ieri sera è tornato a casa sano e salvo ma un po’ confuso: la società di co-working di Cormano dove lui e i suoi soci hanno preso gli uffici per la loro azienda di grafica ha deciso di chiudere gli spazi per una settimana.

Stamattina sono andato al lavoro. Ho preso il mio trenino pendolari, semi vuoto, poi la metropolitana con addirittura qualche sedile libero. Qualcuno si protegge naso e bocca con la mascherina; qualcuno (come me, che le mascherine non le ho comprate, ma dicono che non si trovino nemmeno a pagarle a peso d’oro) con la sciarpa. Lo so, non serve a niente, se non come invito a starmi lontano.
Rinviati eventi sportivi, chiuse scuole, asili, musei, teatri, addirittura le chiese: i luoghi di socialità, come dice il sindaco di Milano.
Il badge per entrare era disabilitato. L’hanno fatto per tutti gli “esterni”, per tutti quelli cioè che non sono dipendenti, anche quelli, come me, lavorano in questo posto da quasi venti anni; ci sottopongono un questionario dove si dichiara di non essere stati, negli ultimi 15 giorni, in uno dei paesi infetti; passato il controllo salgo al piano dove, delle oltre duecento persone che affollano lo stanzone, ne è presente una decina. Quasi tutte le società (i “fornitori”) infatti hanno invitato i loro dipendenti a rimanere a casa e lavorare se possibile da lì: solo chi non ha il collegamento o ha motivi eccezionali può lavorare in loco. Io in realtà di motivi eccezionali non ne avrei, se non quello abbastanza nobile che se non lavoro non mi pagano: per oggi va così, domani vedremo, se mi danno la linea, le autorizzazioni, bene, se no rimarrò a casa a scrivere qualche puntata di Olena…

Comincio a sentire i colleghi sparsi per l’Italia, è un po’ dappertutto così, chi può lavora da casa, tanti uffici sono chiusi, porte sbarrate…

E mi è venuto un sospetto: ma questo virus non sarà stato creato apposta per non farci più muovere da casa? E’ comodo un popolo che non si possa riunire, incontrare, confrontare… E’ solo il preludio di quello che ci aspetterà da qui a venire, ogni volta che scoppierà una nuova influenza? Sembra che il mondo sia davvero diventato troppo piccolo: da villaggio globale a lazzaretto globale è un attimo…

Comunque, ridendo e scherzando, si è fatta l’ora di pranzo: la mensa ed i bar interni sono chiusi; mangiare i toast delle macchinette è contrario ai miei precetti religiosi: quattro passi fuori c’è il mercato comunale e mi prendo un bel panino alla bresaola (con le ultime due fette di pane rimaste!) ed una birretta Ichnusa; una chiacchiera al cioccolato e due tortelli che domani è carnevale… seduto su una panchina al sole, di rientrare non ho proprio voglia, che faccio? Torno a lavorare o me ne vado a casa?

SH_chiacchiere_al_cioccolato-1024x683

E sessanta sono andati…

Secondo l’Istat dovrei avere diritto, salvo imprevisti, a campare ancora una venticinquina di anni, dopodiché tutto quello che verrà in più sarà grasso che cola; se dovessi arrivarci in buona salute probabilmente non sarei contentissimo di dar ragione alle statistiche e cercherei di tirar dritto ma per ora il discorso, almeno quello, è prematuro.

IMG-20191019-WA0038

Il piccolo Coro mi ha dedicato una canzone sulle note di “Azzurro”. Sono soddisfazioni.

La festa è stata organizzata dalla santa donna di mia moglie, ed eravamo una settantina: amici e parenti vicini, perché quelli lontani mi sembrava brutto scomodarli per un semplice compleanno. Magari con loro festeggerò i settanta.

Il buffet era decisamente sovradimensionato: questo mi ha permesso di salvare metà dei ciauscoli portati dal paesello, e tutti i formaggi della Valtellina: grandi pizzoccherate in arrivo! E’ avanzata così tanta roba che ho dovuto regalarla agli scout: i quali mi hanno ringraziato sgonfiando i palloncini e respirando l’elio per fare le vocine.

Dopo i brindisi (che hanno duramente intaccato la mia cantina) i cin cin e gli eia eia i branca branca leon leon leon, la serata è continuata con il karaoke! Ho visto il terrore dipingersi sul volto di parecchi dei convenuti alla vista del proiettore: temevano di doversi sorbire la visione delle diapositive di me che fa il bagnetto, di me che perde il primo dentino, via via fino all’ecografia della recente visita urologica. Tutto questo è stato loro risparmiato, così quando hanno visto il microfono invece di abbandonare la serata con una scusa qualsiasi si sono accomodati tirando un sospiro di sollievo.

IMG-20191020-WA0004

Sto autografando una copia di “Ferragosto con Olena” che ho messo in vendita per coprire le spese del banchetto per beneficenza. La sedia non so perché me l’avevano tolta. Dietro al microfono una fan entusiasta.

E vai di Nomadi, Battisti, Pooh, Baglioni ed altra roba vecchia! Perfino 44 gatti in fila per 3 col resto di 2 abbiamo riesumato. I più giovani hanno chiesto qualcosa di meno stagionato ma io ho fatto come quando si giocava a pallone da bambini e chi portava il pallone comandava: la festa è mia e la musica la decido io! Democraticamente, amichevolmente.

Tra l’altro, ho eseguito una pregevole versione di Unchained Melody facendo piangere mia moglie, non so se di commozione o di preoccupazione pensando all’inferno che sarà la sua vecchiaia; e con il consolidato duo dei “Vianella” abbiamo proposto un “Semo gente de borgata”  molto verosimile, grazie agli accenti umbro-marchigiani che ben ricordano il romanesco.

Letizia e allegria! Essendomi dimenticato di allegare all’invito “non fiori ma opere di bene”, ho ricevuto un sacco di regali:

  • vino, tanto;
  • libri, tanti;
  • cravatte, tante;
  • 3 menu degustazione in noti ristoranti ed enoteche del circondario;
  • una penna con scheda usb ma finora non sono riuscito a capire dove si trova la scheda usb;
  • un kit per la cura della persona (anti-invecchiamento, mi sembra un po’ chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, ma proviamo pure);
  • un porta camicie da viaggio.

Se a breve troverete qualche articolo simile in vendita su e-bay sappiate che è solo una coincidenza.
IMG-20191019-WA0039

La fronte spaziosa indica intelligenza e saggezza. E spiega anche perché a Lisbona ho messo il foulard in testa. Alle spalle un ideogramma cinese di cui ignoro il significato.

Per ogni evenienza erano presenti due medici, una infermiera, un volontario della Croce Rossa e due preti: non si sa mai. Uno dei due volendo dedicarmi un pensiero gentile ha citato tra lo sgomento generale una frase (secondo me apocrifa) di Jean Vanier, che a sua detta avrebbe magnificato i sessanta anni come età migliore e più feconda per l’uomo. Mah.

9788839931832_0_0_771_75

Nella foto in evidenza san Giomag predica agli affamati

Foulard da uomo?

Dal blog lassassinoilmaggiordomo della deliziosa ma letale Mrs. White sono stato informato che potrebbe diffondersi la pericolosa moda del foulard per uomo. Il fazzoletto, insomma, che con tanta grazia indossava Audrey Hepburn in Vacanze Romane, e con il quale le nostre nonne si coprivano il capo in chiesa.

A proposito di nonne le ricerche fatte mi hanno portato a scoprire che l’accessorio in questione si chiamerebbe non a caso babushka, cosa che me lo renderebbe simpatico se non fosse che si tratta di un chiaro segnale della fine del mondo così come lo conosciamo.

Personalmente ho potuto apprezzare l’utilità del fazzolettone in una abbastanza recente vacanza in cui il sole picchiava e mi trovavo a corto di cappelli (e capelli): allego prova fotografica con la quale mi riservo di richiedere a questi stilisti il diritto d’autore.

WP_20160424_14_19_09_Pro

Come lacrime nella pioggia

Giovedì scorso, 25 aprile, lasciando casa dei miei genitori per tornare al “nord”, al lavoro, mia moglie ha incrociato mio padre, che si era alzato sentendo i rumori dei preparativi.
«Ciao Nino, noi stiamo andando» lo ha salutato. Lui l’ha guardata sorpreso, un po’ stranito, e le ha chiesto:
«E dove andate?» dispiaciuto che questa bella signora lo lasciasse.
«Torniamo a casa, a Como» ha spiegato mia moglie e lui, colpito, ha osservato:
«Ah, a Como? Io ho un figlio a Como…»

Mio padre è del ’28, ne ha passate parecchie come tanti della sua generazione, qualche storia ve l’ho raccontata: figlio di apolide, secondo di cinque figli, a 16 anni si ritrova in guerra dalla “parte sbagliata” ed al ritorno, dopo le peripezie della prigionia, scopre di essere rimasto pure orfano di padre. Ha cominciato a lavorare a 10 anni, una vita da artigiano, e con mia madre hanno formato una bella famiglia, con quattro figli, sette nipoti e (per ora) un bisnipote.
Un uomo forte, che non si è perso mai d’animo nelle difficoltà, che ha sempre anteposto la famiglia alle sue aspirazioni: tutto il suo impegno è sempre stato per il futuro dei figli, aiutandoci in tutti i modi quando c’era bisogno di lui.
Lo svelarsi della fragilità a cui l’età lo ha esposto è doloroso: senza mia madre sarebbe perso, ed è triste pensare che tutta la vita,tutti i ricordi, tutte le storie che adesso avrebbe potuto raccontare ai nipoti, se solo fossero stati disposti ad ascoltarlo, sono persi per sempre nei meandri della sua memoria.

Sono stato in casa sua tre giorni, ma non mi ha riconosciuto: sa di conoscermi, ma non chi sono: il Giorgio che ricorda lui è giovane, gioca a calcio con gli amici e suona in banda, prende il treno per andare a scuola e ogni tanto lo aiuta a bottega: ma questo signore gentile con i capelli brizzolati, che lo guarda con tenerezza e gli parla con rispetto e affetto, chi è?

il_vecchio_e_il_bambino

 

E’ lui o non è lui? Direi di si…

Qualcuno di voi forse ricorderà che l’anno scorso mi ero messo in testa di scoprire se il ragazzo ritratto in una foto che è da anni in casa dei miei genitori fosse davvero mio nonno:

E’ lui o non è lui?

E’ lui o non è lui? Potrebbe essere.

Considerando che la mia zia più anziana è nata nel ’26 ed il ragazzo dimostra 13-14 anni , se la foto fosse sua avrebbe dovuto essere stata scattata una decina di anni prima, dunque nel periodo della Prima Guerra Mondiale, o poco prima / poco dopo.

IMG-20170818-WA0020

La foto, purtroppo parecchio rovinata, mostra il ragazzo con una divisa di tipo coloniale in un accampamento di tipo militare, con in mano un moschetto con la baionetta innestata. Le ipotesi sono state varie, ma siccome mio padre nel passato aveva parlato di esploratore (ora non lo ricorda più molto bene, però) ho pensato di cercare tra gli scout. Certo ora noi pensiamo agli scout come a quei bravi ragazzi in pantaloncini che aiutano le vecchiette ad attraversare la strada ma, scavando scavando, mi si è aperto un mondo! Di seguito la risposta che ho ricevuto da una gentilissima signora del centro studi scout del CNGEI, Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani, l’associazione Scout laica più antica esistente in Italia (1913).

Egregio sig. …,
dalla divisa indossata da suo nonno, è possibile che sia stato iscritto al CNGEI.
Durante la Grande Guerra, moltissimi Esploratori vennero utilizzati dal Ministero della Guerra in “Servizi Ausiliari” e svolsero compiti di aiuto negli ospedali, di assistenza ai profughi, pattugliamento di linee ferroviarie, porta ordini, ecc.ecc., al posto degli uomini validi destinati a rinforzare le prime linee.
Furono organizzati parecchi corsi di preparazione di pronto soccorso e di tiro a segno con armi vere, il che giustificherebbe l’arma in mano a suo nonno.
Se desidera approfondire l’argomento, le suggerisco il libro “Gioventù Italiana e Grande Guerra – Il contributo dei Giovani Esploratori nell’ultima guerra per l’indipendenza” di G. Monetti e D. Bettale, Edizione TIPI, pubblicato in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale e rientrante nel Programma Ufficiale della sua commemorazione.
Cordialità.

img054

Ho preso il libro, come suggerito, ed è davvero molto interessante per capire qualcosa di quel periodo che sembra così lontano, ma in fondo sono passati solo cento anni…

img081

Qualcuno magari si chiederà come sia possibile che non si sappia con certezza se la foto è di mio nonno o no… bisogna tener presente che mio nonno è morto nel ’44 (era dalla parte “sbagliata”, aveva aderito alla RSI e faceva il portaordini, venne intercettato dai partigiani _ non ce n’erano molti di partigiani dalle nostre parti, ma quei pochi bastarono_ e non se ne seppe più niente), e che io sappia esiste solo un’altra sua foto, perché le foto si facevano solo per avvenimenti speciali _ e chi non aveva soldi ne faceva poche! _ quando già aveva tre figli (in tutto poi furono cinque nell’arco di 18 anni); la foto la custodiva mia nonna, ed entrò in casa nostra solo quando anche nonna morì… e purtroppo dietro la  foto, che è un ingrandimento (l’originale è perso) non ci sono indicazioni utili.

Insomma, nonno non si sa come arrivò e non si sa come se ne andò… una bella storia, magari un giorno mi metterò a scriverla.

 

Ode all’uomo grave

Credo di aver promesso, tempo fa, di non scrivere più poesie. Questa però è voluta uscire da sola e non ce l’ho fatta a fermarla, ci vuole pazienza.

Soffro, mi struggo, languo,
la gravità mi opprime
Fuoriesce come flatuo
spasmo di idea sublime.

Ingorgo nel cervello
so poche cose e male
si sfidano a duello
il prete ed il maiale.

Ne artista ne scienziato,
maestro di autocritica.
Meglio sarebbe stato
seguir la via politica

Fingere gran disprezzo
per soldi e per prebende
vendendomi a buon prezzo
al miglior offerente.

Vano e superficiale
perfetto per l’andazzo
sembra che sappia tutto
e invece non so un cazzo,

Nel secolo che aborro
sarei stato osannato
mascherato da Zorro
avrei fottuto e rubato.

Ma lo specchio mi richiama
son grave ma non troppo
coliche di coscienza
mi causano l’intoppo;

Ne dindi ne moldave,
l’encefalo va in blocco
non sarò forse grave
ma, alfin della licenza, tòcco.

giomag, 12 ottobre 2017

cyrano

Centodieci e lode! (Zappa e Martello)

Mia nonna di parte materna, Annunziata, era analfabeta. Era la seconda moglie di mio nonno, sostituta della prima morta di stenti in quei tempi grami, tempi di guerra, “matrigna” non certo per vocazione, per me fu la nonna più amorevole del mondo; trovata forse con un passaparola da un uomo come mio nonno che aveva senz’altro contribuito, con le sue assenze ma forse ancora di più con le sue presenze, a non rendere facile la vita della prima moglie: sai, Gaetano, ho sentito che a Pignà, Appignano, c’è questa signorina, sono tante sorelle, è una brava donna, non più giovanissima, farebbe proprio al caso tuo…

Quando ho fatto il militare, alla fine degli anni ’70, la cosa che più mi ha meravigliato è scoprire che ancora ci fossero, in Italia, dei ragazzi della mia età analfabeti. Gente che non aveva mai potuto andare a scuola; o gente che sapeva a malapena leggere e scrivere perché non aveva nemmeno concluso le elementari. Per loro c’erano le lezioni pomeridiane e per molti fu sicuramente l’ultima occasione per sedersi su dei banchi di scuola; andare sotto le armi aveva la sua utilità, a volte.

Mio nonno paterno Ernesto, ricordate Ciao Nì?, non l’ho mai conosciuto perché fu inghiottito dal buio del periodo finale della guerra civile: faceva il portaordini in bicicletta, si dice che fu ucciso dai partigiani; il corpo non venne mai trovato, ed a dire il vero dalle nostre parti distinguere i partigiani veri dai banditi non era sempre facile. Di lui rimane solo un ritratto, da adolescente in divisa da esploratore, ed il nome, che mio fratello ha ereditato. Doveva essere istruito, per quei tempi: orfano, era stato portato in Italia dall’Argentina da un prete, e aveva frequentato gli Artigianelli, l’istituto caritatevole di San Severino che accoglieva ragazzi poveri o abbandonati e li formava ai mestieri artigiani, appunto; il nome Amleto dato a mio padre deve essere farina del suo sacco. Questa formazione a dire il vero non gli servì a molto, dato che da apolide qual era lavorare, anche a quei tempi, non era per niente facile; e nemmeno sposarsi se è per quello, e perciò impossibilitato nel dare ai figli il proprio cognome. La cosa complicò abbastanza la vita a mio padre ed ai suoi fratelli, che dovettero aspettare la legge che consentisse ai figli “naturali” di vedersi assegnato il cognome delle madri; prima l’attribuzione era lasciata alla fantasia o alla pigrizia degli ufficiali di stato civile: a Napoli c’erano tanti Esposito, al mio paese andavano di moda gli ortaggi e le verdure.

Mio padre ha la licenza elementare. Dopo di quella, per i figli dei lavoratori che dovevano a loro volta diventare lavoratori, c’era la Scuola di Avviamento Professionale: in teoria obbligatoria, in pratica frequentata da chi non avesse bisogno di lavorare per mangiare. Lui di bisogno ne aveva, ed a dieci anni si ritrovò garzone di bottega di un fabbro; il suo compito era quello di “acciaccare” il carbone, cioè rompere i pezzi grandi in pezzi più piccoli in modo da poterli usare nella forgia, della quale poi doveva tirare il mantice per mantenere vivo il fuoco: come avviamento non c’era male. Babbo, l’ho detto più volte, è un uomo di un’inventiva speciale e di capacità straordinarie, nonché di straordinaria umanità; nel nostro paese gran parte delle ringhiere, recinzioni e cancelli sono state fatte da lui, e sa fare ogni tipo di lavoro, dal calarsi nei pozzi al saldare grondaie; una cosa è sicura: se dovessimo trovarci in una foresta lontano dalla civiltà, lui riuscirebbe a salvarsi, io col mio computerino ci farei ben poco.

Mia madre, di sette anni più giovane, rientrò nella riforma Bottai del ’40, e quindi potè frequentare la scuola media unificata; la guerra era appena finita, il mondo da ricostruire; al giorno d’oggi sarebbe diventata forse una politica, o una sindacalista, data la passione che metteva nel difendere le cause comuni e la curiosità che ha sempre avuto; forgiata forse dalle battaglie con la nuova mamma, che non si capacitava di come questa ragazzina continuasse a passare i momenti liberi leggendo libri e giornali (“Che ce fai co’ tutta ‘ssa cartaccia?”); a ottant’anni tiene tutti i nipoti, e specialmente quelli sparsi per l’Italia, simpaticamente sotto controllo grazie a Facebook, che a qualcosa in qualche caso serve.

Io mi sono diplomato perito capotecnico in Informatica. Ho appreso con commozione che ancora adesso i diplomati degli istituti tecnici si chiamano periti capotecnici, me l’ha rivelato un ragazzo a cui ho fatto un colloquio di assunzione poco tempo fa: l’avrei preso solo per quello ma il dirigente che doveva decidere ha preferito un laureato, scelta assurda per fare il programmatore secondo me, ed infatti se n’è pentito poco dopo, peggio per lui. Adesso mi dicono che la percentuale sia cambiata, ma all’epoca in tutto l’istituto ci saranno state una decina di ragazze, e venivano guardate come aliene (e di aliene avevano anche le fattezze, a essere sinceri); era il secondo anno in cui era stata istituita la specializzazione di informatica, e diciamo che la cosa nella vita lavorativa successiva mi favorì non poco.

A che pro, si chiederà chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, questo amarcord familiare? Per pura vanità, vantarmi di un fatto di cui solo in minima parte ho meriti, e peraltro solo di metà di quella minima parte, considerando l’apporto della consorte e della di lei famiglia: per dire che, a coronamento di una escalation secolare, mio figlio si è appena laureato e con una votazione di centodieci e lode.

“Vi ho messo le ali, ora volate!” diceva Omero, il santone musicista di cui vi ho raccontato, alle figlie dopo essersi ritirato nella sua grotta a Fiumicino, e averle lasciate abbastanza inguaiate anche se con le ali.

Perciò, figlio mio, adesso sta a te. A noi ci hai già fatto volare: spicca il volo, dai.

(91. continua)

corona-immagine-05

Noella

Che splendore! Giornata migliore per andare in gita non poteva esserci. Il sole brilla e il verde smeraldo della foresta spicca contro l’azzurro del cielo. Sul Nyiragongo c’è la solita nuvoletta, ma non vale la pena preoccuparsene, non pioverà.

Da tanto tempo pensavamo di andare, ma c’era sempre qualcosa di più importante da fare: Adelio, mio marito, è un architetto, ed ha sempre da fare tra il tirare su scuole, scavare pozzi, costruire ospedali… quassù, nel Kivu, se non ci fossero ad aiutarci questi italiani saremmo messi proprio male.

Adelio… mi ricordo la prima volta che lo vidi, ero una ragazzina, e di bianchi finora avevo visto solo le suore che ci insegnavano a leggere e scrivere. Quest’omone, con quelle mani grandi e grosse, mi faceva un po’ impressione. Carboncino, mi chiamava; pian piano abbiamo fatto amicizia, e a poco a poco ha iniziato a mancarmi il suo sorriso quando se ne ripartiva per quel paese così lontano, quell’Italia di cui mi parlava sempre come il più bello dei posti. Bè, se si sta così bene come dici, che vieni a fare qua? Gli chiedevo. Lui faceva una risata, e poi mi rispondeva: se no, come facevo a conoscerti?

Il giorno che mi chiese di sposarlo mi sentii schizzare il cuore in gola. Perché proprio io? Pensai. Mi metteva paura il pensiero di andar via dal mio paese. Ma lui mi rassicurò, come sapeva fare: non preoccuparti, vivremo un po’ qua e un po’ là, hanno bisogno di noi da tutte e due le parti…

Quando arrivai la prima volta in Italia mi sentii persa. Ero arrivata in aeroporto con il mio vestitino, non avevo idea del freddo che facesse là… mi venne da piangere, avrei voluto tornare subito a casa… poi Adelio mi portò a casa, sua mamma mi vide infreddolita e corse ad abbracciarmi: tra donne ci si capisce subito.

Ne è passato di tempo! Ora abbiamo tre bellissimi figli, Roberta, Samuele e Raffaella: quest’ultima, la più grande, stavolta non ci ha seguito, doveva rimanere a casa a studiare, le scuole in Italia sono molto migliori di quelle qua in Zaire. Non vedo l’ora di tornare ed abbracciarla, e stavolta per sempre… è dura, ma la famiglia ha bisogno di rimanere unita, e per fare avanti e indietro ci vuole il fisico! Largo ai giovani… tanti amici continueranno, gli daremo una mano come potremo. Certo che la situazione è sempre più difficile; l’anno scorso in Ruanda, appena oltre le montagne, è successo il finimondo…

Avrei voluto tornare subito dalla mia Raffaella, ma i bambini hanno insistito tanto: dai mamma non fare la musona! Ed eccoci qua, comodi (si fa per dire) nel nostro furgone scassato, dentro a questo magnifico parco naturale, il Virunga, per cercare di vedere questi famosi gorilla di montagna. Figurati se si faranno vedere da noi!, dico, per farli arrabbiare. C’è una bella atmosfera… siamo insieme a Luigi, Flavio, Michelangelo e Tarcisio, tutti volontari italiani e amici di Adelio da lungo tempo; si scherza sul fatto se siano più brutti i gorilla o più brutti i volontari. Dipende, dico io, e i bambini ridono.

Eccoli là! Una intera famiglia ci attraversa la strada! Quello davanti è il maschio, è enorme! Si gira appena verso di noi, ci da uno sguardo, si gratta il sedere e se ne va ondeggiando. Dietro lo seguono una femmina e due cuccioli, il più piccolo in groppa alla madre; mentre cammina le toglie i pidocchi dalla testa e se li mangia beatamente. Quello più grandicello dev’essere un maschio, cammina imitando il padre, è proprio buffo!

Di fronte a noi, in lontananza, scorgiamo una nuvola di polvere. Una jeep, senz’altro, ma dove vanno così veloci su queste strade, sono matti? Ci incrociamo, non riusciamo nemmeno a vederli tanto corrono. Dopo qualche metro li sentiamo inchiodare, far manovra e tornare verso di noi. Che vorranno, avranno bisogno di aiuto?

La jeep ci supera, si mette di traverso. Ma che fanno, per l’amor del Cielo! Scendono in due, vengono di corsa verso di noi, hanno in mano qualcosa… armi! Iniziano a sparare. Sono  impietrita, aiuto, non ho il coraggio di voltarmi. Luigi, che fai? Ha lasciato il volante, è pieno di sangue,  mi cade addosso. Urlo. Non sento più le gambe, non riesco a muovermi: Adelio salva i bambini! Adelio scende, è ferito, lo sento, urla di prendere tutto, di risparmiare almeno i bambini; poi gli spari. Gli spari.

Questo è successo, veramente, il 6 agosto del ’95, nel Parco Virunga, nell’ex-Zaire ora Repubblica Democratica del Congo. Furono massacrati suo marito Adelio ed i loro due bambini; i loro amici Luigi, Michelangelo e Tarcisio. Si salvarono solo Flavio, perché si finse morto, e Noella che colpita e coperta di sangue fu creduta anch’essa morta. Gli assassini non furono mai scoperti, ma forse neppure veramente cercati: gli scannamenti erano e sono ancora all’ordine del giorno.

Noella si riprese, lentamente: paralizzata dalla cintola in giù, senza milza, con un polmone collassato. Non ricordava nemmeno più di avere ancora un’altra figlia, tanto era lo shock subito.

Poi si riprese. A modo suo. Avrebbe potuto maledire Dio, maledire il suo destino, sfogare tutto il suo odio per chi gli aveva fatto tutto questo. Ne avrebbe avuto il diritto.

Invece no. E c’era un motivo. Noella non poteva permettersi di odiare: aveva troppo da fare.

“Li ho perdonati. Mi sono detta: il Signore ti ha sempre perdonata. Ho pensato a mio marito e ai miei bambini: ho ricevuto tanto, devo dare tanto. Potevo morire con mia sorella a dieci anni. Potevo finire bruciata in un incendio a Goma e invece sono ancora qui, con le mani, i piedi e le braccia coperti da ustioni ma viva. Che abbiano ucciso per odio o che abbiano ucciso per soldi, anche loro non sono tranquilli. Vorrei parlarci insieme solo per questo, perché so che sarebbe l’unico modo di restituirgli un po’ di pace.  Alzando la mia mano contro di loro, che otterrei? Sangue chiama sangue.”

Noella Baghora Chikuru Castiglioni ha fondato un’associazione, la Parsac Onluc, in memoria di suo marito e dei figli scomparsi; la sua missione è quella di soccorrere i bambini e le bambine più bisognosi del suo paese, gli orfani, i disabili, gli abbandonati; in venti anni tra enormi difficoltà è riuscita a portare a termine due progetti in diverse aree della RD del Congo, ed il terzo è in dirittura di arrivo.

Il suo motto è: “il poco per l’Italia è tanto per l’Africa”. E’ una di quelle persone di cui sono orgoglioso di essere amico.

(67. continua)

congo_uykan_T0

Però mi vuole bene. Manuale ad uso dei fratelli minori.

Come promesso, fornirò di seguito alcune avvertenze necessarie alla sopravvivenza dei fratelli minori. Qualche suggerimento l’avevo già sparso qua e la, se lo citerò è solo per completezza di informazione.

a) Cercate di non nascere a distanza regolare da vostro fratello.
Se vi ostinate a nascere a scaglioni di cinque anni, avrete una buona possibilità di incontrare sulla vostra strada gli stessi maestri del primo. Questi, con tutta la loro buona volontà, di fronte ad ogni vostra defaillance non potranno fare a meno di rimarcare: “eh, ma tuo fratello…”.

b) Non contate troppo sulla maturità di vostro fratello.
Specialmente se siete poppanti e avete un po’ di appetito. Cercate di non infastidirlo con pianti inopportuni, quando è alle prese con i primi compiti sul quaderno a quadretti. Potrebbe capitare che intinga il cucchiaino nel vino e ve lo faccia leccare. E’ comprensibile che trovandovi in bocca un liquido non consono lo bandiate per sempre dalla vostra vita: sarebbe un peccato.

c) Non crediate che solo perché vi ha fatto divertire col dindoló della catena ogni gioco sia buono.
Mio fratello minore era molto fiducioso. Giocavamo con una carriola di mio padre con delle grandi ruote con i raggi. Io spingevo e mio fratello sballonzolava sopra, piccolino, e se la rideva tutta. Ad un certo punto la carriola si inceppò, ed io cercavo di sbloccarla spingendo sulle stanghe. Spingi e spingi, mi ci volle un po’ per capire dove fosse l’intoppo. Al poverino era finito un piedino tra i raggi ma non osava piangere, per non interrompere il gioco; anzi, si domandava perplesso se non fosse proprio quello, il gioco. Comunque il piede è salvo ed anche l’affetto reciproco; in carriola non penso sia più salito, però.

d) Se vostro fratello ha fatto il militare non vuol dire che sia un generale.
Avevamo costruito una graziosa casettina su un albero, poco distante. Bande avverse di coetanei del mezzano perfidamente se ne erano appropriati; non essendo dignitoso che uno più grande partecipasse direttamente alla pugna, incitai mio fratello all’arrembaggio. Al primo assalto fu respinto, con perdite; facendo leva sull’onore, la famiglia e forse persino la patria lo rimandai all’attacco. Dove fu colpito da un bastone appuntito brandeggiato da un nemico spietato: solo per un miracolo da quel momento non divenne Ernesto il cecato. Grazie ai solerti angeli custodi di entrambi, se la cavò con qualche punto di sutura alla palpebra. La casetta rimase al nemico, ma poco dopo fu firmato un armistizio.

e) Se vostro fratello sa suonare non vuol dire che sappia anche ballare.
Sapete già tutto su questo punto, non mi dilungherei. Il succo è che se volete intraprendere la strada del boogie-woogie o del rock acrobatico dovete scegliere un partner meno infido, o meno scivoloso. Fra qualche mese comunque potrei sorprendervi (ma non anticipo niente).

f) Se vostro fratello guida la vespa, con o senza patente, non è necessario imitarlo.
Mia sorella, di solito con i piedi per terra, si mise in testa di voler imparare a guidare la vespa che come  ricorderete era stata lasciata in nostra eredità da uno zio emigrato per costruire automobili Fiat. Non Fca, Fiat. Quella vespa bisognava conoscerla: la frizione, ad esempio, staccava molto tardi, e bisognava farlo molto lentamente. Uno dei problemi era che mia sorella non riusciva a poggiare saldamente i piedi per terra; per questo babbo si accomodò sul sellino posteriore per equilibrarla e darle le istruzioni del caso. Da dietro sentimmo solo il “Piano!…” strozzato di mio padre; mia sorella non aveva idea di cosa volesse dire rilasciare una frizione, e tantomeno piano: la vespa disarcionò mio padre, e lei partì ad andatura sostenuta verso il suo primo viaggio in solitaria su mezzo motorizzato. Forse, e dico forse, se avesse guardato la strada invece di continuare a cercare la frizione, o il pedalino del freno posteriore, l’avventura sarebbe durata più a lungo: invece dritto per dritto alla prima (semi)curva si infilò nel fosso, con babbo corrente dietro. Grande ilarità degli astanti, non condivisa dai due protagonisti. Mia madre era al balcone del quarto piano e, se non udii male a causa della distanza, le sue parole non furono di elogio verso mio padre.

Penso di aver reso un servizio utile, ma nel caso occorrano altri consigli resto a disposizione: se vi siete sempre chiesti come mai vi sentiate soffocare alla vista dell’acqua, o perché affacciarvi dal balcone vi metta in ansia, chiedete a vostro fratello maggiore.

(63. continua)

Audrey-Hepburn-and-her-Vespa