Ringrazio Marco, antico compagno di giochi, classe, calcio, banda e orchestra, con cui nei lontani tempi delle medie disquisivamo di senologia (non sinologia, la cultura cinese non ci appassionava più di tanto), lavoro molto teorico che avrebbe avuto necessità di studi approfonditi e verifiche empiriche, attività quest’ultima che fummo in grado di portare avanti solo dopo qualche anno e che ancora si protrae, per avermi omaggiato, dopo la lettura di uno dei miei articoletti, del più ambito riconoscimento che possa meritare un cantastorie, il Premio Strega dei raccontatori (di balle): Có le pappole ce ‘ppicci lu fócu.
L’attestato può essere attribuito in modo affettuoso, e non dubito fosse questo l’intento del vecchio trombonista, o meno benevolo: nel primo caso immaginate un affabulatore che, solo con la magia dei suoi racconti, sia capace di far dimenticare il freddo invernale che filtra da finestre cadenti ad un nugolo di bambini stretto dinanzi ad un camino spento (pappole come invenzioni fantasiose e immaginifiche); nel secondo invece potreste raffigurarvi un tizio un po’ rosso in faccia, in mezzo ad una tavolata dove spiccano parecchi boccali vuoti, intestarsi imprese improbabili (pappole come vanterie imbarazzanti e moleste. Uno zio di secondo grado era detto Lu Pappoló, per il resto la famiglia è composta da gente affidabilissima).
Festeggio con questo il mio centesimo post! E so di qualcuno che li ha letti tutti, la qual cosa starebbe a significare che ne sa di me più di me stesso; aver raggiunto tale traguardo mi inorgoglisce ma mi lascia anche la consapevolezza di dover lasciar passare un’altra cinquantina d’anni prima di scriverne altri cento. La ricorrenza meriterebbe un numero speciale, del tipo: “the best of l’uomo che voleva diventare grave”, ma mi sarebbe servito l’aiuto come musa ispiratrice della cara Olena, che a suo tempo disdegnai, e dunque accontentatevi di quello che viene.
Nel 1970, quando ci trasferimmo dalla casetta del centro storico, di cui vi ho parlato, alle nuove case popolari, entrammo in un mondo di benessere paradisiaco. Eravamo in sei e passavamo da cucina, saletta e una camera, con lavandino e wc all’esterno dell’unico balconcino, a: cucina, saletta, TRE camere, due balconi e bagno (con vasca da bagno! e interno). Nella casa vecchia la visuale era da un lato sul cortile interno e dall’altro sui tetti circostanti: da qua, essendo al terzo piano, la vista arrivava fino alle lontane montagne, oltre che sui numerosi campi coltivati; da lì a poco avremmo anche avuto visuale sul nuovo campo sportivo, che il Comune costruì ad un centinaio di metri. Questo ci consentiva, muniti di binocolo, di assistere alle partite anche quando non avevamo voglia di uscire di casa.
Mi chiedo spesso come sia possibile che, quando eravamo più poveri, ogni paese (almeno dalle mie parti) avesse un Comune funzionante ed in grado di garantire tutti i servizi; che ci fosse un Ospedale (nel nostro c’era persino un reparto di geriatria apprezzatissimo); un ricovero per anziani; scuole e asili; che le strade fossero manutenute, si costruissero impianti sportivi, case popolari… le banche facevano il loro mestiere, che era quello di comprare e vendere soldi, le assicurazioni assicuravano. Ora, che ci gloriamo di far parte dei grandi del mondo, per andare in ospedale bisogna fare chilometri, i servizi vengono tutti privatizzati, le banche e le assicurazioni fanno tutto meno quello che dovrebbero fare, e i comuni non hanno più una lira nemmeno per piangere. A questo punto dovrei fare una tirata antiliberista ma non ho voglia di sprecare fiato, tanto come la penso lo sapete. La colpa è di quell’ometto con quella buffa voglia in testa e la sua perestrojka del menga.
Le case popolari venivano costruite senza impianto di riscaldamento; ci si arrangiava con delle stufe, noi ne avevamo una efficientissima a cherosene che, posta nel corridoio vicino al bagno, irradiava calore nelle vicinanze. Il cherosene, che forse i giovani conosceranno come combustibile per aerei, veniva venduto in taniche da 20 litri; si raccomandava di immettere il carburante nel serbatoio a caldaia spenta e fredda, per evitare di esser rosolati al flambé, ma il consiglio veniva spesso disatteso. Come fratello maggiore mi assumevo volentieri l’incombenza; confesso che avrei avuto timore nel far fare a mio figlio le stesse cose alla stessa età, cosa che la dice lunga su come i nostri genitori fossero ben più abili di noi nell’adempiere alle loro funzioni.
L’acqua calda era fornita da uno scaldabagno elettrico; la rete del gas non c’era ancora, e le cucine economiche venivano alimentate da bombole che in paese erano vendute da un paio di negozianti, che le consegnavano anche a domicilio. Le nostre case erano le prime a prevedere i garage per le auto, però non per tutti gli appartamenti e con entrate molto piccole: adatte alle utilitarie, che il popolo quelle poteva permettersi. Avevamo anche la cantina! E con questo, potevamo veramente considerarci dei signori: nemmeno parecchi di quelli con case di proprietà godevano di tanto lusso.
Mio padre costruì una altalena a regola d’arte, e la piazzò davanti alla casa; resistette parecchio tempo ed attirava tutti i bambini del circondario, essendo anche più alta di quelle dei giardinetti pubblici; fu smantellata solo quando il comune decise di costruire il marciapiede rialzato. Adesso a meno di essere Christo Yavachev o Libeskind, per andare su attualità lacustri, l’allestimento non sarebbe più tollerato.
Dunque, dopo aver passato l’infanzia nella casetta incantata, qui passai l’adolescenza; non preoccupatevi, non ho intenzione di tediarvi con la descrizione delle altre mie case: il resto fra cinquant’anni.
(100. adesso o finisco o ricomincio da capo)
