Serenatone (alla perfida Albione)

Navigando per tutt’altri scopi mi sono imbattuto in questo documento storico. E’ una canzonetta nazionalista che non ho mai sentito, forse qualche superstite nostalgico la ricorderà; la riporto per curiosità, per dire come gli italiani la pensassero (o fossero stati portati a pensare, del resto in quei tempi pensare di testa propria era un po’ difficile, e si pagava caro) 76 anni fa a proposito della Gran Bretagna. Oggi, almeno a sentire i nostri mezzi di informazione, siamo più contenti noi che gli inglesi rimangano in Europa di loro stessi: a dir la verità io credo che il sentimento più diffuso sia quello di un sempre latente: me ne frego. Ignoro cosa sia il fringhete-nfrà, se qualcuno saprà illuminarmi lo ringrazio in anticipo. Comunque vada, God save the Queen.

I

Serenatone,
serenatone,
per la perfida Albione (ripete)
Con la musica speciale,
veramente originale,
che un’orchestra eccezionale,
per lei sola eseguirà…
Serenatone col fringhete-nfrà,
ogni strumento a sorpresa sarà!
Nella parte dei violini,
mine magnetiche e sottomarini,
ed al posto delle trombe,
bombe, bombe, bombe, bombe..
Il sassofono tenore,
lo farà l’incrociatore,
ed invece dei tamburi,
siluri, siluri, siluri,
in quantità!   (ripete)

II

Serenatone,
serenatone,
con la voce del cannone! (ripete)
Una musica perfetta
sostenuta e ben diretta
che al momento della stretta
con fragore esploderà
Serenatone col fringhete-nfrà,
tutta l’orchestra a sorpresa sarà!
Nella parte dei tromboni:
Savoia-Marchetti, Breda, Caproni,
ed al posto dei controbass,
mas, mas, mas, mas!
I clarini flicordatì,
li faranno i carri armati,
ed invece della grancass,
Stukas, Stukas, Stukas,
in quantità! (ripete)

Ritornello

Finalmente dall’Europa,
cacciata sarai a colpi dì scopa,
e diremo alla tua epa:
crepa crepa crepa crepa!
Son finiti con i fasti,
i famosi cinque pasti,
non ti resta che un mandrillo,
Ciurcillo, Ciurcillo,
e tutti quanti i Re,
che sono i garantiti
falliti insieme a te! (ripete)

Finalino

Serenatone,
serenatone,
per la perfida Albione!
Con la voce del cannone:
bum! bum! bum! bum!

(testo e musica di Rodolfo De Angelis – 1940)

byebye

 

Có le pappole ce ‘ppicci lu fócu

Ringrazio Marco, antico compagno di giochi, classe, calcio, banda e orchestra, con cui nei lontani tempi delle medie disquisivamo di senologia (non sinologia, la cultura cinese non ci appassionava più di tanto), lavoro molto teorico che avrebbe avuto necessità di studi approfonditi e verifiche empiriche, attività quest’ultima che fummo in grado di portare avanti solo dopo qualche anno e che ancora si protrae, per avermi omaggiato, dopo la lettura di uno dei miei articoletti, del più ambito riconoscimento che possa meritare un cantastorie, il Premio Strega dei raccontatori (di balle): Có le pappole ce ‘ppicci lu fócu.

L’attestato può essere attribuito in modo affettuoso, e non dubito fosse questo l’intento del vecchio trombonista, o meno benevolo: nel primo caso immaginate un affabulatore che, solo con la magia dei suoi racconti, sia capace di far dimenticare il freddo invernale che filtra da finestre cadenti ad un nugolo di bambini stretto dinanzi ad un camino spento (pappole come invenzioni fantasiose e immaginifiche); nel secondo invece potreste raffigurarvi un tizio un po’ rosso in faccia, in mezzo ad una tavolata dove spiccano parecchi boccali vuoti, intestarsi imprese improbabili (pappole come vanterie imbarazzanti e moleste. Uno zio di secondo grado era detto Lu Pappoló, per il resto la famiglia è composta da gente affidabilissima).

Festeggio con questo il mio centesimo post! E so di qualcuno che li ha letti tutti, la qual cosa starebbe a significare che ne sa di me più di me stesso; aver raggiunto tale traguardo mi inorgoglisce ma mi lascia anche la consapevolezza di dover lasciar passare un’altra cinquantina d’anni prima di scriverne altri cento. La ricorrenza meriterebbe un numero speciale, del tipo: “the best of l’uomo che voleva diventare grave”, ma mi sarebbe servito l’aiuto come musa ispiratrice della cara Olena, che a suo tempo disdegnai, e dunque accontentatevi di quello che viene.

Nel 1970, quando ci trasferimmo dalla casetta del centro storico, di cui vi ho parlato, alle nuove case popolari, entrammo in un mondo di benessere paradisiaco. Eravamo in sei e passavamo da cucina, saletta e una camera, con lavandino e wc all’esterno dell’unico balconcino, a: cucina, saletta, TRE camere, due balconi e bagno (con vasca da bagno! e interno). Nella casa vecchia la visuale era da un lato sul cortile interno e dall’altro sui tetti circostanti: da qua, essendo al terzo piano, la vista arrivava fino alle lontane montagne, oltre che sui numerosi campi coltivati; da lì a poco avremmo anche avuto visuale sul nuovo campo sportivo, che il Comune costruì ad un centinaio di metri. Questo ci consentiva, muniti di binocolo, di assistere alle partite anche quando non avevamo voglia di uscire di casa.

Mi chiedo spesso come sia possibile che, quando eravamo più poveri, ogni paese (almeno dalle mie parti) avesse un Comune funzionante ed in grado di garantire tutti i servizi; che ci fosse un Ospedale (nel nostro c’era persino un reparto di geriatria apprezzatissimo); un ricovero per anziani; scuole e asili; che le strade fossero manutenute, si costruissero impianti sportivi, case popolari… le banche facevano il loro mestiere, che era quello di comprare e vendere soldi, le assicurazioni assicuravano. Ora, che ci gloriamo di far parte dei grandi del mondo, per andare in ospedale bisogna fare chilometri, i servizi vengono tutti privatizzati, le banche e le assicurazioni fanno tutto meno quello che dovrebbero fare, e i comuni non hanno più una lira nemmeno per piangere. A questo punto dovrei fare una tirata antiliberista ma non ho voglia di sprecare fiato, tanto come la penso lo sapete. La colpa è di quell’ometto con quella buffa voglia in testa e la sua perestrojka del menga.

Le case popolari venivano costruite senza impianto di riscaldamento; ci si arrangiava con delle stufe, noi ne avevamo una efficientissima a cherosene che, posta nel corridoio vicino al bagno, irradiava calore nelle vicinanze. Il cherosene, che forse i giovani conosceranno come combustibile per aerei, veniva venduto in taniche da 20 litri; si raccomandava di immettere il carburante nel serbatoio a caldaia spenta e fredda, per evitare di esser rosolati al flambé, ma il consiglio veniva spesso disatteso. Come fratello maggiore mi assumevo volentieri l’incombenza; confesso che avrei avuto timore nel far fare a mio figlio le stesse cose alla stessa età, cosa che la dice lunga su come i nostri genitori fossero ben più abili di noi nell’adempiere alle loro funzioni.

L’acqua calda era fornita da uno scaldabagno elettrico; la rete del gas non c’era ancora, e le cucine economiche venivano alimentate da bombole che in paese erano vendute da un paio di negozianti, che le consegnavano anche a domicilio. Le nostre case erano le prime a prevedere i garage per le auto, però non per tutti gli appartamenti e con entrate molto piccole: adatte alle utilitarie, che il popolo quelle poteva permettersi. Avevamo anche la cantina! E con questo, potevamo veramente considerarci dei signori: nemmeno parecchi di quelli con case di proprietà godevano di tanto lusso.

Mio padre costruì una altalena a regola d’arte, e la piazzò davanti alla casa; resistette parecchio tempo ed attirava tutti i bambini del circondario, essendo anche più alta di quelle dei giardinetti pubblici; fu smantellata solo quando il comune decise di costruire il marciapiede rialzato. Adesso a meno di essere  Christo Yavachev o Libeskind, per andare su attualità lacustri, l’allestimento non sarebbe più tollerato.

Dunque, dopo aver passato l’infanzia nella casetta incantata, qui passai l’adolescenza; non preoccupatevi, non ho intenzione di tediarvi con la descrizione delle altre mie case: il resto fra cinquant’anni.

(100. adesso o finisco o ricomincio da capo)

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Una donna per amico

Nel secolo scorso era ritenuto disdicevole che una donna si proponesse ad un uomo come amica. Autorevoli correnti di pensiero escludevano che tra i due sessi potesse esistere contatto disinteressato; lo stesso Lucio Battisti, se vogliamo, già nel ’78 era costretto a maledirsi constatando che le sue buone intenzioni stavano vacillando.

Pur essendo un convinto sostenitore della suddetta teoria, con l’avanzare dell’età anche questa convinzione si è andata ammorbidendo; tuttavia non sono ancora nella condizione di non poter dare il cattivo esempio, perciò cerco di astenermi dal dare buoni consigli.

L’altro giorno, su Facebook, mi è arrivata la richiesta di amicizia di una sconosciuta. Una bella ragazza, all’apparenza. Dico all’apparenza, perché come sappiamo dietro qualsiasi profilo social potrebbe celarsi un’identità del tutto diversa da quella che si mostra; e così una procace modista venticinquenne olandese potrebbe in realtà rivelarsi un baffuto muratore sessantenne calabrese; niente di male se piace il genere, altrimenti alla prova dei fatti la sorpresa non sarebbe delle più divertenti.

Un mio carissimo ex-collega, denominato affettuosamente pendulino, ha una visione arcaica del rapporto uomo-donna. La concezione di molestia non lo tange; ci prova con tutte e indistintamente, belle o brutte, giovani o attempate, sposate o nubili; pratica la pesca a strascico piuttosto che la pesca all’amo, per chi è pratico di vermi.

Non essendo bello, almeno per i miei gusti, e non compensando questa sua carenza con un adeguato conto in banca, ad essere sinceri non è al top dell’indice di gradimento femminile; i gruppi di lavoro misti non gli si addicono, per la sua predisposizione a piazzarsi alle spalle delle colleghe dove tende ad ansimare affannosamente; anche i colleghi comunque non amano averlo alle spalle. Le segretarie, alle quali rivolge apprezzamenti non richiesti e scarsamente graditi, al suo apparire arricciano il naso in un sorrisetto di compatimento.

La signorina (almeno spero) che mi ha chiesto l’amicizia, mai vista prima in vita mia, apparentemente e al netto dei baffoni avrà avuto meno di trenta anni. Non ignoro che ci siano anche professioniste che utilizzano lo strumento per promuovere le proprie attività, d’altronde la pubblicità è l’anima del commercio. Ma, come direi ad un piazzista di Folletti Vorwerk che bussasse alla porta: la ringrazio, ma non ho bisogno di niente. Piuttosto la indirizzerei, se me lo richiedesse, verso l’amico pendulino, dove troverebbe senz’altro pane per i propri denti.

Ora, io non credo sia necessario avere una donna per amico; ma nemmeno come nemico però: e invece tutti i giorni ormai si sente di squilibrati che uccidono la moglie/compagna/fidanzata (più spesso ex, non essendo capaci di accettare non già la fine dell’amore o dell’affetto o della relazione, ma il semplice fatto di esser stato lasciato); non capisco perché se proprio vogliono ammazzare qualcuno non comincino da se stessi.

“Ho perso la testa”, ho sentito dire al disgraziato che ha ucciso la ex fidanzata e poi le ha dato fuoco (e c’è da sperare per la sventurata che l’ordine delle azioni sia stato veramente questo): per perderla avrebbe dovuto averla, ragionamento che non fa una grinza e sul quale si basano ordinamenti giuridici adottati in paesi non meno civili del nostro, come Cina e Stati Uniti, per affermare che di teste come quelle se ne può fare tranquillamente a meno.

La donna non si tocca nemmeno con un fiore: niente da fare, anche qua bisogna ripartire dai fondamentali.

(99. ad un passo dalla meta)

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Austerity!

Torniamo alle biciclettine rosse, che è meglio.

L’inverno 1973-1974 avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. I paesi mediorientali avevano deciso di chiudere i rubinetti del petrolio agli americani, come ritorsione per l’appoggio fornito agli israeliani nella guerra del Kippur; questo portò ad un aumento esagerato del prezzo del petrolio; e così i paesi europei, che in larga misura da quel petrolio dipendevano, si trovarono costretti a varare delle misure di contenimento dei consumi e degli sprechi: l’austerity.

Tra le varie misure prese, che comprendevano ad esempio lo spegnimento delle insegne commerciali e la fine anticipata dei programmi televisivi, quella che ricordo con più tenerezza fu quella di vietare assolutamente il traffico privato la domenica. Innanzitutto ci tengo a dire che quelle norme non furono la solita burletta all’italiana, del tipo: fatta la legge scoperto l’inganno. Potevano viaggiare solo i mezzi di trasporto pubblico e quelli di pubblica utilità (pompieri, polizia, ambulanze..) e le norme valevano anche per le autorità. I controlli erano capillari e le pene severe.

C’è da dire che per me e quasi tutti i miei amici cambiò poco: in paese grandi insegne luminose non ce n’erano e al cinema la sera non andavamo. Non abitando in pianura, la bicicletta d’inverno non era molto usata. Ma anche per gli adulti non cambiò granché: la società non era ancora completamente rimbambita dal consumismo; la domenica i negozi erano chiusi e non si andava in pellegrinaggio nei centri commerciali, che non esistevano nemmeno; i weekend erano roba da ricchi o da cittadini, da noi al massimo si poteva andare a fare delle scampagnate. L’automobile alla domenica serviva essenzialmente per andare a vedere la partita quando la squadra del paese, che allora militava in seconda categoria, giocava in trasferta.

La partenza di solito era organizzata così: ci si radunava in piazza alla sanfasò; si contavano le auto e ci si distribuiva in modo da ottimizzare il carico, riempiendole tutte fino al limite consentito, e si partiva in corteo. Car sharing, lo chiamano adesso. Questo in quell’inverno non si poteva fare: quindi i sostenitori si organizzavano affittando dei pullmann.

Certo i viaggi collettivi hanno tanti pregi ma anche qualche difetto: ricordo un ritorno da un paese di montagna, dove incautamente partii senza aver prima svuotato la vescica: vergognandomi di mostrare la mia debolezza e soprattutto la mia poca lungimiranza, sudai freddo tutto il tempo e la trattenni fino all’inverosimile finché, ormai rantolante, non dovetti cedere a pochi chilometri dal paese, implorando l’autista con voce appena udibile di fermarsi, che altrimenti gliela avrei fatta lì sopra.

Tornando a quelle antiche partite, non è che non ci fosse ogni tanto qualche scazzottata, ma l’impressione generale è che gli spettatori fossero meno esagitati di oggi: si ricorreva più all’ironia che all’insulto. Mio padre ad esempio non l’ho mai sentito insultare nessuno. Mio figlio non avrebbe potuto dire lo stesso di me, se solo mi avesse accompagnato in qualche partita, ma avrebbe dovuto nascere un po’ prima: infatti nell’ultima a cui ho assistito giocavano ancora Passarella e Altobelli ed il Como era in serie A, l’Inter schierava in porta Astutillo Malgioglio al posto di Walter Zenga ed io stetti tutta la partita sul chi vive per timore di essere coinvolto in qualche rissa, come mi era successo con un amico a Rimini in una gara di coppa Italia tra Rimini e Foggia, dove reputammo una buona idea metterci in curva con i suoi conterranei: invece proprio loro cominciarono non so perché a spintonarlo e si arrivò a scambiarsi delle sberle (più che altro a prenderle, le tecniche rudimentali di combattimento apprese nel corso ufficiali ci servirono a poco non avendo a disposizione un 40/70 Breda-Bofors, per chi è pratico di cannoni): smisero solo quando si qualificò insultandoli in dialetto: ma vafammokke a chi t’è stramurte!

Il mio fratello mezzano, dopo una promettente carriera da portiere, assecondando una vocazione autoritaria si iscrisse al corso arbitri. Severo ma giusto, raccontano le cronache: questo però non lo metteva al riparo da critiche di parte, che coinvolgevano spesso le comuni madre e sorella. Non avendo la patente, all’inizio lo accompagnava spesso nostro padre. Ho già accennato che mio padre ha iniziato a lavorare a dieci anni, a bottega da un fabbro: la mazza pesava quasi più di lui, per dire. Ha delle mani dure come il ferro, che non ha mai alzato su nessuno (fortunatamente); l’ho visto caricarsi in spalla un comò e portarlo in soffitta su una scala a pioli. E’ una persona mite, ma è meglio non rompergli le scatole, se intendete.

Dunque, durante una partita, un esagitato dagli spalti, in vicinanza della rete, si mise ad insultare l’arbitro, che incidentalmente era mio fratello; i ripetuti richiami alle prestazioni sessuali della sua, nonché mia, madre non furono graditi dal nostro genitore, che educatamente si avvicinò all’intemperante per chiedergli se effettivamente conoscesse la signora di cui decantava le lodi; alla risposta esageratamente affermativa capitò che a) il millantatore si ritrovò penzoloni, sorretto per la cinghia dei pantaloni ed il colletto della maglia, da un babbo comprensibilmente infastidito come potrebbe esserlo un gorilla al quale piombi addosso un bambino; b) l’ondeggiamento a cui fu sottoposto il buzzurro faceva presagire un suo pronto ingresso in campo e non dall’ingresso principale; c) solo un accorato appello della tifoseria vicina convinse mio padre dal desistere nel proposito di farlo planare in campo come invasore solitario. L’arbitro non fu più menzionato.

Avviso: la parte seguente con le biciclette rosse non c’entra. Sono sproloqui nostalgici, fossi in voi li salterei.

A questo penso quando si parla di austerità… parola che in Europa abbiamo prostituito, come giustamente dice l’ex presidente uruguagio, una delle persone che più ammiro, Pepe Mujica. Austerità è sobrietà dei consumi e dei comportamenti; limitazione del superfluo (non del necessario!); è tener conto che perché ce ne sia per tutti, ognuno deve rinunciare a qualcosa.

Non è il taglio dei servizi e dei diritti per dare soldi alle banche; non è strozzare interi popoli per gli errori ed i latrocini dei loro governanti, che erano spesso complici di quelli che adesso si ergono a giudici; non è regalare soldi pubblici ai padroni che non creano posti di lavoro ma vogliono solo risparmiare sui contributi (poi le pensioni le pagherà Pantalone); non è mantenere l’economia in deflazione per far si che chi è indebitato non possa mai uscire dai debiti; non è ridurre la democrazia a carne di porco cercando scorciatoie elettorali o costituzionali  autoritarie. Per me, intendiamoci: non pretendo di aver ragione…

(98. continua – ancora due ed è fatta)

malgioglio