Il giorno che il mio secolo finì

A tanti ragazzi questo racconto non dirà nulla. E’ di un mondo che non hanno vissuto, conosciuto solo per sentito dire e che a stento riescono a collegare a quanto hanno intorno. E’ storia che non si studia a scuola perché troppo recente ma allo stesso tempo così lontana. A noi che c’eravamo  il mondo cambiò sotto gli occhi, così velocemente che quasi non ce ne accorgemmo. Capimmo più tardi che stava finendo una guerra, e i vincitori non avrebbero fatto prigionieri.

Il 19 agosto del 1991 io e mia moglie stavamo tornando dalla Spagna, con la nostra Volkswagen Polo verde senza aria condizionata che l’impianto costava troppo, dove avevamo passato le ferie estive con gran delizia. Avevamo percorso quasi 5.000 km, da Como a Gibilterra e ritorno; non eravamo mai stati in Spagna e ne avevamo approfittato, oltre che per goderci il mare, per andare un po’ a zonzo.

Appassionati di politica, ci eravamo imposti di non leggere giornali e non ascoltare radio; i cellulari non c’erano, perciò non c’era pericolo di essere rintracciati da pubblicità o cattive notizie. Una telefonatina a casa appena arrivati bastava e avanzava: niente nuove, buone nuove. L’Euro non esisteva, e ci eravamo portati da casa un mucchietto di pesetas e qualche travellers cheque: 100 pesetas valevano un po’ meno di 1200 lire.

La prima settimana la passammo a Lloret de Mar, di cui sento ancora nitidamente l’odore dell’aglio del gazpacho che, sudando durante il riposino pomeridiano dal momento che nemmeno la camera aveva l’aria condizionata, si spargeva nell’aria.

In Italia il presidente del consiglio era Giulio Andreotti, perno dell’alleanza di governo a cui era stata attribuita giornalisticamente la sigla CAF (Craxi-Andreotti-Forlani); presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il “picconatore”. Il presidente americano era George H.W. Bush, succeduto a Ronald Reagan; quello dell’Unione Sovietica era Gorbaciov, che con gli slogan perestrojka e glasnost stava cercando di introdurre delle riforme per rivitalizzare un sistema sclerotizzato che perdeva colpi e repubbliche per strada. Sul soglio pontificio sedeva Papa Wojtyla, polacco, il primo papa straniero dopo 455 anni.
Lo scudetto era stato vinto, per la prima e ultima volta nella sua storia, dalla Sampdoria allenata da Vujadin Boskov; il festival di Sanremo, presentato da un imbarazzante Andrea Occhipinti ed una sontuosa Edwige Fenech, era stato vinto da Riccardo Cocciante.

Di Barcellona ci impressionarono la quantità  di gru e di lavori edili che erano in corso. La città, in preparazione delle Olimpiadi che vi si sarebbero tenute l’anno successivo, stava letteralmente cambiando pelle. Non so perché, una delle cose che ci colpì di più furono i parcheggi sotterranei che permettevano praticamente di arrivare in macchina fino alla Cattedrale. Mia moglie si era beccata una congiuntivite leggendo con la faccia rivolta al sole; e siccome io facevo solo da passeggero non pagante l’avevo in pratica costretta a guidare con degli occhiali neri calzati sopra quelli da vista, lacrimando vistosamente.

Ad est la cortina di ferro si stava sgretolando: nell’89 era caduto il muro di Berlino; l’anno dopo la Germania si era riunificata; gli stati satellite Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia e Romania si erano staccati, quasi tutti pacificamente ma in alcuni casi, come quello rumeno, drammaticamente. Le Repubblichette Baltiche erano in fermento e non vedevano l’ora di lasciare l’Unione.
In Italia stavano arrivando, da marzo, migliaia di albanesi in cerca della “Merica”; epico lo sbarco dalla motonave Valona, dei 20.000 che vennero stipati nello stadio San Nicola di Bari.

A Cordoba visitammo la Mezquita, a Granada l’Alhambra, a Siviglia la Cattedrale, dove una simpatica gitana chiamandomi Moreno voleva leggermi la mano e intanto mi toccava il sedere nell’intento di sfilarmi il portafogli; a Gibilterra andammo a trovare le bertucce, abbastanza scontrosette per la verità.

L’anno prima eravamo stati in vacanza in Jugoslavia. Era la prima vera vacanza che facevamo dopo sposati, a basso costo: eravamo in un albergo in un paesino dell’Istria, che a parte quello non offriva nient’altro. Tutte le sere l’orchestrina suonava le stesse canzoni: La famiglia dei gobbon, Rolling on the river… anche lì girammo un po’, ma non di sera perché le strade buie non lo permettevano: l’isola di Krk attraversando il ponte di Tito, Lubiana, i laghi di Plitvice, le grotte di Postumia, Lipizza… avremmo voluto tornare anche l’anno dopo se non che ci fu un piccolo impedimento: la guerra. Slovenia e Croazia avevano dichiarato l’indipendenza dalla Federazione Jugoslava, e sui laghi di Plitvice passeggiavano i carrarmati.

Da Cordoba a Madrid, non c’era niente. Chilometri e chilometri senza vedere una casa, solo ogni tanto su delle collinette c’erano delle sagome di tori, che interpretai come pubblicità delle corride ma che più tardi scoprii essere pubblicità si, ma di un gruppo commerciale: il toro di Osborne. Arrivammo a Madrid che il termometro segnava 44°; ci fiondammo subito al Prado, che almeno lì dentro si stava freschi. La sera mangiammo la prima paella della nostra vita in Plaza Mayor; ad un certo punto scoppiò un temporale improvviso e ci fu un fuggi fuggi generale; io sarei stato tentato di approfittarne come la maggior parte degli avventori, ma la consorte mi richiamò all’ordine dicendomi: non facciamoci riconoscere. Come italiani, intendeva, anche se di solito non sono mica i portoghesi che entrano e escono senza pagare?

Finiti i giorni ed i soldi, ci accingemmo a tornare a casa. Passata la frontiera a Ventimiglia, mentre stavamo già pregustando il piatto di spaghetti che ci saremmo fatti appena arrivati a casa, più per abitudine che per altro accendemmo la radio. Apprendemmo così che in Russia alcuni autorevoli membri del governo avevano deciso che era arrivata l’ora di farla finita con Gorbaciov, l’avevano arrestato insieme a sua moglie Raissa nella dacia in Crimea dove si era recato a passare le ferie e si proponevano di ristabilire l’ordine costituito.
Ricordo che pensai, e non fui il solo: era ora! Sarà pure un Nobel per la Pace, ma ha fatto un gran casino!

E invece, nel giro di una settimana, crollò tutto. Il comunismo, ma in qualche modo anche la democrazia, e iniziò la grande rapina, in Russia come in Occidente. Tra qualche anno gli storici diranno se Gorbaciov è stato un idealista o un inetto; se Eltsin un liberale o un bandito; se Clinton è stato davvero meglio di Bush e se perfino papa Woytjla, contribuendo al crollo globale, abbia fatto davvero il bene dei cristiani. Quello che so io è che ci siamo distratti un attimo, e il secolo è finito.

 (117 – continua)

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Ossi

L’altra sera Luciana Littizzetto, la nota comica torinese, nella sua consueta rubrica su “Che tempo che fa” ci ha edotti sul risultato degli studi di alcuni ricercatori inglesi che, evidentemente non proprio oberati di lavoro, hanno mescolato le ossa di un uomo di Neanderthal e poi, nel rimetterle insieme, si sono accorti che ne avanzava una ed hanno pensato bene, come una carota in un pupazzo di neve, di infilarglielo da qualche parte. La prognosi degli studiosi, dopo ponderosi studi corroborati da numerose pinte di birra doppio malto, è stata: è un osso del cazzo.

Qui la simpatica cabarettista per amore di battuta ha voluto un po’ esagerare, cercando di spiegare il motivo per cui ora l’osso non lo abbiamo più mentre avrebbe fatto piuttosto comodo; il fatto è che, sebbene per qualche esemplare si faccia fatica ad  accettarlo, l’homo sapiens non discende dall’homo neanderthalensis ma si è sviluppato per suo conto. C’è anzi il fondato sospetto che la nostra specie, pur con l’appendice floscia, abbia sterminato gli abominevoli con l’osso, ma non ci sono ancora le prove scientifiche e per averne la certezza occorreranno ancora parecchie generazioni di ricercatori e soprattutto parecchie pinte di birra. Con questo ho dato fondo a tutte le mie nozioni di paleontologia, pertanto vi invito ad approfondire la questione a casa vostra, con calma.

Chiedo a chi conosce il mondo più di me: ma in Inghilterra, giacché gran parte di queste scoperte viene da lì, tengono dei dipartimenti di ricerca appositi per far felici i comici? Possibile dico io che dal 1829 ad oggi nessuno abbia fatto caso a questo ossetto e tutti quanti, non sapendo dove metterlo, l’abbiano appioppato a casaccio da qualche altra parte dello scheletro? Faccio fatica a crederlo.

A proposito di ossi, il nostro ministro del Lavoro, dei Voucher e delle cooperative si è distinto per una dichiarazione che una volta tanto condivido. Parliamo tanto dei centomila cervelli costretti ad emigrare: ma siamo proprio sicuri che siano tutti-tutti ‘sti gran cervelli? Non è che qualcuno di questi cervelloni era in quella stanzetta a cercare di incastrare l’osso, come un cubo di Rubik? Vorrei essere rassicurato sulla questione. L’altra parte del discorso, che condivido però solo in parte, è: d’accordo, quelli che vanno all’estero saranno sicuramente bravi, ma non è che chi rimane qua sia necessariamente un coglione. No, è vero, non necessariamente: è una libera scelta che specialmente gli ingegneri informatici, che ben conosco, abbracciano spesso.

Rivolgo un appello alle donne: Madri, impedite ai vostri figli di diventare ingegneri informatici! Piuttosto indirizzateli ad attività più oneste come lo spaccio di stupefacenti o il gioco d’azzardo, faranno meno danni! Sorelle, se avete un fratello che vuol diventare ingegnere informatico, fategli terra bruciata con le vostre amiche raccontandogli di quanto poco si lavi, di quanto ami rubarvi i vestiti e rimirarsi davanti allo specchio vestito da Barbie Principessa! Mogli, se inavvertitamente avete sposato un ingegnere informatico, evitate di perpetuarne la stirpe! Concupite e concepite, ma non con lui!

Mentre i nostri amici inglesi si trastullano con i loro ossetti, noi brandiremo l’osso che più ci piace: quello del prosciutto! Voglio chiudere con un’immagine che farà inumidire le ciglia ai cuori sensibili del secolo scorso: Capodanno, famiglia e parenti, bambini, fratelli e cugini, pentolone con fagioli, cotiche e osso di prosciutto, di quel prosciutto fatto in casa l’anno prima e arrivato alla fine giusto per l’occasione, quel prosciutto che ci aveva accompagnato in quasi tutte le giornate di scuola, altro che merendine, altro che pizzette: pane e salsiccia, pane e ciauscolo, pane e prosciutto…

Per essere felici non c’è bisogno di avere tante cose, o di sapere tante cose. Anche un osso può bastare, se è quello giusto e, soprattutto, se è usato bene.

(116. continua)

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Una ragazzata trasformatasi in tragedia

A Siracusa, Sicily, Italia, più di due mesi fa due ragazzi hanno dato fuoco, per gioco, ad un uomo, un anziano inerme di 80 anni, dentro la sua stessa abitazione. Nei giorni precedenti erano già entrati in casa e avevano fatto le prove: una volta lo avevano “solo” cosparso d’alcool, un’altra gli avevano bruciato i lobi delle orecchie. La squadra mobile ha indagato bene, ed ha acciuffato uno dei due subumani, appena maggiorenne, e individuato l’altro che ha le ore contate.

Sapete, mi piace ridere e scherzare, parlare del più e del meno, a proposito e spesso a sproposito. Ma di fronte a questi episodi, indice di un vuoto totale (cosa hanno in testa questi zombie e chi gliel’ha messo?) l’unico pensiero che mi viene in mente è uno sproposito: c’è bisogno di una guerra. La barbarie avanza a passi veloci, che almeno si faccia un pò di pulizia.

Mi chiedo perché ci prendiamo la briga di andare ad arrestare o bloccare quelli che vogliono andare a combattere in Siria. Vicino casa mia c’è un Centro Islamico, e proprio ieri è stato espulso uno dei frequentatori che sembra arruolasse o inneggiasse per l’Isis. Ma che vadano! Anzi, mandiamoci anche eroi come quei due minorati siracusani! Facciamo di più, paracadutiamoli direttamente sul luogo! Là non troverebbero vecchietti indifesi, però, ma tizi che le orecchie gliele taglierebbero e gliele farebbero mangiare, e sarebbe esattamente quello che meriterebbero.

E non mi si venga a rompere l’anima con il diritto, il pentimento o il carcere che serve al recupero! Buttate le chiavi, santoddio! E fateli faticare, ma a spaccare le pietre mica a fare il decoupage o la cucina etnica! Ma già, nel paese dei balocchi diranno che è stato uno scherzo finito male, che magari l’accendino è sfuggito di mano, o addirittura l’anziano si è suicidato… gli avvocati compariranno senza vergogna in televisione a chiedere comprensione, leggeranno una lettera di pentimento, i giornalisti chiederanno ai parenti del morto se perdonano, e poi ci saranno le attenuanti, il patteggiamento, la buona condotta… basta, perdio! Finiamola! Siamo un paese che dopo dieci anni ha già lasciato libero un uomo (?) che ne ha bruciato un altro… un limite lo vogliamo mettere o no?

Ma che limite ci può essere quando tutti i giorni ci viene inoculata la nostra piccola dose di barbarie? Nei comportamenti, nelle parole, sempre più aggressive, sprezzanti verso qualsiasi interlocutore… ieri ho sentito un deputato “progressista”, candidatosi alla guida della città di Roma, venendo sconfitto e a questo punto direi più che meritatamente, dare del “faccia di culo” ad un suo compagno di partito. Avrei voluto vedere se una cosa del genere fosse successa ai tempi di Giancarlo Pajetta: avrebbe tirato fuori la pistola. Ma non c’erano uomini lì? Ma un cazzotto non potevate darglielo? Almeno per togliersi la soddisfazione!

A proposito di limiti… oggi scadeva il mandato del presidente del Congo, Kabila. Questo non lo rispetterà, e bagno di sangue sarà. Ieri il papa ha esortato al dialogo, perché evidentemente le notizie che arrivano dai vescovi, molto coinvolti nei negoziati, non sono rassicuranti. Spero che basti, temo di no. Ecco, i due assassini possiamo mandarli anche laggiù, magari nel Kivu, a lavorare nelle miniere di coltan. Li accoglierebbero a braccia aperte, ne sono certo.

 

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La grande proletaria si è mossa

Sto studiando, per mio diletto, la storia della disoccupazione in Italia dall’unità ad oggi. Mi sono imbattuto in questo discorso di Giovanni Pascoli, del 1911, che conoscevo solo per il titolo ma non nel contenuto. Cercavamo la Quarta Sponda, per dare terra e lavoro ai nostri disoccupati costretti altrimenti alla miseria o ad emigrare e nel contempo, usando l’esercito come strumento, si formava un popolo. Ora per i popoli dell’altra parte del Mediterraneo la Quarta Sponda siamo diventati noi, e l’Impero Ottomano rialza la testa; la grande proletaria è una vecchia sfatta e i suoi figli fanno le battaglie su twitter. 

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La grande proletaria si è mossa

Giovanni Pascoli

1911

Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada. Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava.

Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!

Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano.

Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia.

Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti! come Garibaldi.

Si diceva: — Dante? Ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik!

I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o, appunto, ricordati come miracoli di fortuna e d’astuzia. Non erano più i vincitori di San Martino e di Calatafimi, gl’italiani: erano i vinti di Abba-Garima. Non avevano essi mai impugnato il fucile, puntata la lancia, rotata la sciabola: non sapevano maneggiare che il coltello.

Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre nazionalità.

Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.

Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie, coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore.

E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; e non saranno, al primo fallo d’un di loro, braccheggiati inseguiti accoppati tutti, come bestie feroci.

Veglieranno su loro le leggi alle quali diedero il loro voto. Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati.

Anche là è Roma.

E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa certa. SÌ: Romani. SÌ: fare e soffrire da forti. E sopra tutto ai popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può fare altrimenti, mediante la guerra, la pace.

— Ma che? — Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua meraviglia. — La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Qual risorgimento? Dalla vittoria d’un benefico popolo alleato aveva ottenuto Milano; da quella d’un altro, Venezia. In un momento che questi due alleati si battevano fieramente tra loro, ella aveva ghermito Roma. Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sè, era stata vinta da popoli neri e semineri E ora … —

Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.

Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per cielo.

Nessun’altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo. Che dico sforzo? Tutto è sembrato così agevole, senza urto e senza attrito di sorta! Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti principali, saldamente occupata. Due eserciti vi campeggiano in armi. O Tripoli, o Berenike, o Leptis Magna (non hanno diritto di porre il nome quelli che hanno disertato o distrutta la casa!), voi rivedete, dopo tanti secoli, i coloni dorici e le legioni romane!

Guardate in alto: vi sono anche le aquile!

Un altro popolo ai nostri giorni si rivelò a un tratto così. Dopo non molti anni che si veniva trasformando in silenzio, eccolo mettere per primo in azione tutte le moderne invenzioni e scoperte, le immense navi, i mostruosi cannoni, le mine e i siluri, la breve vanga delle trincee, e il tuo invisibile spirito, o Guglielmo Marconi, che scrive coi guizzi del fulmine; tutti i portati della nuova scienza e tutto il suo antico eroismo; e coi suoi soldatini …

O non sono chiamati soldatini anche i classiarii e i legionari d’Italia? Non ha l’Italia nuova in questa sua prima grande guerra messo in opera tutti gli ardimenti scientifici e tutta la sua antica storia? Non ha per prima battuto le ali e piovuto la morte sugli accampamenti nemici? Non ha, a non grande distanza dal promontorio Pulcro, rinnovato gli sbarchi di Roma? Non si è già trincerata inespugnabilmente, secondo l’arte militare dei progenitori, con fossa e vallo; per avanzare poi sicura e irresistibile?

Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti per tutto cercati e per tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni, al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e con le scuri abbattono, al solito, grandi selve.

Ma non sono le solite strade, che fanno per altrui: essi aprono la via alla marcia trionfale e redentrice d’Italia.

Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie. Stanno li sotto i rovesci d’acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone d’amore e ventura è spesso l’inno funebre che cantano a se stessi, gli eroi ventenni. Che dico eroi? Proletari, lavoratori, contadini.

Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant’anni del miracolo! I contadini che spesso furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lombardo-Veneto chiamavano loro imperatore l’imperatore d’Austria, e ciò quando l’imperio di Roma era nelle mani del dittatore ultimo, i contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue file … vedeteli!

È l’ora dell’insidia e del tradimento. La trincea è in qualche punto sorpassata. I nostri sono fucilati al petto e pugnalati a tergo. Sopraggiunge al galoppo vertiginoso una batteria appena appena sbarcata. La rivoltella in pugno, gli occhi schizzanti fuoco, anelanti sui cavalli sferzati e spronati a sangue, vengono … i contadini italiani. In tre minuti i cavalli sono staccati, gli affusti tolti, i cannoni appostati; e la tempesta di ferro e fuoco tuona formidabilmente.

Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sè, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. In cinquant’anni è parso che altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava.

Ebbene in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente, il suo destino.

Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e d’Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una espressione geografica.

E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca.

Non si chiami, questa, retorica. Invero nè là esistono classi nè qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto solo composta dei medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un’altra classe. Qual lotta dunque può essere che non sia contro sè stessa?

E lottiamo, dunque, bensì; ma sia la nostra lotta come quella che si vede là, della nostra Patria, per così dire, scelta, della nostra Patria, che vorrei dire in piccolo, se non dovessi aggiungere: no: in grande!

Lotta d’emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più ami la madre comune, che ne li rimerita con uguali gradi, premi, onori, e li avvolge morti nello stesso tricolore.

O voi che siete la più grande, la più bella, la più benefica scuola che abbia avuta nel cinquantennio l’Italia, armata ed esercito nostri!

Dicono che in codesta scuola s’insegna a oziare! E no: s’insegna a vigilar sempre. S’insegna a godere! E no: s’insegna a patire. S’insegna a essere crudeli a ogni incendio, a ogni inondazione, a ogni terremoto, a ogni peste, accorrono questi crudeli a fare da pompieri, da navicellai, da suore di carità, da governanti, da infermieri, da becchini. S’insegna a uccidere! S’insegna a morire.

Questa è la scuola che, oltre aver distribuito tanto alfabeto, ci ammaestra esemplarmente nell’umano esercizio del diritto e nell’eroico adempimento del dovere. Essa risponde ora a quelli che confondono l’aspirazione alla pace con la rassegnazione alla barbarie e alla servitù.

— Noi — dicono quei nostri maestri — che siamo l’Italia in armi, l’Italia al rischio, l’Italia. in guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.

Così risponde l’Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici Turchi e della loro benefica scimitarra; degli umani Beduini-Arabi che non usano violare e mutilare soltanto cadaveri; degli industriosi razziatori di negri e mercanti di schiavi.

Così risponde con un fatto di eroica e materna pietà, che ha virtù di simbolo. Il bersagliere, di quelli fulminati di fronte e pugnalati alle spalle, raccoglie di tra i cadaveri una bambina araba: la tiene con se nella trincea, la nutre, la copre, l’assicura. Tuonano le artiglierie. Sono il canto della cuna. Passano rombando le granate. La bambina è ben riparata, e le crede, chi sa? balocchi fragorosi e luminosi. Ella è salva: crescerà italiana, la figlia della guerra. O non è ella la barbarie, non decadente e turpe, ma vergine e selvaggia; la barbarie nuda famelica abbandonata? E colui che la salva e la nutre e la veste non è l’esercito nostro che ha l’armi micidiali e il cuore pio, che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita?

O esercito calunniato! Eppur tra lo sdegno e lo schifo, nel leggere le diffamazioni dei giornali stranieri, noi abbiamo sorriso! Chi non ha visto qualche volta i nostri bei ragazzi armati dividere la gamella e il pan di munizione con qualche vecchio povero? Chi non ha visto qualche volta uno dei nostri cari fanciulloni soldati con un bambino in collo? Chi non li ha visti accorrere a tutte le sventure, prestarsi a tutte le fatiche, affrontare tutti i pericoli per gli altri? Ora ecco che in pochi giorni sono divenuti masnadieri …

Sì: noi sorrideremmo se l’accusa, per quanto assurda, ma immonda, non toccasse ciò che abbiamo di più caro e di più sacro. Hanno detto, rivolgendosi al tuo esercito, turpi parole contro te, o pura o santa madre nostra Italia! Per quanto elle non giungano all’orlo della tua veste, noi non possiamo perdonare, o madre d’ogni umanità, o madre tanto forte quanto pia!

Noi ce ne ricorderemo. Ricorderemo che voi, o stranieri, avete voluto prestare i fermenti di barbarie che forse ancora brulicano nel vostro cuore, al popolo che con San Francesco rese più umano, se è lecito dirlo, persino Gesù Nazareno; che coi suoi soavi artisti fece dell’inaccessibile cielo una buona tiepida raccolta casa terrena piena d’amore; che col Beccaria abolì la tortura; che, quasi solo nel mondo, non ha più la pena di morte; che in Garibaldi ebbe un portentoso guerriero che odiava la guerra e preferiva la vanga alla spada e piangeva sul nemico vinto e sceso dal trono e perdonava al suo tortòre e non faceva distruggere un campo di grano, dove i nemici potevano nascondersi, perché il grano era quasi maturo e vicino a divenir pane.

O santi martiri nostri, o Pellico e Oroboni, o Tazzoli e Tito Speri, che vi faceste del duro carcere sotterraneo un tempio, e del patibolo un altare!

Ma noi sappiamo da che furono mosse le inique accuse. Da questo: l’esempio che aveva a restar unico, del Giappone, si era, dopo poco tempo rinnovato. Le opre de’ mondo erano, a suo tempo e luogo, soldatini formidabili. La grande Proletaria delle nazioni (laboriosa e popolosa questa dell’occidente appunto come quell’altra dell’oriente estremo) scendeva in campo, si mostrava, per mare per terra e per cielo, potenza tanto più forte quanto più semplice, più lavoratrice, più avvezza a soffrire che a godere, più consapevole del suo diritto conculcato, più ispirata dal sublime pensiero che ella, pur mo’ redenta, doveva a sua volta divenir redentrice.

Così l’Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile. Può (perdonate la bestemmia; ché in verità ella non può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l’impresa, essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella è e resterà, non può morir più una nazione in cui le madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi onore, in cui tutti i bambini delle scuole rompono per i feriti il loro salvadanaio, in cui (udite: è cosa accaduta in un borghetto qui presso: ai Conti) il più povero mezzaiuolo dei dintorni, che ha un figlio nelle trincee di Tripoli, dà ai cercatori della Patria i suoi unici due soldi: l’obolo che la Patria ha riposto nel suo seno, vicino al suo gran cuore, come inestimabile tesoro. I nostri feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e la vita impotente. No. Saranno quello che per la madre e per i fratelli è il figlio e fratello nato o fatto infelice. Saranno i careggiati, i meglio riguardati, i più amati. Essi ci ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni, di coscienza di noi, di gloria e vittoria, d’amore e concordia.

Non tenderanno la mano. La tenderemo noi a loro per averne una stretta che ci faccia bene al cuore. Non picchieranno alla porta. Le apriremo noi, a due battenti, le porte, per farli assidere al nostro focolare e alla nostra mensa, e udirne i semplici e magnifici racconti, e consacrare la nostra casa e i nostri figli a quella, che ci ispira ogni bene, ci tien lontani da ogni viltà, ci accompagna sempre, e non muta mai: alla Patria a cui quando si rende, e così volontieri, così giocondamente, così sorridenti, la vita che ci diede, ella, ella piange.

Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi, umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per ciò che non esisteva ancora!

Voi l’Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti.

Qual festa vi faranno i morti vincitori di S. Martino di Calatafimi! Il gigantesco Schiaffino, morto impugnando la bandiera dei Mille, come accoglierà i piccoli fucilieri dell’ 84° conquistatori della bandiera del Profeta! Ma non vi fermate troppo con loro; o bersaglieri di Homs coi bersaglieri di Palestro, o cavalleggeri di Tripoli coi cavalleggeri di Montebello. La vittoria rende felice anche i morti.

Andate a consolare i vinti! O Bianco, santa primizia della guerra, o Grazioli, o De Lutti, o marinai di Tripoli e Ben-Ghazi, consolate i morti di Lissa! O Bruchi, o Solaroli, o Granafei, o Faitini, o Flombert, o Orsi, o Bellini, o Silvatici, o trecento caduti in un’ora, consolate i morti di Custoza!

Oh! Non dimenticate i più dolorosi, e, se si può dire, anche più valorosi, morti di Amba Alage e Abba Garima. Sono, essi, gli ultimi martiri d’Italia: sono ancora sulla soglia. Abbracciate il maggior Toselli così degno di guidare un’avanzata audace su Ain-Zara! Baciate il maggior Galliano, così degno di difendere le trincee di Bu-Meliana e Sciara-Sciat!

O capitano Pietro Verri che nel momento più periglioso guidasti al contrattacco, fuori delle Trincee, i mozzi di sedici e diciassette anni, i ragazzi del nostro mare, o sublime capitan Verri, tu va direttamente a Caprera, va a narrar la cosa a Giuseppe Garibaldi. Ripeterà esso a te il tuo appello: Garibaldini del mare! E ti ricorderà che egli aveva il suo battaglione di speranzini, ragazzi raccolti per le strade, i quali a Velletri, divini fanciulli, lo salvarono.

Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l’Italia! L’Italia, cinquant’anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl’italiani.

 

Giovanni Pascoli

Che palle!

Il mio albero è molto ordinato. Lo sto guardando adesso, mentre scrivo, dal divano, ed è veramente ordinato. Mette paura da quanto è ordinato. Io sono stato interdetto dall’avvicinarmi all’allestimento, perché i miei accostamenti cromatici non sprizzano armonia e buon gusto. Metto palle a caso, per capirci, e possibilmente tutte quelle che trovo nello scatolone. Non vedo la necessità di effettuare un turn-over delle palline natalizie, si sono già riposate tutto l’anno, ma è il mister che decide la formazione.
Comunque non m’importa, tanto in fondo al mio cuoricino l’albero è rimasto un accessorio, un’usanza nordica, che da piccoli facevamo giusto per non farci mancare niente; le palline erano di vetro, delicatissime, e quelle nuove si compravano solo quando si rompevano quelle vecchie.

Abbiamo un nuovo governo. E’ uguale a quello di prima. Deve cambiare la nuova legge elettorale fatta da loro stessi appena pochi mesi fa e con la quale non abbiamo mai votato. Sarebbe meglio che i governi non si impicciassero di leggi elettorali e costituzionali, secondo me, ma pare essere lo sport preferito. Una dimenticabile ministra dell’istruzione di qualche anno fa sostiene che il popolo non mangia leggi elettorali. Ai tempi, un suo compagno di governo sosteneva che nemmeno con la cultura si mangia. Sarà mica che si sono già mangiato tutto?

Il presepio mette allegria. Uno dei momenti più belli, da bambini, era quando si usciva e si andava per campi, muniti di sporta di plastica non biodegradabile e coltellino, a raccogliere il muschio (il “vellutino”) per fare il prato. I personaggi erano tutti in gesso, mica in resina o in plastica: ognuno portava i segni delle mille battaglie combattute. Lo zampognaro aveva perso più di una volta la testa per la lavandaia; al soldato romano qualche barbaro aveva tagliato un braccio e lo aveva riattaccato approssimativamente.

Fino a qualche anno fa per il presepio usavo un bel tavolo, un metro per un metro, e ci mettevo sopra tutti i personaggi che avevo: grandi, piccoli, il deserto, il laghetto, le casette di montagna, animali, tanti animali.
E’ un segno dei tempi che un argomento che dovrebbe ispirare tenerezza come il presepio sia diventato motivo di lite. Quando mio figlio andava alle elementari ci fu una polemica perché una maestra, piena di zelo multiculturale, aveva sostituito in una canzoncina di Natale la parola “Gesù” con “virtù”, per non offendere la sensibilità dei musulmani, diceva lei (poi ha ritrattato). Secondo me, al netto della laicità della scuola ed altre correttezze politiche, è una sciocchezza non far sapere perché festeggiamo il Natale, se no sembra che lo facciamo solo per far felici i negozianti e Amazon.

Quando ero piccolo io i musulmani non esistevano. Perlomeno non in Italia.
Sapevamo che vivevano da qualche parte tra Turchia, Marocco (che tutto il nordafrica era Marocco) e Arabia Saudita, ma ignoravamo che ce ne fossero di diversi tipi, molto litigiosi tra di loro peraltro. Sunniti e Sciiti? Già avevamo difficoltà a capire le differenze tra Cattolici e Protestanti, figurarsi. I Buddisti se ne stavano in Tibet; i Confuciani in Cina. Che poi anche il Tibet è in Cina, anche se loro non vorrebbero. Gli Indu stavano in India e adoravano le loro vacche sacre e magre. Poi c’erano quelli che pensavano che le religioni fossero l’oppio dei popoli e forse avevano ragione, ma purtroppo si sono estinti e sono diventati liberali(sti).

Mezzo secolo fa, a scuola i personaggi li facevamo con il Pongo; prima si costruiva l’impalcatura, l’anima, con il fil di ferro, che poi si rivestiva con gli strati necessari di materiale colorato. Vi ho già raccontato di quell’anno che i pupazzi furono vandalizzati da due antesignani dell’Isis, e della dura punizione che li colpì. Ora molto probabilmente i genitori avrebbero denunciato i maestri o meglio ancora avrebbero picchiato il maestro, non il proprio figlio, come successo non più di un mese fa a Palermo ad un professore che aveva osato rimproverare il loro pargoletto.

A leggere certi illustri commentatori de “La Repubblica” sembra che tutti i sostenitori del Si siano dei fini costituzionalisti, e quelli del No degli emeriti coglioni. Respingo questa accusa: non sono emerito!

Anno dopo anno il mio presepio si è ridimensionato. Il tavolo è stato venduto, lo spazio man mano si restringeva così come il tempo che mi veniva concesso per il progetto. Quest’anno si è dovuto rifugiare in una mensola della libreria di mio figlio, 30 x 50: minimalista, con sette personaggi sette e zero animali. Con un piccolo colpo di stato sono stato esautorato anche da questa realizzazione, che ha preso vita con due ore di lavoro al posto dei giorni che ci dedicavo io e soprattutto senza lasciare segatura o sassolini in giro. Le decine di pupazzetti che avrei usato affastellandoli uno sull’altro sono rimaste a dormire nello scatolone, in attesa di tempi migliori.

A proposito di colpi di stato, l’amico Erdogan continua a imperversare, anche ieri ha arrestato qualche centinaio di oppositori politici (curdi). Sta pensando anche lui di cambiare la Costituzione, è una mania.

Qualcuno ha inventato un buon sistema per evitare la confusione: una parente stretta ha fatto il presepio tipo plastico della ferrovia: è tutto incollato su una base, e basta poi mettere i personaggi. Molto pratico! E di bell’effetto. Per l’anno prossimo io sto pensando di usare uno schermo fisso con una foto del presepio Caracciolo di Napoli: altro che pecorelle!

Mi è piaciuta la mossa di Trump di nominare ambasciatore per la Cina un amico del presidente Xi Jinping ed a segretario del dipartimento di stato un amico di Putin. Da quelle parti guerre non dovrebbero essercene, perlomeno. Non avrebbe amici anche per l’Iran e Cuba, Mr. Trump?

Insomma, quest’anno lo spirito natalizio non pervade il mio animo. Rivoglio i tempi in cui le palle bianche potevano coesistere senza problemi con quelle rosse e blu; in cui i fiumi erano fatti di carta stagnola, quella dei pacchetti di sigarette e delle tavolette di cioccolata; quando Natale veniva una sola volta all’anno e i panettoni non si vendevano a settembre; in cui chiedevo a Gesù Bambino una pistola da cow-boy e non capivo perché arrivasse sempre, immancabilmente, un libro.

(115. continua stancamente)

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