Una trentina di anni fa andavo a portare la mia sapienza informatica¹ in una piccola società che, per conto di alcune aziende farmaceutiche, stampava le etichette per le riviste che venivano distribuite ai loro clienti.
Da allora la mia sapienza informatica non è cresciuta di molto e quella società, nella quale lavoravano delle gentili e simpatiche signorine, ha chiuso i battenti da un pezzo. Ignoro se ancora oggi qualcuno riceva quelle riviste, ma non credo.
Una volta per sbaglio inserii anche il mio indirizzo nell’anagrafe dei destinatari e ricevetti una copia di “Donna e mamma” o giù di lì, che nonostante le evidenze mise in allarme quella che si accingeva a diventare mia moglie.
Una mattina, dopo essermi liberato dall’impermeabile e sorseggiato il caffè che mi veniva offerto amorevolmente, mi sistemai nella scrivania che mi veniva riservata ed estrassi il fido block notes per iniziare a prender nota dalla viva voce della giovane responsabile della produzione, Enza, le richieste del giorno.
Dopo pochi secondi iniziai a sentirmi a disagio, e cominciai a sbirciare di traverso la mia vicina. Non nego di essere sensibile al fascino femminile, limitato naturalmente ad una pura contemplazione estetica², ma quel giorno mi sembrava di essere capitato in una savana dove un qualche tipo di scimmia stava lasciando dei richiami odorosi per attirare i maschi refrattari della specie: non so se avete mai sentito l’odore che lasciano i circhi quando tolgono le tende, io lo conosco perché il mio cane si rotolò sopra a quella paglia, che era probabilmente nella gabbia delle tigri: mi ci volle un mese per fargli andar via l’odore.
Cominciammo comunque a stilare l’elenco dei lavori, ed in breve non potei non notare che anche Enza non era a proprio agio. Stava un po’ sulle sue, tendeva ad allontanarsi; sul momento pensai che avesse capito di avere un problema quantomeno di traspirazione pesante, e si spostasse per non darmi fastidio, ma io cavallerescamente feci finta di niente, e anzi avvicinai di più la mia sedia alla sua.
Solo in quel momento, incrociando il suo sguardo preoccupato, mi resi conto che il problema non era suo, ma mio; guardai in basso, e sotto la sedia vidi delle strisciate inequivocabili: avevo pestato una cacca di cane con le suole a carrarmato.
“cxazzo!” mi scappò detto, e balzammo tutti e due in piedi. “Ma te n’eri accorta?” le chiesi. “Si” mi rispose lei, “ma non volevo offenderti, pensavo te ne accorgessi da solo”.
“Ah, meno male” risposi io non proprio galantemente, “pensavo che fossi tu…”
Tutto è bene quel che finisce bene, messa in quarantena la sedia, disinfestata la scarpa e lavato il pavimento con l’alcool denaturato ricominciammo il lavoro, stavolta con maggior fiducia nella reciproca igiene personale.
Stamattina entro in ufficio, in realtà un Open Space contenente circa 200 “risorse” che ai tempi in cui eravamo un popolo virile sarebbero state impiegate con maggior utilità sociale nella bonifica delle paludi Pontine, accendo il PC e mi accingo a leggere i messaggi di posta elettronica.
Abbiamo già parlato della stima che ho riguardo il livello di educazione e pulizia degli Ingegneri Informatici, la cui evoluzione è l’anello mancante tra la Cita di Tarzan e il Bluto Blutarsky³ di John Belushi, perciò non mi sono meravigliato eccessivamente dell’effluvio che aleggiava nell’aere.
Purtroppo, e credo sia voluto dai progettisti per evitare che in occasione di progetti falliti interi team di sviluppo si catafottano di sotto, i finestroni non si possono aprire, per cui l’unico modo per smaltire gli odori, si tratti di Chanel n° 5 o stabbio di mucca, è che quel grande filtro che sono i polmoni umani li assorba e renda inoffensivi.
Mentre digitavo un bel “niet” al mio capo che mi chiedeva di accelerare il rilascio di un pacchetto di programmi che avevo stimato in 30 giorni/uomo, ma che tra appaltatore-subappaltatore-sub-subappaltatore-sviluppatore indiano-multinazionale di consulenza dove tutti vestono di nero era lievitato a 90 giorni, ho avuto un flash della faccia della mia dirimpettaia mattutina.
Ero infatti seduto casualmente davanti a questa ragazza, solitamente elegante, credo turca dai libri che ogni tanto maneggia, e mi ero sorpreso nel captare un effluvio non proprio rinfrescante. Ho passeggiato lungo il Gran Bazar di Istanbul e non ricordo che emanasse odori simili, anzi: è vero che ogni mattina è un’esperienza nuova, può essere curry, possono essere scarpe da tennis, può essere olio fritto, è la lotteria del pendolare, ma oggi questa incongruenza tra aspetto e odore mi aveva colpito particolarmente.
Ed allora mi sono reso conto che il lieve arricciamento del naso e la sottile increspatura delle labbra non indicavano concentrazione o peggio indisposizione, ma assomigliavano molto di più al disgusto.
Altro che Gran Bazar!
Mi sono guardato sotto le scarpe, e “cxazzo!” ho pestato un’altra merda, va bene porterà pure fortuna secondo credenze protostoriche ma mi è ovviamente partita la scheggia contro cani, proprietari di cani e chi li difende senza se e senza ma, Brambilla compresa.
Allora le mie modeste proposte, che giro per competenza al ministro della Salute e per conoscenza al ministro dell’Interno, che tanto si impiccia di tutto, sono:
- ripristinare la tassa sul possesso dei cani. Una volta c’era, e giustamente, perché i proventi servono a coprire parzialmente le spese per la pulizia che i padroni non fanno;
- istituzione del patentino per il possesso di cani (a pagamento, ovviamente). Con diversi livelli, fino al possesso di animale da difesa (con la stessa logica della patente di guida, un esame più facile per i chihuahua ed uno più difficile per i pittbull);
- obbligo di circolazione per i possessori di cani con sacchetti per la raccolta delle deiezioni, un po’ come l’obbligo di catene per le auto. I vigili urbani possono e devono fermare, controllare, e redigere multe: in casi estremi obbligo di rieducazione per padrone e cane.
- obbligo di lavori socialmente utili per i padroni beccati a far defecare il cane senza raccogliere la cacca. Lavori che consisteranno ovviamente nel raccogliere la cacca che altri padroni menefreghisti come loro non raccolgono.
Potrei continuare, ma mi fermo qua. Ho posseduto per anni un cane, ma è più corretto dire che ho vissuto per anni con un cane, che era educatissimo e cercava di farla solo se vedeva uno spicchio d’erba; uscivo mattina e sera con i miei sacchettini senza per questo sentirmi menomato nella mia virilità, e mi vanto che nessun piede umano abbia pestato qualche ricordino lasciato dal mio cane.
Perché, dovreste ricordarvelo teste di rapanello che pensate che il vostro cane e soprattutto voi siate il centro del mondo, sul marciapiede non passano solo brontoloni come me, ma anche donne con le carrozzine, anziani che magari faticano a camminare e si appoggiano a dei bastoni, invalidi che spingono la sedia a rotelle: e un giorno potreste essere voi, e non vorreste ritrovarvi merda di cane, e non d’autore, tra le mani.
¹ In quei bei tempi se qualcosa non funzionava si dava senza problemi la colpa alla “macchina”. Ora la si può dare all’”algoritmo” ma la sostanza non cambia di molto: e cioè che chi dovrebbe risolvere il problema non ha la minima idea di quello che sta succedendo.
² Come disse Paolo Panelli a Nino Manfredi nell’indimenticabile “Questo e Quello” del 1983, la ciccia baffetta piace a tutti ma bisogna mangiarci il pane.
³ John “Bluto” Blutarsky, indimenticabile personaggio del film Animal House del 1978 interpretato da John Belushi