Piante e buoi dei paesi tuoi!

Come avevo anticipato nel precedente reportage, le banane alla fine sono arrivate. Per ora si tratta di piantine, ma come profeticamente cantava Renato Rascel: “Noi siamo piccoli, ma cresceremo e allora, virgola! Ce la vedremo!”, cresceranno.

Ricorderete che avevo qualche dubbio sulla filologicità dell’operazione; niente da ridire sulla collocazione nel lungomare di San Benedetto del Tronto, ma  le palme in piazza Duomo mi sembravano una forzatura. Niente di più sbagliato! Le mie ottuse obiezioni sono state confutate sia da storici, che affermano che le palme erano lì già nell’ottocento, che da botanici e giardinieri i quali irridendomi mi hanno invitato a dare un’occhiata in giro per il lago, dove le ville ne sono piene; e infine dalla mia consorte, che chiedendomi al solito dove vivo mi ha detto di guardare fuori dalla finestra, nel giardinetto condominiale, dove al posto del pino che vi si trovava in precedenza e che è stato decapitato da giardinieri fondamentalisti spicca ora solitaria una palma.

Non mi azzardo quindi a mettere in dubbio la veracità del bananeto! Immagino già stuoli di studiosi pronti a giurare che la dieta lombarda da secoli prevede l’uso del gustoso frutto; che i nonni dei nonni nella cassëula non disdegnavano infilarci una banana così come nei pizzoccheri, in aggiunta ai saporiti formaggi valtellinesi, una grattatina di banana non stona.

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In questi giorni si sta discutendo se vietare l’uso degli animali nei circhi. Dopo anni di attacchi animalisti sulla disumanità, a dire loro, del trattamento a cui le bestie sono sottoposte per essere addestrate, sembra che i legislatori siano intenzionati a sancire la fine dei circhi equestri, spettacolo forse anacronistico in tempi dove non ci si stupisce più di nulla, e dove nessuno pagherebbe per vedere donne cannone o barbute quando ogni tipo di freak viene proposto gratis su tutte le televisioni o in rete e più urlante è meglio è, ma affascinante come pochi per chi conserva ancora un cuore da bambino. Distruggiamo ettari di foreste ogni giorno, estraiamo l’estraibile e trivelliamo il trivellabile, con i nostri viaggi low-cost solo per soddisfare il nostro ego smisurato inquiniamo cieli e terra, tolleriamo gli sfruttamenti e le disuguaglianze più mostruose ma, per carità, nessuno maltratti il povero leone, stop alle Crudeltà! Ebbene, a costo di passare per retrogrado, devo dirlo: basta con queste fisime effeminate. A noi cresciuti a pane e tigri di Mompracem, a lavoro e dignità, fa molto più specie una generazione ridotta ad elemosinare voucher che un leone in gabbia, che si guadagna onestamente la pagnotta e la fa guadagnare al suo domatore che rischia ogni giorno la vita per donare un brivido ed un’emozione agli spettatori. Altro che maltrattato! Il leone è fiero, è la Star, lui sa che con una sola zampata potrebbe staccare la testa a quell’ometto ma no, non lo fa! E non per paura, ma solo per permettere al suo pubblico di constatare, sera dopo sera, che il Re lì dentro è lui, non quell’insignificante bipede senza peli che si trova davanti.

Pensavo allora, se i circhi dovessero davvero chiudere, che fine farebbero tutte le bestie maltrattate: verrebbero portate in Africa, o nel Bengala, e liberate? Si accettano scommesse su quanto tempo sopravviverebbero. Come si può allora una volta di più non plaudire alla preveggenza e lungimiranza dell’amministrazione milanese? Creiamo il giusto habitat in vista della liberazione: il Bio-Parco di Piazza Duomo! Il cibo non mancherebbe di certo, anzi temo che in poco tempo gli snelli leoni circensi diverrebbero gattoni obesi; le scimmie in compenso potrebbero volteggiare di palma in palma, contendendo i datteri alle golose giraffe.

Ad esempio, per l’accoglienza a Papa Francesco che il prossimo 25 marzo sarà in visita a Milano, avendo il materiale a disposizione perché non prevedere una bella rappresentazione biblica sul tema dell’Arca di Noè? Detto tra noi, il vostro coretto preferito sarà presente, in mezzo a decine di altri cori, al Parco di Monza, nel pomeriggio di quello stesso giorno. Le mie coriste sono incuriosite dal fatto che alcuni canti verranno eseguiti solo da cori virili e si riservano di valutarne l’effettivo grado di virilità. Spero comunque che non aprano le gabbie proprio quel giorno, sarebbe un bel disastro. Avete visto quello che è successo in Svezia?

(125 – continua)

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E’ arrivato Takimiri

L’arte circense è una delle forme più ammirevoli di spettacolo. Giocolieri, domatori, acrobati, pagliacci: ogni gesto sottende una preparazione ferrea, giorni e mesi e anni di esercizi per quei quattro, cinque minuti di esibizione che lasciano gli spettatori a bocca aperta.

Grandi famiglie storiche girano il mondo con i loro tendoni: gli Orfei, i Togni, gli Errani… elefanti, leoni, tigri, scintillio di paillettes, equilibriste in costumi succinti, macisti capaci di sollevare un’auto da soli. A proposito degli animali, alcuni cultori della natura ne invocano la messa al bando dai circhi. Passi per la corrida, ma sostenere che in un circo gli animali vengano torturati mi sembra azzardato.  Se fossero torturati veramente, ci sarebbe un grande turn-over di domatori. Al loro posto non sarei sereno nel condividere una gabbia con un leone che nutrisse del risentimento nei miei confronti.

Verso la fine del dicembre scorso nei dintorni di Macerata un commando dei suddetti, animato dalle migliori intenzioni, ha liberato un ippopotamo oppresso. Come è noto, l’habitat ideale di un ippopotamo è la strada provinciale marchigiana: ed è lì che libero e selvaggio il pachiderma si è diretto. Confesso che, come è capitato all’autista della Polo che è sopraggiunta poco dopo, anch’io sarei rimasto perplesso se non incredulo. L’immagine impressa nella retina avrebbe fatto fatica a raggiungere il cervello, e di conseguenza gli impulsi ad azionare l’impianto frenante sarebbero stati rallentati. La bocca spalancata non avrebbe aiutato, e purtroppo anch’io avrei investito la povera Aisha, 15 quintali, stroncandone in un sol colpo la fuga verso la libertà  e la vita.

Prima di Natale arrivava il circo Takimiri. Prendeva il nome dal suo fondatore, il clown-acrobata Takimiri; come tutti i circhi familiari ogni membro della famiglia aveva un ruolo, e spesso più di uno: così avreste trovato l’assistente del domatore alla cassa, e mi sono sempre chiesto come facesse a cambiarsi così in fretta.

Da piccoli nostro padre cercava di stimolare in noi doti acrobatiche. Si metteva lungo disteso sul letto, con le braccia in alto, e noi ci posizionavamo con i piedi sulle sue mani; dopodiché dovevamo cercare di rimanere in equilibrio mentre ci sollevava. Maneggiando il ferro, a lui veniva abbastanza agevole; con qualche rimpianto devo dire di non aver riproposto l’esercizio a mio figlio.

A nostra volta inventavamo giochi aerei: uno di questi vedeva i miei fratelli, a turno, prendere una breve rincorsa  in corridoio alla fine della quale io li aspettavo, seduto in terra, e spingendo il loro piede con le mani incrociate li catapultavo alle mie spalle, sul letto di mia sorella (che, privilegiata, aveva una cameretta per se). Grandi risate: finché, vuoi per la rincorsa troppo veloce, vuoi per la spinta troppo energica, catapultai il più leggero dei tre non sul letto, ma sulla finestra. Prendete la miglior situazione comica ma mettetela in un contesto inadeguato e il riscontro del pubblico non sarà gratificante.

Di situazioni comiche se ne intendeva il buon Takimiri: uno dei suoi numeri preferiti era quello di coinvolgere il pubblico in qualche impresa ridicola. In ognuno di noi è presente una piccola componente sadica, che gode nel poter sbeffeggiare i propri simili, specialmente dopo aver rischiato di essere quei simili. E arrivò così il momento del “Ed ora, prendiamo tre volontari dal pubblico!”.

Io, e credo di averlo ben rappresentato finora, voglio bene a mia madre. Molto. Tuttavia non posso garantire che i pensieri che mi attraversarono la mente, nell’attimo in cui alzò la mia mano, furono di amore filiale. In un baleno mi ritrovai al centro della pista, insieme a due compagni di sventura, destinati di lì a poco a rientrare nel novero dei diversamente amici.

Nel primo esercizio, di riscaldamento, si trattava di impersonare le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Non parlare mi riusciva abbastanza bene. Nel secondo, più di abilità, si trattava di sedersi su una sedia rovesciata in terra, che bisognava rialzare salendoci  sopra dalle gambe. Realizzai più tardi che quello era solo un test di idoneità.
Il clou, infatti, era il terzo gioco. Ci avrebbero legato ciascuno ad una gamba dell’altro, ed avremmo dovuto correre verso la parte opposta della pista, dove il primo arrivato avrebbe guadagnato il premio consistente in un biglietto per un altro spettacolo. Se fate mente locale, visualizzerete che essendo in tre, quello di sinistra aveva la gamba destra legata, e quello di destra aveva la gamba sinistra legata.

In mezzo, c’ero io.

Per cui entrambe le gambe erano legate; particolare che mi poneva in una condizione svantaggiosa, ma che sul momento non colsi. Takimiri si raccomandò di partire solo al suo fischio: ma sono sicuro che con i miei rivali avesse concordato un diverso segnale. Infatti il fischio mi colse abbastanza disunito: i due dimostrando scarsissimo fair play erano già partiti, sollevandomi contemporaneamente i piedi, e poco gloriosamente mi stavano trascinando verso la meta. Essere strascinati per il sedere oltre che poco onorevole è anche abbastanza doloroso, se avete provato a fare qualche metro sull’osso sacro saprete di che parlo:  tentavo di salvare il salvabile cercando di sollevarmi con le mani all’indietro, e l’effetto era quello di un ragnetto annaspante.

Ricordo vagamente l’arrivo, la liberazione dai legacci, le proteste per la falsa partenza, le risate del pubblico e l’applauso chiamato da Takimiri.

In quel momento un bel leone innervosito dai maltrattamenti mi avrebbe fatto proprio comodo. Ma Takimiri li trattava troppo bene, i suoi animali.

(37. continua)

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