Olena à Paris – 24

Olena sale le scale che portano al secondo piano, facendosi scudo del suo carceriere. In fondo alla grande stanza vuota, in penombra, quello che sembra un ufficio, con due guardie armate a sorvegliare.
«E’ lì? » sibila Olena.
«Sì, è lì, ma ci ammazzerà tutti e due!» protesta l’uomo.
«Prima tu» risponde Olena, spingendo avanti l’uomo e restando nell’ombra.
«Chi è là?» chiede una delle due guardie, puntando il mitragliatore. «Ramon? Che diavolo ci fai qua? Il capo ti aveva detto di non muoverti, sei impazzito?»
Ramon tenta una mossa disperata:
«E’ qui, è scappata, non ce l’ho fatta a…»
«Cazzo Ramon, l’hai portata qui? Sei un coglio…» ma l’uomo non fa in tempo a dire altro perché Olena gli ha lanciato un coltello in gola, mentre al suo compare è comparso in fronte il foro di una pallottola calibro 9 parabellum.
Le tre persone nella stanza sentendo il trambusto si allarmano e mettono mano alle armi; uno dei tre socchiude la porta per scoprire che sta succedendo e, viste le due guardie in posizione orizzontale, si affretta a richiudere. Mentre stanno preparando un piano d’azione da fuori si sente una voce autoritaria, con un accento russo:
«Carlos, esci fuori. E’ una cosa tra te e me, Osvaldo non c’entra»
«Sei riuscita a liberarti, “capitano”? Dovevo aspettarmelo, con quei due idioti. Peccato, volevo divertirmi con te… perché dovrei uscire? Fra poco i miei uomini saranno qua e ti faranno a pezzetti»
«Io non credo» risponde calma Olena. «Le scale sono minate, e appena faranno un passo salteranno in aria. Io ripeto te per ultima volta: esci fuori con mani alzate»
«Ah, ah, che paura! Ti dirò io quello che succederà, cara mia: tra qualche minuto arriverà un elicottero, io lo prenderò e tu non potrai farci proprio niente, perché altrimenti il tuo amichetto qua lo ritroverai a pezzetti… ah, non ti sei chiesta chi ti ha colpita alle spalle? Prova a indovinare…»
«Osvaldo?» realizza Olena, stupita. «E’ vero Osvaldo? Perché?»
Osvaldo, legato e sanguinante, risponde a fatica.
«Mi dispiace, capitano… hanno rapito mia moglie e i miei figli e li tengono prigionieri. L’unico modo per salvarli era consegnargli lei…»
«Osvaldo, sei uno stupido» dice Olena con amarezza «Li uccideranno lo stesso, lo sai bene. Però io devo ringraziare te»
«Ringraziare, capitano? Di cosa?»
«Perché così tu hai permesso me di entrare senza combattere. Cavallo di Troia, bravo… Adesso stai giù con la testa, Osvaldo» e così dicendo Olena scarica i fucili mitragliatori dei due morti contro la porta e la parete della stanza; Carlos rovescia la scrivania e ci si rifugia dietro; l’altro uomo viene colpito e muore; infine Olena con un calcio spalanca la porta, e trova Carlos che si fa scudo di Osvaldo, puntandogli la pistola alla testa.
«Che vogliamo fare?» sogghigna Carlos.
Olena fissa Osvaldo negli occhi, e lo vede abbassare lo sguardo. Presa la decisione gli punta la pistola alla testa, tra lo sgomento di Carlos, ma prima che possa premere il grilletto dall’esterno si sentono delle grida.

“Si Evita viviera serìa montonera!” dalle alture intorno al deposito una cinquantina di persone si stanno avvicinando urlando vecchi slogan rivoluzionari “Vencer o morir!”
«Che diamine sta succedendo?» grida Carlos «Chi è quella gente?»
Olena, sorniona, ascolta le voci che filtrano dall’esterno, finché riconosce una voce al megafono:
«Amigos, avete commesso un terribile errore! Avete colpito una montonera, e chi tocca un montonero li tocca tutti. Venite fuori con le mani in alto se volete salvare il culo, cabrones!»
Da sotto si sentono delle voci concitate:
«Capo, ci stanno attaccando! Ma sono… sono dei vecchi!»
«Dei vecchi?» grida Carlos «Che diavolo vogliono?»
«Dicono di essere montoneros… che facciamo, spariamo?»
«Montoneros¹…? Buon Dio, ma da dove arrivano questi, cosa sono dei fantasmi? Si sparate, sparate, fateli fuori tutti!»
Ma purtroppo gli uomini di Carlos non riescono a mettere in atto i loro propositi perchè, proprio in quel momento, il vecchio Juanito suona la tromba ed una pioggia di granate si abbatte sul deposito. Una va a scoppiare dietro la stanza e Carlos ne approfitta per scappare e lanciarsi verso le scale che portano al tetto.
«Mandate due elicotteri e spazzate via quei maledetti!» grida alla radiotrasmittente. Pochi secondi dopo, da poco lontano, due elicotteri si alzano in volo e iniziano a mitragliare i vecchi combattenti, ma il volo dura poco perché hanno fatto i conti senza i razzi che i vecchietti hanno in dotazione.
«Ma che cazzo…» commenta incredulo Carlos, tenendosi la testa tra le mani. «Missili terra-aria? Ma dove diavolo li hanno presi quei rincoglioniti?» ma mentre si sta facendo questa domanda una donna statuaria avanza verso di lui.
«Piaciuti miei giocattolini, Carlos?» gli chiede la russa. «Adesso fai bravo, muori»
E gli punta il fucile contro, ma Carlos vistosi perso con un guizzo si lancia di sotto. Olena si sporge, e vede che la caduta è stata attutita dalla chioma di un albero; claudicante lo vede raggiungere una moto, e con quella scappare.
«Ci rivedremo, Carlos, non c’è fretta» conclude la russa, tornando all’interno.

¹ Il movimento peronista montonero è stata un’organizzazione guerrigliera argentina di ispirazione giustizialista e socialista nazionalista, legata alle idee sociali di Evita Perón; combatté in clandestinità contro il governo che spodestò Perón nel ’55 ma al suo ritorno al potere nel ’73 fu da questi emarginata in quanto ritenuta marxista e rivoluzionaria; infine combatté contro la dittatura di Videla, dal ’76, e migliaia di suoi aderenti persero la vita nella lotta.

Spazio vitale

La stanza dove sono in isolamento è più piccola di dieci metri quadrati. Considerando che contiene un armadio, una libreria, la scrivania che funge da posto di lavoro e da tavolo da pranzo, un divano letto, mi rimangono circa tre metri quadri calpestabili: e li calpesto avanti e indietro quattro o cinque volte al giorno, quando non lavoro, non mangio, non leggo, non vedo un filmetto. Sono dimagrito di un paio di chili, muscolatura che se ne va e già ce n’era poca, vedremo come rimediare a primavera…

Sono fortunato ad avere una stanza tutta per me, penso a chi abita in un bilocale, come fa a isolarsi? La segregazione è stretta: esco solo per andare in bagno, e prima di uscire disinfetto tutto quello che tocco; i panni sporchi li metto in una borsa in balcone, e lì rimangono a decantare per un paio di giorni, prima di essere lavati. Per fortuna da quando sono rinchiuso non è mai piovuto (o per sfortuna: forse un po’ di pioggia pulirebbe l’aria?). Tutto il mangiare mi viene portato con piatti e posate monouso, che alla fine metto nel sacco grigio dell’indifferenziato; fazzoletti e mascherine invece li metto in un altro sacchetto che poi a sua volta, chiuso, va anche lui nel sacco dell’indifferenziata; e prima di portarlo via il sacco grigio va messo in un altro sacco grigio. Queste sono le linee guida che ha dato la Regione, che seguiamo abbastanza scrupolosamente; ci sarebbe anche l’invito ad usare asciugamani di carta monouso ma quello ci sembrava eccessivo, così uso i miei asciugamani e me li porto in camera. Questo moltiplicato per migliaia di persone porta ad un consumo smisurato, alla faccia dell’ambiente e dell’inquinamento; io comunque non ho troppi rimorsi perché l’indifferenziato viene mandato all’inceneritore che da noi è un termovalorizzatore e quindi da lì parte l’acqua calda per il riscaldamento delle case: se non ci fosse ci toccherebbe comprarlo, come mi risulta debbano fare a Oslo, che differenziano così tanto che non hanno abbastanza immondizia da bruciare, e perciò devono comprarla per far funzionare i termovalorizzatori, paradossale no?

Devo dire che già da qualche tempo qualche abitudine era cambiata. Ad esempio, noi abbiamo sempre usato i tovaglioli di stoffa questi però hanno il vizio di mischiarsi, perciò ad un certo punto abbiamo deciso di usare quelli di carta; o gli asciugamani, a parte quelli del bidet gli altri li usavamo tutti e tre indifferentemente, e quindi abbiamo iniziato ad usare ognuno il suo, di colore diverso. Normale igiene, direte, ma a me non pare molto normale che in una casa si debba stare attenti a non contagiarsi l’un l’altro…

Mia moglie ha avuto l’esito del tampone: negativa! E quindi si è subito fiondata a trovare sua mamma e fare una mega spesa, che la cambusa stava ormai languendo e cominciavamo a intaccare le scatolette di tonno. Mio figlio invece non è stato chiamato, la dottoressa si sarà senz’altro sbagliata a fare la richiesta ma lei nega, il numero verde non risponde, dovrà aspettare un paio di giorni in più, perché la regola è che dopo quattordici giorni senza sintomi si può uscire, e lui sintomi non ne ha mai avuti.

La temperatura si è attestata intorno ai 35°, non so se è un effetto del cortisone, che comunque ho ridotto di un quarto: così bassa non ricordo di averla mai avuta ma poco male, risalirà…

La mia pusher di vino mi ha chiamato per propormi le offerte del Black Friday: non avevo voglia di rispondere e così forse ho perso l’occasione del secolo. Veramente di offerte di questo benedetto Black Friday ne arrivano un sacco, tipo quelle di Ryanair: ma dove cavolo può aver voglia di andare uno in questo momento? Intanto mi sto rileggendo la guida di Valencia, chissà che l’anno prossimo non sia la volta buona, che tra l’altro avrei proprio il buono di Ryanair da usufruire.

Ieri sera sono stato avvisato: la pacchia sta per finire! Va bè, intanto però il cous cous con i frutti di mare me li sono mangiati, e oggi mi aspetta una piadina con lo squacquerone… tutta roba leggera, ospedaliera direi. Ma un bicchiere di rosso mi farà male?

Amiche e amici, se non ho capito male da domani da zona rossa passeremo a zona arancione: inizia l’operazione “salviamo il Natale” con annessa “salviamo la stagione sciistica”; a me sinceramente della stagione sciistica non interessa niente, lo sci non l’ho mai praticato perché quando ero ragazzo era uno sport da ricchi e giocavo a pallone che non costava niente, e quando avrei potuto permettermelo non avevo voglia di rompermi qualche gamba. In più sulla neve fa freddo, non fa per me. A presto, e buon weekend!

Parabole

Amiche e amici, le cose vanno per il meglio; oggi ha fatto il tampone anche mia moglie, così se risulterà negativa già da sabato potrà uscire. La regola infatti è che i conviventi possono fare il tampone dopo dieci giorni dall’apertura della segnalazione per l’infetto (che sarei io); la segnalazione è stata fatta il 16, e quindi oggi 26 sono stati chiamati a fare il tampone. La mia dottoressa deve essersi sbagliata nel fare la richiesta perché stranamente mio figlio non è stato chiamato: ho provato a chiamare il numero verde di ATS Insubria ma dopo un bel po’ di attesa il risponditore automatico mi ha detto di lasciare un messaggio.

Devo dire che gli automatismi funzionano abbastanza bene, tra mail e telefonino, ma se si vuole parlare con qualcuno in carne ed ossa è parecchio più difficile.

Ad ogni modo, anche se non avessero potuto fare il tampone, dopo quattordici giorni (senza avere sintomi) sarebbero potuti uscire lo stesso; considerando che per l’esito ci vorranno un paio di giorni, vorrà dire che (toccando ferro) mia moglie potrà uscire sabato anziché lunedì. Se tutto questo sia logico e non sia invece meglio fare i tamponi a tutti non lo so; del resto un tampone negativo oggi non impedisce di averlo positivo domani, ma almeno ad un certo punto è una certezza: o si o no.

Stamattina ho lavorato qualche ora e avrei potuto continuare anche oggi pomeriggio ma non voglio strafare; voglio godermi il pomeriggio di relax tra scribacchiare, leggiucchiare e guardare i colori fuori dalla finestra; ci sono delle macchie che mi danno fastidio, e precisamente il bianco delle parabole, soprattutto quelle piazzate sui balconi piuttosto che sui tetti, che tutto sommato mi sembra la destinazione naturale. Non ce ne sono moltissime, ne ho contate una dozzina, ma disturbano il mio senso estetico; ne ho vista una piazzata in un balcone al quinto piano di un condominio lontano, e sullo stesso balcone c’è una bicicletta; ho pensato a quei poveracci che si sono portati la bicicletta al quinto piano probabilmente per paura che gliela fregassero, oppure proprio perché l’avevano fregata loro; e vicino la parabola, immacolata, a pochi passi da una tapparella tutta storta e mi sono chiesto che priorità avrà quell’uomo, che fatica per portare al quinto piano una bicicletta ma non si degna di sistemare la tapparella della casa in cui vive.

La sera ho preso l’abitudine di guardarmi un film, dopo cena. Su Raiplay ne propongono di belli, completamente gratis; per la verità ci sarebbe anche Chili che sta facendo il “Black Friday” e ne propone una lista a soli 1,20€. L’altro ieri mi sono visto “The Homesman” con Tommie Lee Jones, una storia cruda di pionieri e pazzia; ieri sera ho visto “Cold Blood” con Jean Reno, una storia cruda di killer e vendetta: stasera magari passerò a qualcosa di più leggero, non vorrei che tutta questa crudità mi rimanesse sullo stomaco… la cosa più bella è che, mentre in TV la prima serata ormai inizia dopo le 21:30, io a quell’ora ho quasi finito la visione e sono pronto ad andare a letto.

E’ morto Diego Armando Maradona, quasi mio coetaneo: ne ha fatte da benedir la luna e le ha pagate tutte sulla sua pellaccia; è stato uno dei più grandi artisti del pallone e questo per me resterà per sempre; ha subito grandi torti ed ha reagito sempre da uomo, a Barcellona nel 1983 un macellaio basco di nome Goikoetxea gli spezzò una caviglia e si pensava che la carriera fosse finita; nel 1990 tutto lo stadio Olimpico lo fischiò, colpevole di aver eliminato l’Italia in semifinale, quando l’Italia in realtà si era eliminata da sola, e lui reagì da par suo sibilando quell’“Hijios de puta” che è rimasto agli annali; ha distrutto da solo l’Inghilterra, ai mondiali dell’86, con uno dei più bei gol di tutti i tempi, partendo dalla sua metà campo e scartando lo scartabile; e infine con il famoso gol di mano, “la mano de Dios”, che aveva vendicato la sconfitta argentina nella guerra delle Malvinas di quattro anni prima, sconfitta peraltro benedetta perché diede fine alla dittatura militare… a Napoli aveva trovato il suo habitat naturale, in anni in cui in Italia giocavano i campioni più forti del mondo: e che fine abbiamo fatto dopo allora, come abbiamo fatto a ridurci così? Non ci saranno altri Maradona, perché tutto si è omogeneizzato, tutto si è livellato, i calciatori si “gestiscono” e giocano fino a quarant’anni, i manager spadroneggiano e per i proprietari delle squadre il calcio è un prodotto come un altro, per far soldi o alla peggio per scaricarlo dalle tasse; rivoglio Maradona, grasso, flaccido, provocatore, attaccabrighe, politicamente scorretto, puttaniere e cocainomane, basta con questi fighetti tutti uguali, che fanno tutti gli stessi movimenti, le stesse giocate, le stesse dichiarazioni: ridatemi Maradona, e la vedremo una volta per tutte se Maradona è davvero meglio ‘e Pelè; ridatemi Maradona, hijios de puta, che di altri così non ne vedrò mai più.

La storia dalla finestra

Dalla finestra della mia stanza ho una vista stupenda. Specialmente alla mattina, quando il sole non è ancora alto nel cielo, i colori del boschetto che circonda il colle del Baradello sono bellissimi: verde scuro, chiaro, ocra, giallo, arancione, marrone, e tutte le sfumature che non sono in grado di descrivere perché per i colori sono negato; e tante varietà di piante, di erbe, di arbusti; scendendo verso basso si slanciano le piante ornamentali, un enorme cedro del Libano, delle palme, nei giardini di case un tempo signorili e che oggi risentono dell’usura del tempo. Piante che conquistano e riconquistano il loro spazio: da un tetto sfondato vedo spuntare i rami di un caco, con i suoi frutti arancioni…

In cima al colle, appena 430 mt., il Castello Baradello, fatto costruire dal Barbarossa quasi mille anni fa, di cui rimane oggi la torre di avvistamento; mille anni, ed è ancora là, e tra mille anni di tutti i nostri blog, social, computer non rimarrà niente, forse a malapena il ricordo; anche la stessa casa da cui osservo la torre non esisterà più perché non è stata costruita per resistere mille anni ma solo l’arco di qualche generazione. Già c’è qualche crepa…

Alle pendici del colle, scendendo appena verso Como, furono martirizzati nel 303-305 sei soldati romani che facevano parte della Legione Tebana, per non aver voluto sacrificare agli dei romani in ossequio all’editto di Costantino: pochi anni ancora ed il Cristianesimo sarebbe diventata religione ufficiale dell’Impero… Carpoforo ed i suoi compagni sono ancora oggi ricordati e venerati, dopo 1700 anni: e lo saranno ancora per centinaia e forse migliaia di anni ancora, quando di quanto oggi è cronaca si saranno perse le tracce.

El Greco – Martirio di San Maurizio

In onore di Carpoforo alla fine del IV secolo venne costruita una basilica, ampliata nel 724 su commissione di Liutprando, re dei Longobardi; e dopo l’anno mille assunse le forme attuali del romanico dai Magistri Comacini che all’epoca erano ricercati in tutta l’Europa per la loro perizia nelle costruzioni.

Più in basso, sulla sinistra, vedo la cima del grattacielo che si affaccia sulla piazza di Camerlata, realizzato nel ’62-’64 per l’Istituto delle Case Popolari (esiste ancora?) sul modello del grattacielo Pirelli di Milano; palazzo che fa da degna cornice alla fontana razionalista che si erge al centro della piazza sfidando la legge di gravità, e più di una volta mi sono trovato a dare indicazione a turisti che venivano a fotografarla da ogni parte del mondo, e che di architettura ne sapevano ben più di me…

Vedo, proprio dritto avanti a me, sotto al Baradello, il campanile ed la parte superiore della facciata della mia chiesa, S. Brigida, costruita nel ’37 su una cappelletta (o vicino ad essa) costruita dai pellegrini che diffusero il culto di questa santa irlandese, nel quinto secolo, santa che fece dei miracoli straordinari come quello di trasformare l’acqua in birra, e prima o poi dovrò andare a visitare il convento, a Kildare, dove si dice vicino ad una quercia sacra bruciasse una fiamma eterna… tempi di passaggio tra paganesimo, druidismo, e cristianesimo che ne inglobò miti e tradizioni.

Vedo, sotto casa, dall’altra parte del piazzale dove ci sono delle officine e che spero tengano duro, perché nel momento in cui venderanno al posto del piazzale si alzerà un condominio e allora non vedrò più niente, la casa di una mia amica, separata da anni e che spera ancora che il marito torni indietro; anche questa è una storia…

Oggi va così amiche e amici, a volte anche a guardare fuori dalla finestra si possono vedere tante cose belle e viaggiare con la mente; del resto ve l’ho detto che mi sento in crociera, no? A presto!

Ibernato

Non c’è uomo più egoista di un depresso, dice una mia amica regista teatrale, in quanto la malattia è tutto il suo mondo e non c’è spazio per nient’altro; nel caso in questione il fattore scatenante sono dei dolori anali lancinanti, o almeno così lui li descrive ma le innumerevoli visite a cui si è sottoposto non hanno dato nessun esito se non che il tutto sia frutto della sua mente, e dal rifiuto di questo l’avvitarsi nella depressione. Conosco un’altra persona di cui non specificherò il genere che ha dovuto penare per anni con quella che in gergo è detta “sindrome del culo stretto” , come quella che colpiva le educatrici di un tempo, fastidiosissimo fenomeno che conduce a forme ostinate di stitichezza e che il soggetto ha dovuto curare per anni con unguenti, pomate, e l’applicazione tre volte al giorno di una specie di divaricatore di cui si può trovare modello analogo nel Museo delle Torture di Milano, vicino S.Ambrogio. Ora sembra che con la giusta tisana il problema si sia risolto, chi l’avrebbe detto?

Questo per dire, amiche e amici, che tutto sommato mi è andata bene così; nel weekend non ho avuto nemmeno una linea di febbre anzi ho quasi avuto una sensazione di ibernazione perché la temperatura è sempre stata inferiore ai 35° cosa che mi ha un po’ preoccupato tanto da farmi chiamare Gianni, il dottore mio amico, che mi ha rassicurato dicendo che finché non mi spunterà la lingua biforcuta posso star tranquillo. Stamani ho provato a comunicare alla dottoressa i progressi ma chi la acchiappa è bravo, vedendo le chiamate potrebbe anche richiamare dico io con tutto quello che prende macché, mentre invece Gianni senza che l’aspettassi mi ha chiamato all’ora di pranzo per sentire come stavo e per assicurarsi che avessi capito quello che dovevo fare, il dimezzamento del cortisone per qualche giorno e poi da giovedì un quarto di cortisone e via l’antibiotico.

Devo dire che inizio a sentirmi anche un po’ in colpa. Cerco di spiegarmi: mi sembra come di essere in crociera, servito e riverito: non ho nessun obbligo, nessun dovere, non devo essere intelligente, informato, non devo studiare non devo aggiornarmi non devo prendermi carico dei problemi del mondo: non leggo giornali, non guardo televisione, il mondo va avanti senza di me e io senza di lui: e sto bene, se così si può dire, posso tirar fuori quella parte di adolescente che c’è ancora dentro me e leggermi Woodehouse, Guareschi, e finito questo passerò a Salgari; mi sono ascoltato Rigoletto, senza nessun disturbo; ho pianto come un vitellino alla visione del bellissimo film del 2009, “Il Concerto” di Radu Mihăileanu, uno dei più belli degli ultimi anni secondo me, una commedia che circonda un dramma, sulla musica struggente e vivace del Concerto per Violino e orchestra, l’unico scritto da Ciajkovskji per violino. Solo che io la trama la sapevo già perché l’avevo già visto e ho cominciato a piangere già dall’inizio… se vi capita, e ve lo consiglio caldamente, guardatelo in lingua originale con i sottotitoli, il doppiaggio italiano è una merda e spero che @wwayne, che si intende parecchio di cinema, concordi con me. Certo la malattia ci rende più deboli, più sensibili, così come l’età; mia madre piange quasi tutte le sere quando la chiamo, ed era una roccia…

Sono contento, dunque: tanti amici mi chiamano, si informano, mi chiedono se ho bisogno di aiuto e mi faccio aiutare perché so che aiutare fa piacere, se si può; anche su questo blog sento tanti amici che mi vogliono bene, mi incoraggiano e mi spronano, e mi spingono a scrivere queste piccole cronachette in cui tanti sono sicuro possono riconoscersi.

Adesso amiche e amici vado a scrostarmi le squame che mi stanno crescendo; dopodiché farò qualche esercizio di russo, ma facile, e se lo trovo vorrei rivedermi “Il piccolo grande uomo” con Dustin Hoffmann; poi per oggi non vorrei esagerare con la felicità, me ne lascerò un po’ per quando tornerò a sbafare vincisgrassi e ciauscolo… a presto!

Olena à Paris – 23

«Aahh…»
Olena, legata ad una sedia con le mani dietro la schiena, si risveglia bruscamente. Nella piccola stanza senza finestre due uomini la osservano con un ghigno beffardo, dopo averle rovesciato addosso un secchio di acqua gelida. La russa, con la testa che pulsa, mette a fuoco i due e si guarda intorno, valutando la situazione.
«Chi voi siete, finuocchietti?» chiede sprezzante, sputando sullo stivale di quello più vicino.
L’uomo, con una smorfia schifata, si avvicina e pulisce lo stivale sui pantaloni della tuta mimetica della russa, e le molla poi un manrovescio. Olena, incassato il colpo, gira lentamente la testa leccandosi l’angolo della bocca da cui esce un filo di sangue. Stringe leggermente le palpebre e sorridendo lo fissa negli occhi:
«Tutto qua quello che tu sa fare? Ci vuole altro per soddisfare vera duonna» dice passandosi la lingua insanguinata sui denti.
L’uomo si avvicina, pronto a colpire ancora, ma il compagno gli afferra il braccio .
«Manolo, lascia stare. Carlos ha ordinato di non avvicinarsi, è pericolosa»
Manolo si ritrae, stizzito.
«Pericolosa… siamo in due e lei è da sola, legata e disarmata, che può fare? Divertiamoci un po’…» e riprende ad avanzare verso Olena, che lo provoca:
«Da, noi divertiamo, tu proprio mio tipo… o preferisci tuo amichetto? Io capito subito, tu vuole lui, non me…»
«Brutta puttana, ti faccio vedere io adesso chi…» sbraita Manolo, gettandosi sulla russa. Olena si spinge all’indietro con le punte dei piedi, e l’impeto dell’uomo li fa cadere a terra, uno sopra l’altra; la donna gli pianta i denti nella giugulare, resistendo al suo tentativo di divincolarsi, e molla la presa solo quando vede sprizzare il sangue; Manolo prova a rialzarsi barcollando, cercando di tamponare la ferita con una mano, ma Olena lo rovescia ancora a terra gettandoglisi addosso rotolando con la sedia; finalmente l’uomo si rimette in piedi ma quando cerca di estrarre la pistola dalla fondina legata alla coscia constata con un brivido di raccapriccio che la sua arma non si trova al suo posto; e l’ultima cosa che vede nella sua vita è lo sguardo gelido di Olena che, da terra, gli punta contro la sua stessa pistola che tiene tra le mani legate. L’altro uomo, che non ha avuto modo di intervenire, prova ad allungare la mano verso la sua arma ma Olena lo dissuade con un invito amichevole.
«Non muovere te di millimetro se tieni a tue palle, fruocietto»
L’uomo saggiamente valuta che non sia il caso di offendersi per l’epiteto politicamente poco corretto, e non può che ammirare la russa che spara sulle corde per allentarle, ed in un baleno è libera ed in piedi.
«Ora tu puorta me da Carlos» gli ordina Olena.
«Ma mi ammazzerà!» protesta l’uomo.
«Lui, forse. Io, sicuro. Scegli tu»

Dieci anni prima, in Bolivia.

La Bolivia è la terza nazione produttrice di coca al mondo, dopo Colombia e Perù; le foglie della pianta sono tradizionalmente masticate dagli indigeni come energetico e per combattere i malesseri dell’altitudine. La coltivazione è legale e regolata dal governo; purtroppo però dalla coca si fabbrica la cocaina, che viene prodotta in loco in laboratori improvvisati nelle vicinanze di corsi d’acqua, laboratori che vengono allestiti e smantellati in poco tempo per non essere scoperte dal Felcn, il corpo dell’esercito che combatte il narco-traffico. Spesso i laboratori sono sorvegliati da guardie armate e, quando i soldati riescono a superare la rete di informatori e sentinelle che li protegge, vengono ingaggiati scontri a fuoco che fanno vittime da entrambe le parti.

Il fiume Chapare, nella regione del Chocabamba, è uno dei siti principali per queste installazioni, grazie alla vicinanza alle piantagioni ed alla possibilità di una rapida fuga. Olena, ingaggiata dai servizi boliviani per sradicare una cellula colombiana infiltrata senza creare tensioni tra vicini, al comando di una squadra search and destroy di otto uomini anzi per la precisione di sette uomini ed una donna, Vassilissa Kutnesova, nipote di quello che all’epoca era stato uno dei più eminenti proconsoli di Breznev, esperta di esplosivi e combattimento corpo a corpo, si sta avvicinando all’obiettivo con una formazione a ventaglio, protetti dalla boscaglia, dopo aver neutralizzato la doppia linea di sentinelle. Gli informatori parlano di un carico da una tonnellata di cocaina, già lavorata e pronta per essere trasportata. Un bell’uomo, dal sangue decisamente indio, si avvicina a Olena.
«Quanti, Osvaldo?» chiede rapida la russa.
«Dodici armati, capitano, armi automatiche standard. 4 dietro, possiamo avvicinare fino a 50 metri senza essere visti. Gli altri davanti meno due che sono all’interno»
«отлична¹» sibila Olena. «Ci dividiamo, tu prendi con te Vassilissa e due uomini e vai sul retro. Appena arriveranno a prendere il carico io attaccherò, e tu seguirai dopo 5 secondi.»
«C’è un problema, capitano, hanno degli ostaggi»
«Ostaggi? Quanti?»
«Due famiglie di raccoglitori con i loro bambini, capitano, dieci persone»
«Dove li tengono?»
«Addossati alla parete sul retro»
«Понимаю²» annuisce Olena. «Volerà parecchia coca tra poco, preparate le maschere»
«Si, capitano»
«Sento dei motori Osvaldo, stanno arrivando, vai, svelto»
«Capitano, e il segnale?»
«Lo capirai, Osvaldo, lo capirai»

Mentre Osvaldo si allontana, due motoscafi con altri quattro uomini armati attraccano. Dal laboratorio esce uno uomo alto e abbronzato, con i capelli biondi.
«Forza, rapidi, il carico è pronto»
«Carlos, dì ai tuoi uomini di darci una mano che facciamo prima» risponde uno degli uomini
Carlos lo guarda con uno sguardo da rettile, e quasi senza aprire bocca risponde:
«I miei uomini non sono facchini. Sbrigatevi a portar via quelle casse che l’aria è pesante»
L’istinto animalesco gli dice infatti che c’è troppa tranquillità; si rivolge ad uno dei suoi uomini:
«Niente dalle sentinelle?»
«Niente, Carlos»
«Da quanto non le senti?»
«Da dieci minuti…»
«Dieci minuti? Chiama, chiama, perdìo» lo scuote Carlos. L’uomo chiama, ma senza risposta.
«Non risponde…» dice confuso. «Non ci sarà campo…»
«Idiota…» fa appena in tempo a sibilare Carlos, quando i due razzi sparati da Olena tranciano in due il laboratorio, alzando una nuvola di fumo e di polvere di coca. La sparatoria dura esattamente 48 secondi, durante i quali tutti gli uomini sul retro vengono annientati, mentre di quelli davanti si salvano solo quelli che hanno il buon senso di arrendersi; nella confusione però Carlos è rientrato nel laboratorio ed ha preso una ragazza, Juanita, ed è con lei che si fa scudo balzando su uno dei motoscafi. Osvaldo, che ha lasciato a Vassilissa il compito di bonificare il terreno, si avvicina con il suo fucile di precisione, e chiede ad Olena:
«Lo elimino, capitano?»
Olena, scuote la testa. «Lascia stare, Osvaldo, troppo pericoloso, ha la ragazza, va bene così. Libera gli ostaggi, diamo una ripulita qui intorno e andiamocene.»
«Ai suoi ordini, capitano»
«Ah, Osvaldo»
«Si, signore?»
«Ottimo lavoro»

¹ Ottimo
² Capisco

Alla guerra con la Tachipirina

Amiche e amici, prima di raccontare la giornata di ieri devo far precedere un antefatto, ovvero che la nostra amica nigeriana alla quale come vi ho raccontato facciamo dei piccoli favori, saputo che lo “Zio”, che sarei io stava male ha chiamato Gianni, un dottore nostro amico, e gli ha chiesto se io avrei potuto chiamarlo per avere un consiglio, Gianni ha naturalmente acconsentito e l’amica, chiamiamola ormai pure mia nipote anche se ha cinquant’anni ed è più grande e notevolmene più forte di me, me l’ha prontamente riferito intimandomi di chiamarlo subito. Come potevo contrariarla? Ho chiamato subito, scusandomi per il disturbo ma soprattutto per non averlo chiamato prima; Gianni, per dare un’idea dell’uomo, mi ha ringraziato di averlo chiamato, e dopo qualche domanda per farsi un’idea dello stato delle cose mi ha detto che sarebbe passato a visitarmi il giorno dopo, quindi ieri, alle 13:30-13:45, scusandosi per non poter passare prima. Ho attaccato incredulo, ripensando al fatto che la MIA dottoressa da circa dieci anni ormai incassa la quota della mutua per me ed i miei familiari senza praticamente far niente, per vederci quando le dice male una-due volte l’anno e non ha MAI messo il naso fuori dalla porta del suo ambulatorio, e dispensando appuntamenti come se si trattasse di qualche primario cardio-chirurgo.

La giornata di ieri era iniziata come al solito, ovvero senza febbre, ossigenazione un po’ calante, ma verso l’ora di pranzo come al solito la febbre ha iniziato a salire fino ad arrivare a 37,9. Ho pranzato, la dottoressa mi aveva detto di smettere l’antibiotico e mi aveva prescritto il cortisone (da notare che la stordita mi aveva fatto una ricetta bianca che secondo lei volando sarei dovuto andare a recuperare nel suo ambulatorio. “Ma non ha qualcuno che può venire, qualche amico?” Ma santo Dio, a parte che se non mi avvisa come faccio a sapere che mi fa la ricetta bianca, ma se mi fa la ricetta normale e me la manda col telefonino riesco a girarla a qualcuno e farlo andare in farmacia. Finalmente, risolto questo terribile problema oganizzativo, è riuscita a farmi ‘sta benedetta ricetta).

Ma io non ho preso niente finché non è arrivato Gianni. Lui ha qualche anno più di me, i capelli tutti bianchi e una barbetta bianca; una persona mite, che da giovane ha fatto il volontariato medico in Africa ed ancora oggi oltre al lavoro ha un ambulatorio, insieme ad altri colleghi,  per curare migranti e rifugiati senza possibilità economiche. Uno che crede nella sua professione, un uomo di una profonda fede, sofferta e conquistata, dice lui, dopo anni di cammino. Ci conosciamo da anni per le frequentazioni parrocchiali, lui e sua moglie erano anche alla mia festa di compleanno dell’anno scorso, e chissà come mai non mi era venuto in mente di chiamarlo.

Mi ha visitato accuratamente, non come la mia Maria passa via, e con il suo stile, pacato, rassicurante, ha in pratica detto: a) per  i sintomi che avevo il tampone è stato richiesto tardivamente, adesso prima di fare quello di chiusura è meglio aspettare una settimana in più, altrimenti si rischia di ritrovarselo positivo ancora e si riparte con la quarantena b) se anche la “collega” pensava si trattasse si infezione delle vie urinarie l’antibiotico era giusto ma il dosaggio sbagliato: andava raddoppiato, e può anche essere che la risalita serale della febbre dipendesse anche dalla copertura insufficiente c) lasciarmi senza copertura antibiotica era comunque un errore. Va bene anzi è doveroso il cortisone, ma anche se ovviamente il Covid è un virus e l’antibiotico agisce sui batteri, su un fisico già indebolito è meglio non lasciare ulteriori porte aperte, specialmente come nel mio caso che c’è in corso una piccola bronchite (“Bronchite, Gianni? O cazzo” “Si, ma non c’è rantolo, stai tranquillo. Tutt’al più tra una settimana se persiste facciamo i raggi” “Ah ok, grazie”) Insomma, mi ha prescritto l’antibiotico, mi ha detto di non esagerare con la tachipirina, di resistere almeno finchè la temperatura non supera i 38, cosa per per la verità ho quasi sempre fatto e di prendere il cortisone non dopo pranzo, ma durante il pranzo, stando attendo allo stomaco; e per la prima dose che non avevo ancora preso mi ha detto di mangiarmi insieme una mela e un panino. Se n’è andato, e una sensazione di pace è scesa su di me.

Voi non ci crederete, amiche e amici, ma la febbre è scesa senza bisogno di prendere la tachipirina; verso le 17 era tornata normale, ed ha continuato una discesa all’apparenza inarrestabile, tanto che stamattina era di 34,3°, cosa che mi poneva più dalla parte degli animali a sangue freddo che di quelli a sangue caldo, al punto che sono stato tentato di chiamare Gianni e fargli schioccare le dita o fargli scandire “Sim sala bim” o qualcosa che interrompa la caduta.

La notte è stata abbastanza tranquilla, solo è stato un continuo di bere sudare fare pipì tanto che ad certo momento stanco di alzarmi ho deciso di usare la ciotola che uso per farmi la barba come pitale; ovviamente la prossima volta che mi sbarberò vedrò di lavarla bene. Virus ti sto sconfiggendo, esci da questo corpo, io ti piscio: Pape satàn, pape satàn aleppe!

In uno dei sogni fatti protagonista è stato mio nipote, una pasta di ragazzo adottato dalla Lituania che aveva sei anni; era un selvaggio che mio cognato ha dovuto domare a suon di sberloni e calci nel sedere ma era l’unico linguaggio che il bambino capisse; ricordo ancora con raccapriccio la prima volta che venne a casa nostra con mia cognata, e ce lo ritrovammo seduto a cavalcioni del balcone, al terzo piano, a guardare di sotto i gatti; mia moglie perse il colore dei pochi capelli ancora non imbiancati, e rivedo mia cognata avvicinarglisi da dietro in silenzio, abbrancarlo e tirarlo dentro e affibbiargli una di quelle scariche di schiaffoni che difficilmente uno dimentica nella vita. Ricordo anche quel pomeriggio d’inverno in cui ci fu lasciato in affidamento per poi andare a Como col bus; c’era la neve e il malandrino, sfuggito alla mia sorveglianza, si era appostato all’imbocco del sottopassaggio e aveva bersagliato il primo malcapitato con una palla di neve; realtà e fantasia ancora si confondevano ai suoi occhi, ma non a quelli del bersagliato che voleva farsi giustizia sommaria e ce ne volle del bello e del buono per farlo desistere dai suoi pur condivisibili propositi. Bravo ragazzo, dicevo, tranne per il piccolo difettuccio di sgraffignare  vasetti di cetriolini ed andarseli a sbafare in bagno. Traumi antichi, sembra.

Amiche e amici, sono di nuovo in bagno di sudore, quanto di più assomigliante a quello sforzo creativo tanto caro agli antichi aedi e cantori; per oggi è meglio che mi fermi qui, mi do una sciacquata, una goccia di profumo e dopo un congruo periodo di riposo tornerò alle lettura di Zio Fred in primavera, un libro di P.G.Wodehouse, uno dei più grandi scrittori inglesi del secolo scorso, un genio. Buona giornata!

Siamo positivi!

Amiche e amici, nessuno più di me ha sempre sostenuto che un atteggiamento positivo e fiducioso nelle opportunità della vita predisponga a raggiungere successi e soddisfazioni. Una volta tanto avrei voluto essere negativo e invece no, non c’è verso, il responso è chiaro e inequivocabile: positivo.

Illuso dalla scienziata che mi ritrovo come dottoressa (“i polmoni sono a posto, l’ossigenazione pure, assolutamente non è Covid”)  ho voluto credere oltre ogni ragionevole evidenza che se l’antibiotico che mi aveva prescritto non faceva una cippa era solo perché era sbagliato l’antibiotico, mentre avrei potuto mangiarmene scatole a quattro palmenti ed al virus avrei fatto il solletico.

Da quanto capisco i sintomi sono iniziati il 9, quindi siamo già nel decimo giorno; la febbre non scende anzi negli ultimi due giorni arriva fino a 39, finché non la stronco con dosi massicce di tachipirina. L’appetito c’è abbastanza, i sapori li sento anche se il dolce mi da un po’ fastidio.

La scienziata di cui sopra dice di chiamarla tutti i giorni per farle sapere come sto; io la chiamo pure, per quello che ho da fare, però oggi ho iniziato alle 9 e sono riuscito a parlarci solo a mezzogiorno, e tra l’altro doveva segnarmi del cortisone ma si è dimenticata. Alla fine di tutto questo le dirò davvero cosa penso di lei e cambierò medico, sperando in bene. A proposito, adesso dobbiamo organizzarci perché non potendo uscire nessuno, anche prendere le medicine è impossibile: non è assurdo?

Mi sto convincendo, amiche e amici, che l’isolamento non sia assolutamente il modo migliore per guarire. Per non diffondere il contagio senz’altro, ma non per guarire: per guarire sarebbe meglio poter fare una passeggiata al sole, quando la febbre non picchia, e noi qua avremmo anche il bosco della Spina Verde. Secondo me  sarebbe stato meglio i “malati leggeri” come me radunarli nei vecchi sanatori, e dargli la possibilità di uscire all’interno della struttura; tanto essendo tutti contagiati non ci sarebbe stata la possibilità di infettarne altri…

Il mio aspetto è ormai inquietante, un misto tra un Robinson Crusoe ed un Abate Faria,  ma sinceramente non ho nessuna voglia di dedicarmi più di tanto alla cura della persona, anche perché cerco di usare il bagno per il minimo indispensabile. Igienizzo tutto prima e dopo, non deve rimanere nessuna traccia del maledetto.

E’ bello e rassicurante che, oltre la porta della mia stanzetta, sentire che i miei fanno a meno di me. Continuano a lavorare, fortunatamente, mio figlio fa da supporto tecnico a mia moglie che si è dovuta arrendere per forza nel lavorare da casa. Posso anche riposarmi, per un po’.

Ieri avrei voluto raccontarvi del tampone ma quando stavo mettendomi a scrivere mi è salita la febbre ed ho lasciato stare; il punto di prelievo, in auto, è all’interno del vecchio ospedale psichiatrico, uno spazio immenso, anche questo con una grande area verde; il tutto era ben organizzato, il serpentone si è snodato senza intoppi all’ora stabilita mi hanno infilato il tampone nel naso. Un po’ fastidioso, ma ci sono cose peggiori. Una parte di questo vecchio manicomio è stata data in gestione ad una cooperativa di recupero di ragazzi con dipendenze, droga, alcool, ludopatie… mi sono ricordato, passando, che quattro anni fa venimmo a recitare con il gruppetto teatrale che dirigevo, ed era stata una esperienza parecchio formativa per i miei ragazzi. Innanzitutto la comunità aveva appena inaugurato un forno a legna, e quindi vollero che mangiassimo con loro; quando c’è da mangiare non ci tiriamo mai indietro, anche se sarebbe meglio mangiare dopo la recita, e non prima; comunque i pizzaioli stimolati dalle presenze degli ospiti non la smettevano più di sfornare pizze, finché quando si erano fatte ormai le dieci dovetti chiedere una tregua, che mi venne a malincuore accordata. Ancora mi è rimasto in mente quello che mi disse uno dei loro responsabili, a sua volta ex tossicodipendente: se avessi avuto la fortuna di incontrare qualcuno come te, chissà, la mia vita avrebbe potuto essere diversa. Purtroppo le strade della vita non sono facili per tutti, e perdersi è facile… Mia madre si era appena rotta il femore (gliel’avevano rotto, ad essere precisi) e, per dare un piccolo messaggio che chiunque, anche se è in difficoltà, può aiutare gli altri, chiesi loro se se la sentivano di aiutarmi, facendo una sorpresa alla vecchietta che era un po’ depressa, incitandola con un “Forza Ida!” Solita gag, no dai ragazzi così la deprimete di più, ecco così va già meglio, dai una volta ancora… poi la telefonata (finta) ed un “Forza Ida!” davvero notevole. La recita era stata divertente, era piaciuta molto, saremmo voluti tornare ma non ce l’abbiamo fatta, il gruppo si è sciolto, ma di questo parleremo magari un’altra volta, se interessa.

Ho scritto troppo, sono in un bagno di sudore; quest’ottovolante di febbre e sottozero mi sta buttando a terra. Prima di lasciarvi voglio parlarvi di un uomo buono, si chiamava Alberto, Albertone perché era un omone; qualche anno fa alla Coop lo si trovava sempre alle casse, ad aiutare a riempire le borse, a portare i pesi; non lo faceva per qualche mancia ma solo per gentilezza; era sempre vestito impeccabilmente, con la sua giacca e cravatta, e d’inverno il cappotto e i guanti. Era un po’ indietro, ma era buonissimo, veniva lì e ti abbracciava, e quando ti abbracciava ti inglobava e sentivi che ti voleva bene e voleva che gliene volessi. Negli ultimi tempi era stato ricoverato in una struttura per anziani, e lì è morto, di Covid: per lui sarà stato impossibile mantenere il distanziamento, e spero che l’infermiere che lo ha accudito alla fine lo abbia abbracciato forte. Ciao, Albertone.

Isolamento!

Da ieri sera sono in isolamento, in attesa dell’esito del tampone che farò oggi. Sono stato sorpreso positivamente (si può ancora dire positivamente per indicare una cosa buona?), ieri mattina la dottoressa ha fatto la richiesta e ieri pomeriggio è già arrivato il messaggio da ATS Insubria per recarmi oggi pomeriggio in macchina a farmi fare il prelievo.

Mi ha convinto mio figlio, che ieri sera a cena è sbottato: “Papà, noi facciamo pure l’isolamento ma tu per favore non venire a tossirci addosso!” ed aveva ragione, perché infervorato da una risposta assurda nell’Eredità avevo pensato bene di dire la mia scoppiando poi in un accesso di tosse. Quando uno ha ragione ha ragione, e spero nel caso di non averli già contagiati; insomma da ieri sera sono confinato nella stanza degli ospiti che poi sarebbe anche il mio attuale posto di lavoro; la stanza sarebbe di 3×4 metri scarsi ma considerando che c’è un armadio, una libreria, il divano letto ovviamente ora aperto, la piccola scrivania, mi rimane uno spazio libero di 1×1 metri che è al di sotto degli standard carcerari.

Esco dalla camera solo per andare in bagno, e tutto quello che tocco lo disinfetto; il mangiare mi viene portato in camera con piatti bicchieri e stoviglie usa e getta che vengono poi buttati nell’indifferenziata; i fazzolettini con cui mi soffio il naso li metto in un sacchettino chiuso ed anch’essi andranno nella differenziata. Per il cambio della biancheria abbiamo istituito un sacchetto dove metto la roba sporca e lo lascio fuori dalla finestra (fortunamente dalla stanza si accede ad un balcone) e mia moglie quando ha voglia lo svuota e mette i panni a lavare.

Devo dire che stanotte il fatto di dormire da solo mi ha conciliato il sonno; ad un certo punto ho sentito in bocca un grande sapore di sale, vorrà dire qualche cosa? Mah. Non gradisco molto il dolce in questi giorni, e oggi anche di più, non so se anche questo vorrà dire qualcosa.

I miei colleghi mi invitano a riposarmi, anche se lavoricchio qualche ora più che altro per far passare il tempo; il mio fratellino che ne è appena uscito mi chiede se fossi invidioso, ed in effetti la sua dieta era allettante (vincisgrassi, tiramisù, anisetta…) ma qua non c’è trippa per gatti; i miei familiari mi invitano a non abituarmi, e in un modo o nell’altro le pagherò tutte. Serpeggia il sospetto che me lo sia beccato (se l’ho preso) cantando nel coro, anche se abbiamo mantenuto sempre il distanziamento; allo stato delle cose non si può escludere nulla, anche che l’abbiano portato in casa loro (l’unica che usciva per andare al lavoro era mia moglie, e che prendeva i mezzi…) ma questo non lo ammetteranno mai.

Ricordo che una febbre così strana, che va e viene, la ebbi poco dopo la maturità; i dottori allora ipotizzarono addirittura che si trattasse di un virus tropicale (e insinuarono che me lo fossi beccato durante la visita medica militare a Perugia, frequentando signorine di dubbia moralità _ accusa del tutto infondata, l’unica uscita che feci in quei tre giorni fu per andare a vedere il film “L’isola del dotto Moreau” con Burt Lancaster, al cui ricordo ho ancora oggi un brivido di raccapriccio) insomma non cavarono un ragno dal buco e dopo un mese buono di ricovero i miei firmarono per farmi uscire e dopo un po’ di sole e passeggiate all’aria aperta tutto passò. Che sia quell’animaletto che ha aspettato così tanti anni per rifarsi vivo?

Vi terrò aggiornati, amiche e amici, anche queste sono cronachette anche se avrei preferito non esserne il protagonista; passerà pure questa…

Fuori uso

Amiche e amici, mi scuso per non essermi fatto vivo per tutto il weekend, e se nei prossimi giorni lo farò a intermittenza; purtroppo non riuscivo a concentrarmi, la febbre continua e mi lascia abbastanza rimbambito, più del solito intendo. Ho anche pensato che rimuginare su tutto quanto non è stato fatto per evitare la situazione in cui ci troviamo non mi facesse bene; adesso il punto è sfangarla in qualche modo, nonostante le incapacità e le impreparazioni criminali, ormai si può dire, a tutti i livelli, statali, regionali, comunali, persino sanitarie; e non voglio partecipare al tiro al piccione  ma non è da paese civile che sia possibile avvicinarsi ad un ospedale solo se si ha il Covid, che tutti gli esami e terapie vengano sospesi se non urgenti e vitali (in attesa che anche quelle “normali” diventino urgenti e vitali). I direttori sanitari nominati per rappresentanza politica non hanno niente da rimproverarsi? Facile farli belli dietro i rianimatori, gli infermieri che si fanno quotidianamente il mazzo, quando non si è stati capaci di organizzare un minimo di accoglienza per i meno gravi (adesso parlano di Covid-Hotel: a Como abbiamo un intero ospedale dismesso che aveva 1000 posti letto, con i padiglioni come si faceva giustamente una volta, gli infettivi avevano i loro spazi e non andavano a incrociarsi con quelli che dovevano operarsi di appendicite…)

Ma ecco, ci sto ricadendo, è più forte di me, devo smettere: avevo messo il cervello in stand-by, e bisogna continuare così, almeno fino a giugno: giusto per tenerlo un minimo attivo mi sono visto una intera puntata di Sapiens di Mario Tozzi, il geologo divulgatore, che ha illustrato una affascinante ipotesi, e cioè che l’isola di Atlante sia da identificarsi nelle Sardegna. Confesso di non essere del tutto convinto, ma confesso anche di avere perso parti consistenti della spiegazione, non che abbia proprio dormito ma devo essere caduto in una specie di catalessi. E’ andata meglio con due film, uno del 2006, “Cambia la tua vita con un click”, con il quale volevo farmi due sane risate per ritrovarmi invece verso la fine a piangere come un vitellino quando il vecchio Fonzie, padre del protagonista, moriva, ricordando a me stesso mio padre ai tempi di Portobello, quando veniva mostrato qualche reduce di guerra una lacrimuccia ci scappava sempre, anche se la roccia si affrettava a negare.

Il giorno prima ero ritornato alla giovinezza, rivedendo l’episodio di Johnny Dorelli in Occhio, Malocchio, Prezzemolo e Finocchio (1983), dove Johnny interpretava un mago farlocco che si ritrova davvero con dei poteri donatigli da una strega (Paola Borboni); poteri che perde proprio il giorno che deve sfidare il mago Silvan, per non aver fatto in tempo a consegnare alla strega un gelato al pistacchio. Adriana Russo, Anna Kanakis in tutto il loro splendore, che mi hanno ricordato perché all’epoca ci facevano sognare. C’era anche Renzo Montagnani, nella parte del manager imbroglioncello…

Che nostalgia amiche e amici!

p.s.

sono in lista per il tampone. Vi farò sapere!