La bellezza salverà il mondo?

L’Italia, questo meraviglioso paese in cui abbiamo la fortuna di vivere, ha ben 55 siti riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’umanità (di cui 7 in comproprietà con la Svizzera o comunque presenti in Italia come San Marino e Città del Vaticano) su un totale di 1092.
Una nazione di 60 milioni di abitanti (appena lo 0,85% della popolazione mondiale) detiene il 5% del patrimonio dell’umanità: non è un miracolo questo?

Meno male che c’è l’Italia! Ma perfino l’Idiota di Dostoevkij, osservando le vicende del nostro paese, sarebbe dubbioso della sua stessa affermazione. Una vena di follia aleggia nell’aria: una volta c’era chi si credeva Napoleone mettendosi uno scolapasta in testa oggi invece c’è chi, brandendo un rosario, si crede di essere il Papa; la plebe acclama chi strilla di più, è l’eterno “salvate Barabba” invece di Gesù; nel paese dei balocchi la ministra dell’Istruzione dichiara di non leggere un libro da tre anni; la presidente della regione Umbria si dimette e poi vota contro le proprie dimissioni; chi salva vite è accusato di ogni nefandezza mentre a chi quotidianamente le toglie, a quelli che spargono guerre per il mondo, lecchiamo il didietro in continuazione. La disuguaglianza cresce continuamente e si parla non di aumentare ma di togliere le tasse a chi più ha, tanto poi c’è sempre qualcuno su cui aizzare il popolino: gli immigrati, i rom…

E la bellezza dovrebbe salvarci?

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Milan col coeur in man

Avviso i lettori che questo pezzo è scritto su commissione, in cambio di dolciumi ed altre prebende. E’ lunghino e con riferimenti che solo alcuni potranno cogliere, perciò se non ve la sentite di leggerlo non ve ne farò una colpa.

Galvanizzate dall’esperienza romana del Giubileo, le gaie coriste del Piccolo Coro mi hanno chiesto di fare il possibile per poter essere presenti alla messa del Papa al parco di Monza, il 25 marzo.
La mission non era impossible, dato che circa un milioncino di persone ha avuto la stessa idea; appena un po’ complicata dal cercare di andarci come corale, ed anche dal fatto che quando ci siamo accorti che avremmo potuto andare come corale i termini di iscrizione erano scaduti.
Ma vuoi la buona grazia con cui ho inoltrato la richiesta vuoi il fatto che, su ottomila coristi previsti, quindici in più o in meno non è che facessero tutta questa gran differenza, la nostra domanda è stata accettata e siamo quindi stati ammessi.
La preparazione è stata una passeggiata di salute: biglietti comitiva con Trenord, cartelline antipioggia per gli spartiti e sgabellino pieghevole per riposare le membra nell’attesa. Quest’ultimo in particolare è stato apprezzatissimo perché con soli 4,99 euro alla Decathlon ci ha consentito di elevarci al di sopra di cori sicuramente più bravi di noi ma non altrettanto scaltri.

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Anche Drupi era abbastanza soddisfatto

I canti non erano tali da sollevare l’entusiasmo di queste cantanti rotte ad ogni repertorio e sprezzanti di pericoli e vergogna; del Credo in un unum Deum ho già detto, per il resto era roba abbastanza pallosetta in puro stile ambrosiano. Digiuno di liturgia, mi è sembrato di capire che la differenza più significativa sia il momento in cui ci si scambia un segno di pace, ovvero ci si stringe la mano; momento sempre imbarazzante dove ciascuno cerca di non incrociare lo sguardo di sconosciuti per evitare il contatto fisico.

Il sottoscritto fin dal mattino, sarà stata la meraviglia della bella giornata sbucata a sorpresa dopo una settimana bruttarella, aveva una gran fame e nonostante la colazione abbondante si è visto costretto ad acquistare un panino con la mortadella in uno dei numerosi punti di ristoro situati durante i 4 chilometri e mezzo di distanza tra la stazione ed il parco; le coriste si sono poi, tranne deplorevoli eccezioni che ho annotato, prodigate nel rifocillarmi con paninetti barrette energetiche e persino dei grissinetti al kamut che però mi stavano rimanendo nella strozza.

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Gli zaini contengono esclusivamente generi di prima necessità

Nonostante la buona volontà non eravamo preparati al meglio: ugole debilitate e conoscenza dei canti approssimativa. La nostra direttrice Antonella da circa un mese aveva una caviglia dolorante; mi ero premunito di chiedere il permesso agli organizzatori per portarla in carrozzina ma lei stoica non ha voluto. Ha indossato delle scarpe da cantiere con dei bei rinforzi laterali e si è apprestata alla sua personalissima Via Crucis. Ricorderete forse che a Roma era stata la nostra Gemma a soffrire nei piedi, a causa delle scarpe nuove: non contenta ha rimesso le stesse scarpe, o forse da allora non è più riuscita a toglierle. Gemma è di grande utilità perché, quando ci si perde nella folla, basta tendere un attimo l’orecchio e se si sente una risata squillante è lei, insieme alle altre componenti del trio delle meraviglie Gianna (che non per lanciare accuse ma nonostante sia una valente cuoca si è dimenticata di preparare i dolcetti) e Melissa. Ad ogni modo noi schieravamo una infermiera professionale, Maura, ed un volontario della Croce Rossa, Giobatta diversamente cantante, quindi avremmo potuto infortunarci sicuri di essere degnamente assistiti.

Behind The Scenes At Taronga Western Plains Zoo

La nostra direttrice al ritorno a casa si appresta alla pedicure

La nostra Dina si aspettava di rincontrare il maestro Columbro ma il messinese stavolta a causa di impegni improrogabili non ha potuto partecipare, o quantomeno noi non l’abbiamo visto ma se ci fosse stato l’avremmo senz’altro sentito.

Il clima era quello di una bella scampagnata: plaid, sgabellini, panini e magliette a maniche corte; mancavano purtroppo le salamelle e la birra reputati non consoni all’occasione.

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Fedeli in raccoglimento in attesa del Santo Padre

L’organizzazione ha pensato bene, da mezzogiorno all’una e mezza, di intrattenere i fedeli con cantanti veri ovvero presi da Amici di Maria De Filippi o giù di lì; sinceramente non ne conoscevo nemmeno uno ma questo per mia ignoranza, non voglio togliere nulla ai bravi artisti. Giusto, il nostro fornitore di ‘nduja, cercava nel frastuono la giusta concentrazione, senza successo.

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Un oblato scozzese impartisce con competenza lezioni di gregoriano ad un ospite del Sol Levante

Lo stile ambrosiano si manifesta anche nella solerzia con cui si intraprendono le attività. Questo è il motivo per cui non appena il Papa ha lasciato il carcere di Opera, dove era stato in visita ai detenuti, il grande coro sul palco ha intonato il “Tu es Petrus” a cui ci siamo accodati; dopo un quarto d’ora si iniziavano a vedere degli sguardi smarriti, in particolare Marianna che orfana di Barillari non sapeva chi andare a importunare, e qualcuno iniziava a pensare che fosse il caso di risparmiare un po’ il fiato per arrivare fino in fondo. I nostri 3 oriundi, Cristina Sconsy e Andri erano venuti a rinforzare il plotone, ingaggiati anche stavolta a parametro zero; Cristina si è distinta per aver cercato di porsi sul tragitto del Papa ma Francesco ha girato il parco in lungo e largo tranne che sotto l’albero sul quale la nostra contralto si era stabilita. Anche uno straniero avevamo: Jolanda che più di tutte si è goduta la giornata ed ha mostrato perizia nel fabbricare cappelli di carta in stile Napoleone.

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Foto artistica di fotoreporter diversamente sobrio

Appena arrivato Francesco ci è parso un po’ provato, tanto da farci pensare che qualcuno gli avesse tirato uno scherzo da prete a farlo girare come una trottola fin dall’alba con l’obiettivo  di fiaccarlo; se era questo lo scopo non ci sono riusciti.
La messa è stata molto partecipata, e l’omelia del Papa ha richiamato come al solito tutti alle proprie responsabilità, peccato che la tendenza sia di farsi uscire da un orecchio quello che entra dall’altro, e i buoni propositi rimangono in prevalenza lettera morta.

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Utilizzo alternativo della sciarpetta

Finita la messa ci siamo incamminati verso la stazione per riprendere il nostro trenino; dopo due ore di attesa che hanno generato diverse intemperanze tra i fedeli che evidentemente avevano già perso lo spirito fraterno, alcuni dei quali sono stati ripresi dalla nostra Gemma ed invitati a riacquistare quel minimo di serenità necessaria (“e che caspita!”) è stata finalmente la nostra volta di salire, e la nostra Lorella è riuscita a farsi redarguire da una ragazzina che avrebbe potuto essere la nipote per il volume della voce. Il nostro pincher argomentava giustamente che il concetto di “alta voce” è relativo in mancanza di rilievi scientifici. Per fortuna siamo arrivati e la dimostrazione è stata rimandata.

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Cartello strappato a dei profughi polacchi ai tempi della caduta del muro

Una bella giornata, che ci ha sollevato per un po’ dalle miserie umane che ci circondano; non c’è solo del marcio, in Danimarca¹, a saperlo cercare.

(131 – continua)

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¹ credo sappiate tutti che Monza non è in Danimarca, nel caso vi stiate chiedendo che c’entri adesso l’Amleto.

 

Noella

Che splendore! Giornata migliore per andare in gita non poteva esserci. Il sole brilla e il verde smeraldo della foresta spicca contro l’azzurro del cielo. Sul Nyiragongo c’è la solita nuvoletta, ma non vale la pena preoccuparsene, non pioverà.

Da tanto tempo pensavamo di andare, ma c’era sempre qualcosa di più importante da fare: Adelio, mio marito, è un architetto, ed ha sempre da fare tra il tirare su scuole, scavare pozzi, costruire ospedali… quassù, nel Kivu, se non ci fossero ad aiutarci questi italiani saremmo messi proprio male.

Adelio… mi ricordo la prima volta che lo vidi, ero una ragazzina, e di bianchi finora avevo visto solo le suore che ci insegnavano a leggere e scrivere. Quest’omone, con quelle mani grandi e grosse, mi faceva un po’ impressione. Carboncino, mi chiamava; pian piano abbiamo fatto amicizia, e a poco a poco ha iniziato a mancarmi il suo sorriso quando se ne ripartiva per quel paese così lontano, quell’Italia di cui mi parlava sempre come il più bello dei posti. Bè, se si sta così bene come dici, che vieni a fare qua? Gli chiedevo. Lui faceva una risata, e poi mi rispondeva: se no, come facevo a conoscerti?

Il giorno che mi chiese di sposarlo mi sentii schizzare il cuore in gola. Perché proprio io? Pensai. Mi metteva paura il pensiero di andar via dal mio paese. Ma lui mi rassicurò, come sapeva fare: non preoccuparti, vivremo un po’ qua e un po’ là, hanno bisogno di noi da tutte e due le parti…

Quando arrivai la prima volta in Italia mi sentii persa. Ero arrivata in aeroporto con il mio vestitino, non avevo idea del freddo che facesse là… mi venne da piangere, avrei voluto tornare subito a casa… poi Adelio mi portò a casa, sua mamma mi vide infreddolita e corse ad abbracciarmi: tra donne ci si capisce subito.

Ne è passato di tempo! Ora abbiamo tre bellissimi figli, Roberta, Samuele e Raffaella: quest’ultima, la più grande, stavolta non ci ha seguito, doveva rimanere a casa a studiare, le scuole in Italia sono molto migliori di quelle qua in Zaire. Non vedo l’ora di tornare ed abbracciarla, e stavolta per sempre… è dura, ma la famiglia ha bisogno di rimanere unita, e per fare avanti e indietro ci vuole il fisico! Largo ai giovani… tanti amici continueranno, gli daremo una mano come potremo. Certo che la situazione è sempre più difficile; l’anno scorso in Ruanda, appena oltre le montagne, è successo il finimondo…

Avrei voluto tornare subito dalla mia Raffaella, ma i bambini hanno insistito tanto: dai mamma non fare la musona! Ed eccoci qua, comodi (si fa per dire) nel nostro furgone scassato, dentro a questo magnifico parco naturale, il Virunga, per cercare di vedere questi famosi gorilla di montagna. Figurati se si faranno vedere da noi!, dico, per farli arrabbiare. C’è una bella atmosfera… siamo insieme a Luigi, Flavio, Michelangelo e Tarcisio, tutti volontari italiani e amici di Adelio da lungo tempo; si scherza sul fatto se siano più brutti i gorilla o più brutti i volontari. Dipende, dico io, e i bambini ridono.

Eccoli là! Una intera famiglia ci attraversa la strada! Quello davanti è il maschio, è enorme! Si gira appena verso di noi, ci da uno sguardo, si gratta il sedere e se ne va ondeggiando. Dietro lo seguono una femmina e due cuccioli, il più piccolo in groppa alla madre; mentre cammina le toglie i pidocchi dalla testa e se li mangia beatamente. Quello più grandicello dev’essere un maschio, cammina imitando il padre, è proprio buffo!

Di fronte a noi, in lontananza, scorgiamo una nuvola di polvere. Una jeep, senz’altro, ma dove vanno così veloci su queste strade, sono matti? Ci incrociamo, non riusciamo nemmeno a vederli tanto corrono. Dopo qualche metro li sentiamo inchiodare, far manovra e tornare verso di noi. Che vorranno, avranno bisogno di aiuto?

La jeep ci supera, si mette di traverso. Ma che fanno, per l’amor del Cielo! Scendono in due, vengono di corsa verso di noi, hanno in mano qualcosa… armi! Iniziano a sparare. Sono  impietrita, aiuto, non ho il coraggio di voltarmi. Luigi, che fai? Ha lasciato il volante, è pieno di sangue,  mi cade addosso. Urlo. Non sento più le gambe, non riesco a muovermi: Adelio salva i bambini! Adelio scende, è ferito, lo sento, urla di prendere tutto, di risparmiare almeno i bambini; poi gli spari. Gli spari.

Questo è successo, veramente, il 6 agosto del ’95, nel Parco Virunga, nell’ex-Zaire ora Repubblica Democratica del Congo. Furono massacrati suo marito Adelio ed i loro due bambini; i loro amici Luigi, Michelangelo e Tarcisio. Si salvarono solo Flavio, perché si finse morto, e Noella che colpita e coperta di sangue fu creduta anch’essa morta. Gli assassini non furono mai scoperti, ma forse neppure veramente cercati: gli scannamenti erano e sono ancora all’ordine del giorno.

Noella si riprese, lentamente: paralizzata dalla cintola in giù, senza milza, con un polmone collassato. Non ricordava nemmeno più di avere ancora un’altra figlia, tanto era lo shock subito.

Poi si riprese. A modo suo. Avrebbe potuto maledire Dio, maledire il suo destino, sfogare tutto il suo odio per chi gli aveva fatto tutto questo. Ne avrebbe avuto il diritto.

Invece no. E c’era un motivo. Noella non poteva permettersi di odiare: aveva troppo da fare.

“Li ho perdonati. Mi sono detta: il Signore ti ha sempre perdonata. Ho pensato a mio marito e ai miei bambini: ho ricevuto tanto, devo dare tanto. Potevo morire con mia sorella a dieci anni. Potevo finire bruciata in un incendio a Goma e invece sono ancora qui, con le mani, i piedi e le braccia coperti da ustioni ma viva. Che abbiano ucciso per odio o che abbiano ucciso per soldi, anche loro non sono tranquilli. Vorrei parlarci insieme solo per questo, perché so che sarebbe l’unico modo di restituirgli un po’ di pace.  Alzando la mia mano contro di loro, che otterrei? Sangue chiama sangue.”

Noella Baghora Chikuru Castiglioni ha fondato un’associazione, la Parsac Onluc, in memoria di suo marito e dei figli scomparsi; la sua missione è quella di soccorrere i bambini e le bambine più bisognosi del suo paese, gli orfani, i disabili, gli abbandonati; in venti anni tra enormi difficoltà è riuscita a portare a termine due progetti in diverse aree della RD del Congo, ed il terzo è in dirittura di arrivo.

Il suo motto è: “il poco per l’Italia è tanto per l’Africa”. E’ una di quelle persone di cui sono orgoglioso di essere amico.

(67. continua)

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