Cronachette dell’anno nuovo (11)

Cielo grigio su, foglie gialle giù, cantavano i Dik Dik in Sognando la California negli anni ’60, ora ci accontenteremmo di molto meno, come ad esempio un weekend a Cervia o Milano Marittima, o perfino a Sottomarina, a camminare lungo la spiaggia senza scarpe e senza mascherina.

A proposito di mascherine, nel weekend peraltro come dicevo grigio e piovoso ci sono state diverse multe a gente che girava senza mascherina e a qualche ristorante che, appena riaperto, ha stipato più clienti del consentito. Ad essere onesti mi pare che anche in chiesa ieri ci fosse più gente del lecito, ma era la festa patronale ed i fedeli sono stati attirati dalla ricorrenza. La Santa in questione è Santa Brigida, non quella di Svezia patrona d’Europa ma bensì quella d’Irlanda: una figura a cavallo tra mito e realtà, di cerniera tra la fine del paganesimo e l’avvento del cristianesimo in Irlanda, in quel V secolo dove Patrizio convertiva la popolazione. Brigida fondò un convento e secondo la tradizione operò diversi miracoli, quello più famoso sull’esempio di quello di Gesù alle Nozze di Caana è la trasformazione dell’acqua in birra, ma in Irlanda le vigne scarseggiavano… l’anno scorso c’erano diverse bancarelle che vendevano prodotti tipici, quest’anno a causa del Covid si è potuto solo vendere delle specie di maritozzi vuoti qui chiamati navicelle e soprattutto la birra di cui c’è stata grande richiesta, non sarà miracolosa ma aiuta a superare questi momenti difficili. Personalmente non l’ho ancora assaggiata, ma mi dicono sia molto buona.

Per i miracoli comunque siamo attrezzati, l’Uomo della Provvidenza è al lavoro e sembra che nel giro di qualche settimana ci libererà dalla pestilenza, basterà avvicinarsi e toccare il sacro manto; i ciechi parleranno ed i sordi vedranno, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno, ma questo solo per pochi (i soliti).

Dato che difficilmente riuscirò a godere del voucher che l’anno scorso mi sono fatto dare da Ryanair, ho richiesto il rimborso; assicurano di prendere in carico la richiesta entro una settimana e di rimborsare sullo stesso mezzo di pagamento usato: peccato che la mia ricaricabile sia nel frattempo scaduta, me la vedo brutta. Spero mi lascino almeno il voucher, ma mi toccherà fare il pendolare per Palermo per smaltirlo prima che scada…

Se avete un euro da investire, in un paesino della Val d’Aosta sono in vendita case; l’iniziativa è lodevole, mi pare sia stata adottata anche in località interne della Sicilia e Calabria, e cioè in pratica si regala una casa in cambio dell’impegno ad abitare nel paese per un tot di tempo e magari di impiantare una qualche attività economica, da qualche parte hanno riconosciuto anche un bonus pecuniario. In tempi di lavoro a distanza può essere un’idea, per chi è amante della natura e magari vuol evitare i propri simili.

L’alto rappresentante della politica estera della UE è andato a sfruculiare la Russia per il trattamento riservato a Navalny e i suoi sostenitori, minacciando chissa ché. Adesso mi aspetto che si faccia anche un giretto in Turchia, in Egitto, in India, magari in Birmania (dove molta gente adesso protesta giustamente per il colpo di stato, anche se non protestavano molto quando gli stessi militari mazzolavano i Rohingya), o perché no negli Usa per chiedere conto del trattamento che hanno intenzione di riservare ad Assange nel caso in cui dovessero ottenere l’estradizione. Se i “diritti umani” sono a senso unico, sono pura ipocrisia.

Ma, amiche e amici, oggi splende un bel sole, dunque possiamo anche fare a meno di preoccuparci di quello che succede per il mondo che tanto possiamo farci poco, e poi c’è chi ci pensa per noi e meglio di noi, di me sicuramente. Come diceva ieri uno dei personaggi della serie Tv Mina Settembre, la vita è un morso; un amico di mio padre, quasi centenario, diceva la vita è un soffio, anzi “un ciuffiu”, il concetto è lo stesso.  Enjoy!

La birra rossa può avere questi effetti, in effetti.

Olena à Paris – 32

«Mi chiamo Louis D’Ivoire¹, buffo per uno nero come la pece, vero? Ma i miei antenati erano arrivati dalla Costa d’Avorio, la Côte d’Ivoire, e così la provenienza ci è rimasta nel cognome. Mio padre era un grande appassionato di Louis Armstrong, il grande Satchmo, e così volle chiamarmi come lui, e fin da quando avevo cinque, sei anni mi mandò a lezione di musica e tromba da un suo amico barbiere, lezioni che ripagavo lavorando gratis come garzone… imparai bene, tanto che iniziai presto con la professione, suonavo il jazz nei club di New Orleans ma solo con il jazz non si racimolava molto, così ogni tanto accettavo degli ingaggi per suonare in qualche orchestra, anche di musica leggera, e andavo in giro qualche mese per l’America.»
Gilda, desiderosa di riprendere a massaggiarsi i piedi, lancia un’occhiata interrogativa al musicista.
«Scusate, signora, vengo al dunque… era l’ottobre del 1960, io avevo appena venti anni e l’orchestra per cui lavoravo in quel momento fu chiamata a suonare al Metropolitan di New York in un Gran Galà organizzato dalla comunità italo-americana per appoggiare il candidato democratico alle elezioni presidenziali che si sarebbero svolte il mese successivo, John Fitzgerald Kennedy. Dovevamo accompagnare grandi artisti, Frank Sinatra, che era amico personale di Kennedy, Dean Martin, Perry Como, e dall’Italia arrivarono mister Volare Domenico Modugno, il grande pianista Renato Carosone, Tony Renis… e lei»
«Lei chi?» chiede Gilda, raddrizzandosi sulla poltrona, mentre James contravvenendo alle regole del buon maggiordomo si è seduto in un angolo su una sedia damascata.
«Lei, signora, vostra nonna Wanda» chiarisce Louis, con un sorriso riverente.
«Aspetti, aspetti» lo ferma la Calva Tettuta. «A parte il fatto che non era mia nonna ma la bisnonna di mio marito, lei mi sta dicendo che nonna Pina ha conosciuto Frank Sinatra, Dean Martin, e addirittura il presidente Kennedy? Non la confonde con qualcun’altra, che so, Wilma De Angelis o Betty Curtis, pace all’anima loro? A quell’epoca a quanto sapevo si era ritirata dalle scene…»
«No, no, nessun errore, signora. Lei ha ragione, la signora Wanda si era ritirata dalle scene, ma fu invitata personalmente da Frank Sinatra che l’aveva conosciuta in una tourneé di qualche anno prima e ne era rimasto affascinato; del resto erano quasi coetanei, così come con il presidente Kennedy, e fraternizzarono facilmente»
«In che senso “fraternizzarono”?» chiede Gilda, ormai preda della curiosità.
«In senso artistico, naturalmente» chiarisce il trombettista «anche se Wanda, permettetemi di chiamarla così, era una donna esuberante, riempiva la scena… all’epoca aveva circa quarantacinque anni, e non passava certo inosservata»
«Più o meno la mia età, effettivamente l’età migliore» concorda la vedova Rana.
«Lei aveva una voce roca, molto blues, e quella sera propose delle canzoni napoletane tradizionali, Luce ‘e notte, Torna ‘a Surriento, delle belle ballads…»
«Effettivamente alla lunga delle belle ballads. Ma in napoletano? James, ti risulta che la nonna conoscesse le lingue straniere? Mi esce da un fianco»
«La signora è stata senz’altro un’artista polivalente» risponde James in modo competente.
«Quella sera successe qualcosa che mi cambiò la vita, e la carriera. Wanda doveva aver notato, prima delle prove, qualche fraseggio che improvvisavo per riscaldamento. Così quando arrivò all’ultimo pezzo del suo programma andò verso il direttore, gli parlò in un orecchio e poi mi indicò con la sua mano guantata. Io non capivo cosa stesse succedendo, il direttore dopo qualche attimo mosse la testa e fece ok, e mi fece cenno di alzarmi e mettermi di fronte all’orchestra. Stavo letteralmente facendomela addosso, quando Wanda mi si avvicinò, le spalle nude rivolte al pubblico, e strizzandomi l’occhio mi disse “Baby, ho sentito dire che hai le palle. E’ ora di tirarle fuori, non trovi?”. E senza lasciarmi il tempo di rispondere attaccò “Era de maggio”, con l’orchestra muta, ed io solo a sostenere il suo canto. Fu una cosa magica, un trionfo… la platea era tutta in piedi, e Kennedy in persona salì sul palco a consegnarle un mazzo di fiori. Dopo lo show andai a ringraziarla in camerino, lei mi abbracciò e guardandomi negli occhi mi disse: “Baby, da domani sarai su tutte le copertine, ma dammi retta. Lascia stare questa merda, suona il jazz”. E così ho fatto, è stata dura ma ho fatto quello per cui ero nato. Ho aperto anche una scuola per giovani che hanno voglia di imparare ma non hanno i mezzi, sua nonna ci mandava un paio di volte l’anno degli strumenti e ci aiutava a pagare l’affitto dei locali, lo sapeva signora?»
«No, veramente io… tu sapevi qualcosa, James?»
«No, signora, ne ero all’oscuro, ma la signora era molto munifica» risponde James, commosso.
Il trombettista si alza, tira fuori dalla marsina una busta e la poggia sul tavolo.
«E questo che cos’é?» chiede Gilda, confusa più che mai.
«E’ il nostro compenso, signora. Non posso accettarlo, questa volta offro io.»

¹ NdA: Per facilitare la comprensione il racconto di Louis D’Ivoire non è riportato in lingua originale ma nella sua traduzione italiana.

Era una casa molto carina

Riprendo questo vecchio post, perché uno dei protagonisti di quella storia non c’è più. Avremmo voluto camminare insieme, da vecchi, curvi e spennacchiati, magari appoggiandoci ad un bastone, raccontandoci questa ed altre storie, anche inventate, perché no . Scuotendo la testa al passare dei giovani del domani, sorridendo ai futuri nipoti facendo finta di non riconoscerli, e guardando di soppiatto le belle figliole, che uno diventa vecchio ma mica per quello smette di apprezzare le cose belle.
La foto sotto è ora più che mai del secolo scorso, ed è passata tutta una vita che in un post non si può raccontare. Eravamo belli dentro e fuori, cresciuti tra persone belle dentro e fuori, e abbiamo cercato di rimanere così, un pò fuori moda forse, ma orgogliosi di esserlo. La vita è un ciuffiu, Stè, riposa in pace amico mio.

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L'uomo che avrebbe voluto essere grave

L’appartamento dove ho abitato da bambino era molto carino. Si trovava in una casa del centro storico (“dentro le mura”), quelle case che si toccano tutte l’una con l’altra, sulla via che taglia l’intero paese dalla Porta di Sopra alla Porta di Sotto (non ci si può sbagliare), Via Roma.

I miei l’avevano preso in affitto dal padrone di una fabbrichetta di casse da morto. Uno stabilimento artigiano come altri: ad esempio ce n’era uno che produceva cappelli e borse di paglia ma a differenza del primo questo, dopo qualche anno, passò di moda.

La casa aveva due piani: noi occupavamo quello superiore e di sotto c’era la famiglia del mio amico Stelvio. Il nostro appartamento godeva di qualche privilegio: innanzitutto la vista, e poi avevamo il bagnetto (tazza e lavandino) a cui si accedeva uscendo sul balconcino della camera matrimoniale.  Stelvio invece per farla doveva uscire proprio di casa…

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Filosofamenti

Sfortunatamente all’Istituto Tecnico non ci insegnavano filosofia, anche perché di filosofi ce ne sono in giro già troppi ed avremmo inflazionato la categoria, così devo confessare di conoscere poco Rousseau e persino Voltaire.
Tra parentesi l’ITIS che ho frequentato con buon profitto è stato lesionato nel terremoto dello scorso anno ed è stato abbattuto, laboratorio di aggiustaggio compreso.

Dicevo di Rousseau e Voltaire, accomunati nell’immaginario studentesco sotto la voce “illuministi”, la qual parola da sola garantiva la certezza di una sufficienza piena; se poi ci si aggiungeva qualche frasetta sulla fiducia nel progresso, l’egualitarismo e la libertà si poteva arrivare facili facili ad un distinto.¹

Si pensa che i filosofi siano gente che sta tutto il giorno panza all’aria a struggersi tormentosamente sulle disgrazie del mondo, sul senso del nostro essere, chi siamo e dove andiamo. Personalmente non ho niente in contrario, tra l’altro mi sembra che ci sia notevolmente bisogno di esseri pensanti. Ma è un luogo comune, e poi non tutti passano il tempo con occupazioni così gravose: il dottor Marchionne ad esempio è un filosofo, tutti i figli che vogliono studiare filosofia lo portano come esempio ai genitori che si preoccupano di come porteranno a casa il pane: “eh mamma, anche Marchionne è un filosofo”. Così i genitori, già pregustando un giretto in Ferrari, sganciano i soldi per l’iscrizione senza più timori occupazionali.

Non so voi, io non mi sono ancora accostato alla piattaforma Rousseau² per due motivi: uno perchè non mi ritengo all’altezza di un nome tanto altisonante, uomo complesso peraltro se è vero che passò dal calvinismo al cattolicesimo e ritorno per poi finire al deismo nonché sofferente di stenosi all’uretra e questo potrebbe spiegare molto; e l’altro perché avendo poca stima degli informatici³ come categoria, anche se singolarmente ne conosco di eccellenti specialmente quando stanno lontani dagli amati computer, non mi fido a mettere i miei voti in balia di qualcosa di digitale.
Anche per questo sono contrario al voto elettronico, e sarei anzi favorevole all’introduzione, come nel recente referendum curdo, del voto tramite pollicione, dopo averlo intinto ben bene nell’inchiostro.

A ben vedere le poche note che ho riportato su Rousseau le ho tratte da wikipedia, l’enciclopedia on-line; una volta avrei dovuto consultare l’enciclopedia cartacea, che per un enciclopedista sarebbe stato decisamente un omaggio più adatto. I miei genitori alle elementari mi avevano comprato l’enciclopedia Conoscere. A rate, sacrificio mica da poco. Era bellissima, l’ho letta e riletta non so quante volte; gli articoli non erano corredati da foto ma da disegni, e le voci non erano riportate in ordine alfabetico ma alla rinfusa, così potevate trovare Garibaldi alla pagina successiva del funzionamento dell’altoforno; credo che l’avessero fatto apposta per spingere alla lettura di un po’ di tutto, senza fissazioni; sono convinto che quel poco di cultura che mi è rimasta dentro lo devo alla lettura di Conoscere e anche questo spiega tante cose.

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A proposito di cultura, mi ha colpito in questi giorni quanto riportato sulla modella ceca Ivana Mrázová, che Dio la benedica, che per tenere tonico il fondoschiena farebbe una ginnastica peculiare, consistente nel flettere il busto in avanti a 90° con le gambe leggermente divaricate stringendo una candela tra le natiche. L’attività ad un filosofo potrebbe sembrare ininfluente ai fini della comprensione dei misteri dell’uomo, tuttavia non mi sento di condannare la bella ceca perché in fondo il fondoschiena le garantisce pane e companatico ed è giusto trattarlo con il dovuto riguardo. E poi, cari amici: provateci voi! Il vostro cronista, al netto della candela che non era disponibile (ed usare una torcia elettrica non avrebbe avuto lo stesso effetto), si è cimentato nell’esercizio e non ha ottenuto risultati brillanti. Il ricordo di una igienista dentale che tacciava di culo flaccido il suo benefattore, con vera ingratitudine, mi ha tormentato ed ho deciso di correre ai ripari.

Prontamente è comparsa una ricerca, credo inglese, che dimostrava come l’attività fisica migliori il rendimento sessuale. Che scoperta. Anche se, secondo me, il troppo stroppia: un ex collega, patito di culturismo, si bombava di anabolizzanti e raccontava che per un mesetto si ritrovava totalmente impotente, per poi avere una settimana di testosterone alle stelle per cui doveva assolutamente dare sfogo alle energie represse. L’altra sera ho sentito un bel proverbio, “chi tène ‘a tartaruga non tène ‘o serpente”, che è abbastanza lusinghiero per chi si avvicina ormai a tenere il pappagallo, che sempre animale è.

Il morale comunque, almeno quello, si è sollevato nell’apprendere che le donne arabe potranno guidare! Con un tutore uomo che azionerà volante, freni, frizione e acceleratore ma potranno guidare. Brave! Ancora qualche annetto e potranno andare in bicicletta, sempre che ne abbiano voglia.

(162 – continua)

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¹ Erano tempi in cui non portavamo sulle spalle zaini di chili per dimostrare di  andare a scuola: avevamo una cinghia che teneva insieme il minimo indispensabile. Il resto lo tenevamo dentro la zucca.
² La piattaforma Rousseau si definisce il sistema operativo del movimento 5 stelle. Io sapevo che i sistemi operativi servissero ai computer ed agli automi, ma sono vecchio
³ L’informatica è quella scienza che complica le cose facili e inventa sempre nuovi modi per eliminare posti di lavoro.

Tutti ar mare

“Tutti ar mare,
 tutti ar mare
 a mostra’ le chiappe chiare,
 co’ li pesci,
 in mezzo all’onne,
 noi s’annamo a diverti’”

Così cantava Gabriella Ferri nel 1973: uno sberleffo, una canzonatura, che in poche righe descriveva quel proletariato fantozziano che, compresso nelle utilitarie Fiat, arrivava sudato e caciarone alla agognata spiaggia dove, dopo aver installato ombrelloni, sdraio e non di rado tavolini e sedie, non appena tolti i vestiti e rimasto in costume si tuffava subito in acqua; pochissimi sapevano nuotare e i più rimanevano a riva, dove si toccava.

Vi ho già detto che al mare mi annoio? In compenso in montagna mi stufo. Me ne sto bene a casa mia e non sentirei nessun bisogno di staccare la spina o ricaricare le pile, giacché cerco di ricaricarmi in altri modi che non siano quelli dell’oziare sotto un ombrellone pagato a caro prezzo soppesando fondoschiena femminili protetto dalla riservatezza degli occhiali da sole. No, no, datemi un divano o una sdraio in terrazza, una birretta, un libro, un quaderno ed una biro e mi ricarico da me.

Quando ero bambino ed ancora figlio unico, nei primi anni ’60, qualche volta andavamo al mare con i nostri vicini, Antonio e Rosa, che avevano due figli, Stelvio mio coetaneo e caro amico e Vania, che a dispetto del nome non era uno zio ma la sorella appena più grande. Partivamo al mattino e tornavamo la sera, mai andato in vacanza con la famiglia, e chi poteva permetterselo? Per i bambini c’erano le colonie, mare o montagna a seconda dei bisogni. Forse è per questo che ancora oggi quando vado al mare ho la fastidiosa sensazione di sprecare tempo e soldi.
Ma, tornando a quelle spiagge, le donne erano di corporatura tradizionale, cosa che oggi è raramente riscontrabile se non nella protagonista dei romanzi di Alexander McCall Smith, Precious Ramotswe, ambientati però in Botswana, ed indossavano il costume rigorosamente intero.

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In testa avevano dei fazzoletti colorati, o degli ampi cappelli di paglia; sopra il costume portavano un vestitino leggero con i bottoni sul davanti, di tessuto stampato con fantasie floreali, e lo toglievano con pudore, anche perché la depilazione brasiliana era sconosciuta, ma forse la depilazione tout-court; noi avevamo degli slippini, maschi e femmine, ed anche i padri avevano dei costumi a slip, sempre gli stessi per anni e anni, simili a quelli di Johnny Weismuller in Tarzan.

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C’è da dire che, trattandosi di lavoratori, i fisici non erano da disprezzare: spalle larghe, torace ampio e ricoperto di virile peluria (uomini depilati non esistevano o almeno nel mio piccolo mondo erano sconosciuti, con l’eccezione dei ciclisti), gambe e braccia muscolose.
Altro che crema solare, altro che protezione 50! In genere si tornava a casa tutti arrossati e venivano applicati degli impacchi lenitivi a base di amido, che toglievano l’infiammazione.

Tempi beati! Il buco dell’ozono non esisteva ed il sole non era un nemico da temere; non si contavano le calorie col bilancino perché tanto tutto quello che si metteva dentro in poco tempo si bruciava.

Mi accorgo ora che più passa il tempo più sviluppo senili forme di insofferenza, e delle vacanze al mare mi danno fastidio cose che ieri mi lasciavano indifferente:
a) ci sono troppi cani in giro o forse troppi padroni di cani; a me i cani piacciono ma quando vengono trattati come bambini non lo sopporto, non è nemmeno dignitoso per loro;
b) ci sono troppi tatuaggi ed alcuni decisamente assurdi;
c) gli ombrelloni costano troppo (l’ho già detto?);
d) ci sono troppi ragazzi che vanno in bicicletta parlando al cellulare; diventeranno degli adulti che guideranno l’auto guardando il cellulare e causeranno incidenti: propongo in via preventiva di non concedergli la patente;
e) le biciclette in dotazione agli alberghi hanno le selle troppo dure, già pedalare stando attenti ai cani al guinzaglio ed ai ragazzi con i cellulari è faticoso, perché aggiungere altra pena;
f) sarei favorevole a comminare il daspo dalle spiagge a chi tira i gavettoni a ferragosto.

Avrete capito da questo breve elenco come al mare non sia propriamente socievole. E quella cavolo di sella mi da un fastidio del diavolo. Buone vacanze!

(155 – continua)

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Nota.
Le miss della foto di copertina sulle nostre spiagge, molto più morigerate, non esistevano. O almeno io non le ricordo, o forse allora non ci facevo caso?

Ki ti foi atesso?!?

Nel febbraio del 1968, quando Paolo Villaggio¹ comparve in televisione in “Quelli della domenica” con i suoi personaggi, il Professor Otto von Kranz e Giandomenico Fracchia, non avevo ancora 9 anni.
C’erano solo due canali ed in bianco e nero; sul primo canale, dopo la Tv dei ragazzi e prima della partita di calcio, c’era questo nuovo varietà, con comici che avrebbero segnato tutta un’epoca come Cochi e Renato, Ric e Gian, e appunto Paolo Villaggio.
Solo per dare un’idea del livello di certi spettacoli, la regia era di Romolo Siena ed i testi erano scritti da Marcello Marchesi, Terzoli & Vaime e Maurizio Costanzo; l’orchestra era diretta da quel mostro sacro che era Gorni Kramer. Gli ospiti musicali erano bravissimi.

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Mi piaceva guardare la partita di calcio con mio padre, seduti al tavolo della cucina, un tavolo con il piano in fòrmica rossa che serviva per il pranzo e per lo studio, nella casetta di cui vi ho già parlato, in uno di quei pochi momenti di complicità tra “uomini”, che allora i genitori facevano i genitori, mica gli amici dei figli; non avevamo divani, sedevamo sulle sedie normali, babbo con il gomito appoggiato al tavolo e le gambe accavallate, io con i piedi che non toccavano terra, con le mani sotto le cosce, a tenerle calde, tutto contento di essere lì.
Nell’aria c’era l’odore della cena che mamma stava preparando; mia sorella, 4 anni, sgambettava intorno come una donnina e l’ultimo arrivato reclamava la sua parte di attenzione.
Quest’ultimo fratello, il terzo della serie, aveva appena compiuto un anno, e l’anno dopo sarebbe nato il quarto (e ultimo); mia madre lo ebbe a nemmeno 34 anni, età alla quale oggi la maggior parte delle donne non ha avuto nemmeno il primo.

Qualche settimana più tardi sarebbe iniziato lo Zecchino d’Oro, presentato da Cino Tortorella alias Mago Zurlì, con il Piccolo Coro dell’Antoniano diretto da Mariele Ventre; l’anno prima aveva vinto Popoff, quell’anno avrebbe vinto Quarantaquattro gatti, e grande successo ebbero Il valzer del moscerino cantata da Cristina D’Avena, che assomigliava vagamente a mia sorella, e il Torero Camomillo.

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Il festival di Sanremo era appena finito, l’aveva presentato Pippo Baudo e le canzoni si cantavano in coppia; vinse Canzone per te, cantata da Sergio Endrigo e Roberto Carlos; i concorrenti erano artisti formidabili, basti pensare che tra gli stranieri in gara c’erano Louis Armstrong, Wilson Pickett, Paul Anka, Shirley Bassey, Dionne Warwick e gli italiani non erano da meno: Celentano, Milva, Ornella Vanoni, Ranieri, Modugno, Al Bano, Gigliola Cinquetti, Iva Zanicchi, Marisa Sannia, Little Tony, Johnny Dorelli….

Ma non fatevi trarre in inganno, non pensate che passassimo tutto il tempo a guardare la televisione! Anzi, la televisione era una concessione, ed andava presa a dosi parsimoniose. E poi, mica avevamo tanto tempo per guardare la televisione. Scuola, doposcuola, catechismo, compiti, e solo quando tutto era fatto si poteva uscire a giocare con gli amici… da soli, mica coi grandi sempre tra i piedi a controllare! A giocare a pallone, a palline, a figurine, a nascondino ad acchiapparella insomma tutti giochi che non si facevano da soli contro un computer e soprattutto che non costavano niente e non dovevano costare niente.
E i libri… non che in casa avessimo una gran biblioteca, ma quelli che c’erano li leggevo e rileggevo fino a consumarli.

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Tornando a Villaggio, le maschere che proponeva, viste da un bambino, ricordavano quelle delle comiche; personaggi improbabili alle prese con situazioni ridicole, Fracchia sulla famosa poltrona, Kranz che si batte con il martello per dimostrare di non sentire dolore, e va poi a urlare nei camerini… e le avventure di Fantozzi, per noi quasi aliene, perché raccontavano di un modo di lavorare che da noi era sconosciuto (nella zona c’era molta agricoltura, artigianato, qualche fabbrichetta ma grandi industrie non ce n’erano, gli impiegati erano in banca o al comune, e non erano considerati delle nullità ma erano ben considerati) se non per sentito dire dai parenti emigrati al “nord”.

Solo dopo qualche anno riuscii a capire di che si parlava. Fantozzi l’ho amato molto, mia moglie invece l’ha sempre odiato, lei sindacalista, perché rappresentava quanto di peggio c’è in un lavoratore: la mancanza di spina dorsale, il servilismo verso il potente, la rassegnazione ad ogni sopruso, la prepotenza verso i più deboli (in questo caso la moglie, la signora Pina), accomunando in questa avversione maschera e attore, Fantozzi e Villaggio.

“Quelli della domenica” finì in giugno; in quel giugno si svolsero in Italia i campionati Europei di calcio, che vincemmo contro la Jugoslavia, per la prima ed unica volta, nella seconda partita di finale, dato che la prima era finita in parità; ed alla finale eravamo arrivati dopo aver pareggiato contro l’URSS, grazie alla scelta fortunata della monetina da parte del nostro capitano Giacinto Facchetti².

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Ma non era mia intenzione fare una cronologia del 1968, solo di cercare di riportare alcune delle sensazioni di un bambino di allora: eravamo più semplici, più ingenui, più poveri se si intende la mancanza di un certo benessere, ma non certo più poveri di sogni, di volontà e di speranze; anzi, avevamo una speranza illimitata nel futuro, l’anno successivo l’uomo sarebbe arrivato sulla luna e nulla ci sembrava impossibile.

Quello che avevo allora non lo avrei cambiato, e non lo cambierei, per niente al mondo; e sono abbastanza sicuro che parecchie delle cose di cinquant’anni fa che ho raccontato, tra cinquant’anni saranno ricordate ancora; di quello che c’è in giro oggi, non credo proprio.³

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¹ Quando l’altro giorno hanno dato la notizia della morte di Paolo Villaggio mi sono meravigliato. Pensavo lo fosse già da anni.
² Mi rendo conto che la maggior parte delle persone che ho citato è morta. Qualcuno però campa ancora e quando morirà mi darà modo di ricordare i bei tempi. Cavoli vostri.
³ Sicuramente se oggi le donne fanno figli ad oltre 35 anni, se le trasmissioni televisive fanno pena, se un cantante dura lo spazio di un mattino e poi viene bruciato, se per vedere una partita bisogna farsi l’abbonamento a Sky, se Urss e Jugoslavia non esistono più, se le magnifiche sorti e progressive dell’umanità all’orizzonte non si vedono, se la disoccupazione giovanile è vicina al 40% e noi dobbiamo lavorare fino a settant’anni abbiamo sbagliato qualcosa. Siamo stati dei Fantozzi: quando era il momento di ribellarsi ad un mondo che andava dove non ci piaceva, siamo stati delle merdacce.
³ E’ morta anche Solvi Stubing, la bionda spumeggiante della pubblicità Peroni. Quelli della mia generazione quando immaginavano una tedesca pensavano a Solvi; quelli di adesso ad Angela Merkel. Poi dite che siamo andati avanti?

Ossi

L’altra sera Luciana Littizzetto, la nota comica torinese, nella sua consueta rubrica su “Che tempo che fa” ci ha edotti sul risultato degli studi di alcuni ricercatori inglesi che, evidentemente non proprio oberati di lavoro, hanno mescolato le ossa di un uomo di Neanderthal e poi, nel rimetterle insieme, si sono accorti che ne avanzava una ed hanno pensato bene, come una carota in un pupazzo di neve, di infilarglielo da qualche parte. La prognosi degli studiosi, dopo ponderosi studi corroborati da numerose pinte di birra doppio malto, è stata: è un osso del cazzo.

Qui la simpatica cabarettista per amore di battuta ha voluto un po’ esagerare, cercando di spiegare il motivo per cui ora l’osso non lo abbiamo più mentre avrebbe fatto piuttosto comodo; il fatto è che, sebbene per qualche esemplare si faccia fatica ad  accettarlo, l’homo sapiens non discende dall’homo neanderthalensis ma si è sviluppato per suo conto. C’è anzi il fondato sospetto che la nostra specie, pur con l’appendice floscia, abbia sterminato gli abominevoli con l’osso, ma non ci sono ancora le prove scientifiche e per averne la certezza occorreranno ancora parecchie generazioni di ricercatori e soprattutto parecchie pinte di birra. Con questo ho dato fondo a tutte le mie nozioni di paleontologia, pertanto vi invito ad approfondire la questione a casa vostra, con calma.

Chiedo a chi conosce il mondo più di me: ma in Inghilterra, giacché gran parte di queste scoperte viene da lì, tengono dei dipartimenti di ricerca appositi per far felici i comici? Possibile dico io che dal 1829 ad oggi nessuno abbia fatto caso a questo ossetto e tutti quanti, non sapendo dove metterlo, l’abbiano appioppato a casaccio da qualche altra parte dello scheletro? Faccio fatica a crederlo.

A proposito di ossi, il nostro ministro del Lavoro, dei Voucher e delle cooperative si è distinto per una dichiarazione che una volta tanto condivido. Parliamo tanto dei centomila cervelli costretti ad emigrare: ma siamo proprio sicuri che siano tutti-tutti ‘sti gran cervelli? Non è che qualcuno di questi cervelloni era in quella stanzetta a cercare di incastrare l’osso, come un cubo di Rubik? Vorrei essere rassicurato sulla questione. L’altra parte del discorso, che condivido però solo in parte, è: d’accordo, quelli che vanno all’estero saranno sicuramente bravi, ma non è che chi rimane qua sia necessariamente un coglione. No, è vero, non necessariamente: è una libera scelta che specialmente gli ingegneri informatici, che ben conosco, abbracciano spesso.

Rivolgo un appello alle donne: Madri, impedite ai vostri figli di diventare ingegneri informatici! Piuttosto indirizzateli ad attività più oneste come lo spaccio di stupefacenti o il gioco d’azzardo, faranno meno danni! Sorelle, se avete un fratello che vuol diventare ingegnere informatico, fategli terra bruciata con le vostre amiche raccontandogli di quanto poco si lavi, di quanto ami rubarvi i vestiti e rimirarsi davanti allo specchio vestito da Barbie Principessa! Mogli, se inavvertitamente avete sposato un ingegnere informatico, evitate di perpetuarne la stirpe! Concupite e concepite, ma non con lui!

Mentre i nostri amici inglesi si trastullano con i loro ossetti, noi brandiremo l’osso che più ci piace: quello del prosciutto! Voglio chiudere con un’immagine che farà inumidire le ciglia ai cuori sensibili del secolo scorso: Capodanno, famiglia e parenti, bambini, fratelli e cugini, pentolone con fagioli, cotiche e osso di prosciutto, di quel prosciutto fatto in casa l’anno prima e arrivato alla fine giusto per l’occasione, quel prosciutto che ci aveva accompagnato in quasi tutte le giornate di scuola, altro che merendine, altro che pizzette: pane e salsiccia, pane e ciauscolo, pane e prosciutto…

Per essere felici non c’è bisogno di avere tante cose, o di sapere tante cose. Anche un osso può bastare, se è quello giusto e, soprattutto, se è usato bene.

(116. continua)

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Tripoli, bel suol d’amore

Nel ’68 una ventenne e bellissima Patti Pravo lanciava il brano Tripoli 1969, che raccontava di una donna che soffriva aspettando che il suo uomo ritornasse, o quantomeno ritornasse in se, dopo una battaglia d’amore combattuta in altri lidi e soprattutto altri letti (Tripoli, bel suol d’amore!). Alla fine il battagliero uomo tornava al calduccio della propria casetta dove trovava la mogliettina, che nel frattempo aveva versato più di una lacrimuccia, ad attenderlo; abbastanza controcorrente, all’epoca dei fermenti femministi; oggi direi inverosimile, anche se tutti i giorni le vicende di cronaca che vedono certe donne succubi in maniera quasi masochistica dei loro uomini sono lì a smentirmi.

La Libia è grande quasi 6 volte l’Italia. Essendo il territorio per più del 90% desertico o semidesertico, la popolazione è appena poco più di un decimo di quella italiana; nel 1911, in una delle guerricciole coloniali di inizio novecento, alla ricerca della quarta sponda, la strappammo al moribondo Impero Ottomano e considerando che Tripoli è ad appena 300 chilometri in linea d’aria da Lampedusa ed a 470 da Ragusa, non fu del tutto una cattiva idea. Del resto l’Africa dalla Conferenza di Berlino del 1884 era diventata un grande campo di conquista ed alla giovane nazione italiana non erano rimaste molte verze da sfogliare: parte del Corno d’Africa, dove tra l’altro gli abissini ce le suonarono di brutto, e appunto la Libia.

A proposito di Abissinia, ricorderete di come mio nonno Gaetano fosse partito nel ’35 per civilizzare i sudditi di Hailé Selassié; lo fece perché non aveva mai preso il treno e probabilmente attratto dalla propaganda sulle faccette nere; sospetto che abbia sparso zii illegittimi in giro per l’Etiopia, se così fosse potrei avere qualche parente rastafariano e lo pregherei di farsi vivo con adeguata dotazione di ganja.

Dunque rimanemmo in Libia, con le buone ma spesso con le cattive, fino al ’43 quando gli inglesi ci buttarono fuori a calci; schierare scatolette di latta contro carrarmati M4 Sherman di solito non è un buon viatico per il successo, ma giusto quello ci era rimasto e finì come finì, conseguentemente.

Mio padre non ha un buon ricordo del Nordafrica. Nel ’44, a sedici anni, era stato portato in campeggio all’Alpe del Viceré con un gruppo di coetanei. In quel momento dalle nostre parti “passò il fronte”, cioè i tedeschi  incalzati dagli alleati si attestarono più a nord, sulla linea Gotica; i campeggiatori si trovarono quindi impossibilitati a tornare a casa e si ritrovarono arruolati “volontariamente” nella Repubblica di Salò. Fortunatamente, in uno dei primi turni di guardia a cui furono destinati,  furono presi prigionieri dai partigiani che li consegnarono agli inglesi; questi li impacchettarono per l’Algeria da cui riportò a casa: a) la pelle, e questo fu molto positivo; b) l’avversione per i viaggi in genere e specialmente per quelli via mare; c) la rimozione dei ricordi di tutto quel periodo; d) un odio perpetuo per i campeggi.

Non vorrei apparire nostalgico del colonialismo, ma è un dato di fatto che le varie liberazioni non hanno portato questi gran miglioramenti. Forse gli africani devono liberarsi anche dagli africani; un continente ripieno di ricchezze naturali e di gente che muore di fame evidentemente ha qualche problema. Diciamo che il sistema economico e politico imperante non spinge alla condivisione o almeno alla distribuzione: arrangiatevi e chi può si arricchisca, è la parola d’ordine.

Oggi leggo un’intervista al presidente Obama che definisce il risultato dell’intervento Nato in Libia “una merda”. Queste esternazioni a babbo morto (è proprio il caso di dirlo) lasciano sempre sbalorditi: ma tu dov’eri viene in mente di chiedere? Non mi rassicura pensare che alle prossime elezioni si contenderanno la presidenza del paese guida dell’umanità (secondo loro) la Clinton, artefice di quella merda e moglie dell’altro artefice delle merde nei balcani, e Trump al confronto del quale il nostro Mr. B. sembra uno statista; tra l’altro bisogna riconoscere a Berlusconi che se in quel 2011 non fosse stato politicamente cotto non si sarebbe prestato all’aggressione a Gheddafi, finita con democratico linciaggio, che ha ridotto la Libia a carne di porco.

La quale Libia, occorre ricordare, era uno dei paesi più sviluppati del Nordafrica; la stabilità garantita da Gheddafi, anche a randellate, aveva portato un benessere abbastanza diffuso ed i servizi erano di primordine; in Libia erano a lavorare circa due milioni di immigrati e udite udite i fondamentalisti erano fuori legge. Gheddafi era passato nel corso dei decenni da Grande Satana, in quanto finanziatore di terroristi, a partner affidabile; con noi c’erano accordi economici e militari; sui profughi abbiamo usato la Libia come grande campo di concentramento, pronti poi a rinfacciarglielo quando siamo andati a bombardarlo.

In compenso ora diamo miliardi di euro alla Turchia per tenerli lì, i profughi che scappano da quell’altra merda che è la Siria: quella Turchia che bombarda tutti i giorni i curdi per i quali eravamo andati a far guerra a Saddam. Quindi i curdi iracheni sono buoni perché li gasava il “dittatore” Saddam ma quelli turchi e siriani sono cattivi perché li bombarda il “democratico” Erdogan. Misteri della realpolitik.

Avendo esaurito le riserve di Recioto non sono in grado di prevedere come andrà a finire; intanto potrebbe non essere inutile ripassare qualche strofa della celebre marcetta:

“Tripoli, bel suol d’amore,
ti giunga dolce questa mia canzon.
Sventoli il Tricolore
sulle torri al rombo del cannon!
Naviga, o corazzata
benigno è il vento e dolce la stagion.
Tripoli, terra incantata,
sarai italiana al rombo del cannon!”  
 

(89.continua)

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Titì nun ce lassà

Nella commedia “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” del grande Ettore Scola, il cialtrone Titino interpretato da un maiuscolo Nino Manfredi, dopo essere diventato persino stregone del villaggio, in dubbio tra il ritorno alla civiltà e l’appello rivoltogli dai membri della sua tribù (“Titì nun ce lassà”) sceglie la libertà: sale sulla sponda della nave e si tuffa verso il suo villaggio.

Rivendico il diritto di cambiare idea! Lo dice persino il nostro attuale ministro del tesoro a proposito dei limiti all’utilizzo del denaro contante, fino a ieri considerato sterco del demonio ed ora elevato  a motore di sviluppo; che dopo aver costretto tutti i pensionati ad aprire un conto corrente, anche quelli che non ne avrebbero avuto la minima intenzione, togliendogli il passatempo preferito di far la fila alle poste, ora si affermi che chiunque abbia un gruzzoletto sotto al materasso  lo possa spendere senza temere controllo alcuno sia giusto e sacrosanto mi conforta un po’; nel senso che, se come livello di cialtronaggine massima alla quale potevo aspirare c’era quello del buon Titino, la nuova vetta ministeriale per quanti sforzi potrò fare mi sarà irraggiungibile.

Credo di non essere stato l’unico ragazzo, a fronte di qualche rampogna o di qualche rimprovero ritenuto eccessivo o immeritato, ad immaginare di togliersi di mezzo per il gusto di vedere poi la reazione dei congiunti rimasti. “Vengo anch’io, no tu no”, insomma; come il buon Jannacci, immaginare di essere al proprio funerale per vedere l’effetto che fa. Fortunatamente soppesati i pro e contro, dove in cima alla lista dei contro c’è il fatto di non essere proprio sicuri di poter assistere in prima fila alla cerimonia, si finisce quasi sempre per desistere dal proposito.

L’ora delle decisioni irrevocabili, comunque, nel mio caso è passata da un pezzo ; se ormai persino i Papi possono dimettersi come un qualsiasi impiegato dell’Anas, non c’è scandalo se un povero cantastorie scrive di non voler scrivere più, per poi smentirsi il giorno dopo scrivendo di essersi pentito di aver scritto di non voler scrivere più.

Del resto come si fa a restare rintanati nel proprio orticello quando vengono messi a repentaglio i pilastri stessi sui quali si basa la propria cultura? Come non levare una parola indignata e pietosa in difesa del prelibato ciauscolo (o ciavuscolo, o ciabuscolo, fate voi) minacciato di estinzione (Immagino un dialogo nei corridoi dell’Organizzazione mondiale della sanità. Due ricercatori si incontrano. -“Ciao Mike, tutto bene? Di che ti stai occupando ora?” -“Di Ebola” -“Grande! Che sfida! Bellissimo, siamo orgogliosi di voi!” -“Grazie John. E tu, di che ti occupi?” -“Io? Io… ehm..  di salami” -“Ah. Ciao, John”)? Come non preoccuparsi per la prossima apertura alle proteine degli insetti? A tal proposito non so bene quale sia la posizione dei vegani, che come saprete non sono esponenti di una razza aliena qua convenuti da una lontana galassia ma seguaci di una alimentazione esclusivamente vegetale; contenti loro, parafrasando il notoriamente tollerante presidente della Figc (non la federazione giovanile comunista, non c’è più: la federazione gioco calcio), anche se non credo che con tale dieta l’uomo avrebbe potuto raggiungere l’attuale livello evolutivo: molto probabilmente sarebbe rimasto a penzolare su delle liane sbucciando banane.

La mia posizione, pragmatica come al solito, è dunque simile a quella dello scrivano Bartleby : preferirei di no; a differenza di quello, tuttavia, in mancanza di meglio mi acconcerei probabilmente anche ad assaggiare larve, ma solo come estrema ratio.

Prevedo che, tra qualche anno, quando la nuova dieta proteica avrà preso piede, associazioni di ambientalisti si schiereranno contro gli allevamenti di larve; gruppi di animalisti apriranno le gabbie a nuvole di cavallette; allevatori bio protesteranno che i loro bacarozzi sono selezionati secondo le più severe regole Iso-9000.

Non credo che le rigide regole sanitarie odierne lo consentano ancora, ma ricordo con tenerezza quando, da piccolo, in casa nostra si faceva la “pista”. Non abitando in campagna, e non rientrando il maiale nel novero degli animali da compagnia, non era allevato da noi; una volta ammazzato, in modo meno misericordioso di quanto si faccia oggi, veniva tagliato in due e babbo ne portava a casa la metà, una “pacca”. Sul tavolo e credenza della cucina si allestivano gli strumenti, coltelli affilati, tritacarne; veniva in casa un esperto, il pistaiolo (lu pistarolu) che disossava la carcassa e sapeva quali pezzi usare per ciascun insaccato. Non mi dilungo sulle tecniche di macinatura, salatura e pepatura che ogni pistaiolo custodiva gelosamente: per queste dovrei rimandarvi al mio amico macellaio-sassofonista Walter ben più ferrato di me. Fatto sta che alla fine della magia il maiale era scomposto in pezzi che sarebbero bastati mesi e mesi. L’osso del prosciutto, ad esempio, lo si sarebbe ritrovato insieme ai fagioli (e alle cotiche nuove)  al capodanno successivo. Non ho idea del perché lo stesso insaccato abbia nomi diversi a seconda della locazione geografica: perché in un posto si chiami coppa quello che in un altro è lonza, ed in un posto soppressata quello che in un altro è coppa; so che sia io che i miei fratelli a ciauscolo, salame lardellato, coppa e lonza ci siamo diventati grandi; che se penso a casa penso a ciauscolo e mi mette tristezza pensare che, fosse pure tra cent’anni, a qualcuno pensando a casa possano venire in mente scarafoni e cavallette.

(70. boh vedremo)

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Sudore e armonium

Mi è stato insegnato, evidentemente sulla base di qualche fondamento scientifico, che per curare un raffreddore può essere utile fare una bella sudata. Ogni età ha le sudate che si merita, e se me lo chiedereste adesso la prima cosa che mi verrebbe in mente sarebbe un bel piumone riscaldato; qualche tempo fa avrei preferito provocarla, la sudorazione, praticando quel riposo attivo tanto caro alla generosa Olena;  ancora prima avrei condiviso lo sforzo con una ventina di persone, perché sudare voleva dire correre e correre giocare a pallone.

Da piccolo devo aver avuto una bella voce bianca. Prima che la pubertà, arrivando a turbare i sogni innocenti dei fanciulli in fiore, facesse emergere degli aspetti animaleschi insospettati, ero uno dei migliori interpreti di “Cuore matto”, come ho raccontato a proposito delle colonie estive, nonché uno dei beniamini di Don Luigi nel coretto parrocchiale.

La vita ora è diventata più dura anche per i preti. Innanzitutto il numero si è di molto ridotto: più pance piene, meno vocazioni. E poi la dimensione dei problemi si è talmente ingrandita che, con tutta la buona volontà, farvi fronte richiederebbe un intervento diretto di chi di dovere di cui allo stato non sembra di cogliere segni. L’altro giorno, ad esempio, abbiamo assistito all’outing in diretta di un monsignore; pur essendo notoriamente tollerante la richiesta di chiudere un occhio sulla convivenza con il suo amore, seppur dello stesso sesso, mi è sembrata eccessiva. Voglio dire, stiamo parlando pur sempre di preti cattolici: sono i protestanti quelli di manica più larga.

Don Luigi non era il parroco ma una specie di franco tiratore: il suo incarico principale, oltre quello di dire Messa nelle chiesette di campagna, o di presenziare alle cene di tutte le associazioni, era semplicemente quello di portare in giro se stesso come réclame del buonumore e della serenità. Se avreste cercato una buona parola o un sorriso, da quelle parti non sarebbero mai mancate.

Nella bella collegiata di San Biagio, prima dell’avvento dell’elettronica che avrebbe rivoluzionato persino il modo di far musica in chiesa, in un cantuccio della sagrestia avreste notato un armonium. Per i profani, l’armonium è quello strumento a tastiera che, come l’organo, emette dei suoni tramite dell’aria che passa attraverso delle lamelle, o ance: come l’armonica a bocca, se avete presente. A differenza del pianoforte dove il suono è prodotto da delle corde battute da martelletti. O del clavicembalo, dove le corde sono pizzicate da plettri. O da… va bè, ci siamo capiti. L’aria veniva soffiata attraverso dei mantici azionati con i piedi: ottimo modo per fare ginnastica suonando, si potrebbe utilizzare ancora oggi al posto dello step.

I mantici c’erano anche nel grande organo posto sopra l’ingresso, venivano azionati a braccia con delle lunghe stanghe e di solito chi tirava il mantice non cantava; poi c’è stato applicato un motorino elettrico, tutta la poesia è andata a farsi friggere ma almeno il tiratore ha tirato un sospiro di sollievo.

Se è per quello anche le campane si manovravano tirando delle corde; ora la maggior parte di esse è collegata a dei bellissimi meccanismi elettronici capaci di riprodurre fino a 100 pezzi diversi; allora bisognava essere in tre o quattro, pronti a tirare a tempo seguendo le indicazioni di Renato, postino, campanaro e grancassista in banda. Quando consegnava la posta scendeva le scale della bottega salutando mio padre con voce stentorea (era anche cantante del Miserere): “La pomiceee!”, che credo facesse riferimento alle quantità industriali di carta vetrata che mio padre aveva dovuto usare fin da piccolo, non certo per suo diletto; al che la risposta era l’immancabile “L’apostulu!!” _ l’apostolo_ più che appropriato per un portalettere.  Stranamente il mio amico Stefano, pur facendo l’imbianchino, ha ereditato da suo padre il titolo di “apostulu”. La pomice invece non faceva per me.

Rileggendo questa paginetta mi accorgo che se fosse uno dei compiti che assegno ai programmatori sui quali esercito con magnanimità il potere di vita e di morte (lavorativa) glielo farei rifare, tanto mi sono attorcigliato; comunque dove eravamo rimasti? Ah, si, l’armonium.

Don Luigi quindi con il suo armonium cercava di inculcare i rudimenti del canto liturgico a un gruppetto di chierichetti per lo più indifferenti. Nel caso specifico i canti erano di Natale, ed ero stato scelto per cantare qualche strofa in solitaria. Se dicessi che la cosa mi entusiasmava non sarei onesto; anzi a dirla tutta se non fosse stato per non dispiacere il buon Don Luigi, me la sarei svignata appena possibile.

Arrivai nell’imminenza del debutto con un bel raffreddore. Sebbene il dialetto maceratese già di suo non sia tenerissimo con la consonante ti, la pronuncia “Du scendi dalle sdelle” o “Asdro del giel” non mi sembrava impeccabile, così ebbi il colpo di genio: una bella sudata, e via.

Se tra le antiche spartane poteva essere ritenuto normale, se non addirittura doveroso, che il proprio virgulto in vista degli impegni futuri presso le Termopili si esponesse alle intemperie, altrettanto non poteva dirsi delle moderne picene. L’accoglienza di mia madre la sera, quando mi presentai con un inizio di febbre poi debordato in bronchite, non fu delle più benevole. Tentai di difendere le mie intenzioni, ma con pochi margini di manovra.

Così Don Luigi per quel Natale non mi ebbe tra i suoi coristi più ispirati; ne mi ebbe negli altri Natali, perché presa la palla al balzo l’armonium non mi vide più tra i vicini più assidui. Si interruppe così una promettentissima carriera; e l’episodio mi è tornato in mente solo perché domenica scorsa ho cercato di intonare un canto un’ottava sopra di quanto avrei dovuto, ed un bel falsetto mi sarebbe stato di grande aiuto.

(65. continua)

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