Olena à Paris – 29

Fuori dalle cucine di Villa Rana un assembramento non autorizzato assiste partecipe alla novantaduesima puntata della popolare soap opera “Lacrime e Laterizio” che ha per protagonista Conchita, la donna barbuta madre del piccolo Chico, concepito in un momento di passione e stordimento alcolico con il giardiniere Miguel.
ROSA: Madre, aiutatemi.
SUOR MATILDA: Rosa, cosa ti angustia? Vieni, abbracciami. (Signore mio, ma che misura di reggipetto porta?)
ROSA: Madre, ho fatto una stupidaggine.
SUOR MATILDA: Rosa, Rosa, sento il tuo cuoricino battere. C’entra per caso Ramon? (Non si sarà mica fatta mettere incinta dal manovale?)
ROSA: No! Anzi, sì. Sì e no! Madre, sono confusa.
SUOR MATILDA: Eh, lo vedo figlia mia. Per prima cosa non potresti smettere di chiamarmi madre? Mi fa sentire vecchia. Chiamami Matilda.
ROSA: Posso? Non vorrei mancarvi di rispetto.
SUOR MATILDA: Ma che rispetto, non preoccuparti. Anzi, da oggi diamoci del tu… vieni, sediamoci sul mio lettino, che staremo più comode. (Si siedono) Che caldo che fa oggi, non è vero? Se vuoi alleggerirti fai pure…
ROSA: No, grazie madre… ehm Matilda, sto bene così. Dicevo che ho fatto una stupidaggine, mi sono fatta accecare dalla gelosia perché Ramon ballava con mia cugina Carmelita e così ho detto sì a Don Carlos.
SUOR MATILDA: (Santi del cielo, non l’avrà data pure al vecchio caprone?) In che senso, Rosa? Hai… ceduto?
ROSA: Con Don Carlos? Noo! Ho solo acconsentito a sposarlo.
SUOR MATILDA: (Meno male) Capisco… Una promessa di matrimonio è una cosa seria, ma non sarei così disperata. In fondo Don Carlos ha una buona posizione, e ti renderà senz’altro una donna felice ( Mi ci gioco la tonaca che è pure impotente).
ROSA: Ma mi sbagliavo, Ramon mi ama!
SUOR MATILDA: (Guarda come gli si infiammano le guance quando si scalda…) Ne sei sicura, Rosa?
ROSA: Me ne ha dato la prova.
SUOR MATILDA: La prova? Che prova?
ROSA: Dopo aver detto sì a Don Carlos sono uscita a prendere un po’ d’aria in giardino, e Ramon mi ha raggiunta.
SUOR MATILDA: (Come pensavo, si è fatta mettere incinta) E tu l’hai allontanato, giusto?
ROSA: Era mia intenzione… ma piangeva, mi ha giurato che mia cugina per lui non era niente, che solo io contavo, che non avrebbe sopportato di vedermi con un altro… mi ha abbracciata, e non ho resistito.
SUOR MATILDA: Che significa che non hai resistito? Non avrai mica… lì, nel giardino?
ROSA: Non volevo, ma Ramon è stato molto… convincente. Mi ha trascinata in un cespuglio ed è lì che…
SUOR MATILDA: Che ti ha dato la prova.
ROSA: … me ne ha date tre o quattro, di prove. Anzi, mi aveva appena fatto girare e stava per darmene un’altra quando ho sentito la voce di mia madre che mi chiamava, preoccupata. Mi sono ricomposta per tornare nella sala ma Ramon non voleva lasciarmi andare, ha minacciato di fare uno scandalo, ed ho dovuto promettergli che avrei rotto la promessa con Don Carlos. Ma se lo farò mia madre mi ucciderà! Matilda, che devo fare, sono disperata! (piangendo le butta le braccia al collo e la abbraccia)
SUOR MATILDA: Piangi, piangi, sventurata, qui, sul mio petto. (Signore aiutami tu) Bisogna pregare, Rosa, pregare, vedrai che tutto si risolverà. Inginocchiati in raccoglimento, cara, e giungi le mani. E mi raccomando, chiudi gli occhi e non aprirli finché non te lo dirò io. (Si toglie il velo e scioglie i capelli, slaccia il cordone dalla tonaca e lo tiene in mano facendolo girare come una frusta) Dicevi, cara, a proposito di prove?

“Ahi, ahi” strillano i koala, zampettando come se una badessa li stesse frustando sulle gambe nude con un cordone.
Dal balcone Gilda, in gramaglie, osserva la scena commossa.
«Che cari quegli animaletti, non trovi James? Sembra quasi che sentano che stia per iniziare un funerale. A proposito, grazie per essere volato in Argentina, senza di te avremmo dovuto celebrare le esequie in contumacia, e non mi sembrava carino nei confronti della povera nonna. Ecco, sta arrivando anche il vescovo Ardizzone, mi ha fatto il favore di venire da Ladispoli apposta per officiare, e detto tra noi con tutte le offerte che la Fondazione devolve ogni anno ai suoi orfanelli se avesse trovato qualche scusa mi avrebbe parecchio deluso. A proposito James, sapresti dire come mai a Ladispoli ci sono tutti quegli orfani? Sembra ci sia una morìa di genitori.»
«Al momento non dispongo dei dati, signora, ma se ritiene posso informarmi» risponde il maggiordomo, in un impeccabile completo nero Girifalchi.
«Lascia stare, caro, non vorrei fare tardi. Vedo le bandiere della delegazione delle maestranze, dovremmo esserci tutti. Scendiamo, vuoi?» dice Gilda, sistemandosi il velo in pizzo nero avuto in regalo da Melania Trump, usato solo in occasione dell’udienza papale del maggio 2017 nel corso della quale la first lady aveva chiesto una intercessione di papa Francesco per una prematura dipartita del presidente, richiesta alla quale il pontefice a malincuore non aveva potuto dar seguito, e avviandosi lungo l’elegante scalinata. Fatto qualche gradino la Calva Tettuta ha come un ripensamento e, pensierosa, si gira verso il maggiordomo.
«James?»
«Signora?» chiede il maggiordomo, premuroso.
«Dimmi solo una cosa. C’entra per caso Evaristo in quella storia dei quadri che mi stavi raccontando? No, perché se è così chiedo ad Ardizzone di fare un esorcismo. Anzi, sai che faccio? Già che ci sono, gli faccio benedire tutte le 326 stanze della Villa, e pure il laboratorio. Fai preparare la stanza degli ospiti, e assicurati che la cantina sia ben fornita.»

La bicicletta rossa

Pur non essendo particolarmente appassionato di  sport motoristici, confesso di essere rimasto impressionato dall’incidente occorso al pilota di formula uno Fernando Alonso, che a seguito di una scossa (almeno così sembra) ha perso la memoria. Perbacco, mi sono detto: e se succede anche a me,  e dimentico tutto? Va bene, la Ferrari non devo guidarla, ma magari qualcosina da salvare c’è. Così la mattina di Pasqua, scambiando gli auguri con i miei fratelli, mi sono ritrovato a condividere questa preoccupazione. Ridendo, mi hanno precisato l’accaduto: Alonso non ha perso la memoria, gli si sono solo cancellati gli ultimi 15 anni.  Lì per lì mi sono sentito rassicurato, ma poi mi è sorto un dubbio: visto che mi vengono in mente solo storie vecchie, avrò preso la scossa anch’io?

Il giorno della prima comunione è solitamente un giorno di letizia. Il vestitino blu per i maschietti, o l’abitino bianco per le femminucce, era l’abbigliamento che identificava i nuovi ammessi alla mensa del Signore; per quanto mi riguarda, un paio di scarpe di vernice completava la divisa.

Ero senz’altro un bambino obbediente, non abituato a lamentarsi per niente. Così, orgoglioso delle mie scarpe nuove, passavo sopra al fatto che mi stessero un po’ strette. Un po’ tanto, strette. Da un lato mi sentivo in colpa: forse quando le avevo provate non ero stato abbastanza attento. Dall’altro, ben sapendo che mica si potevano comprar scarpe nuove tutti i giorni, e nemmeno mesi, pensavo: portandole si allargheranno. Trascorsi quindi tutta la messa, e le foto, e il seguente pranzo (la durata di un pranzo con scarpe strette è almeno il triplo di uno con scarpe comode), con stoica concentrazione. Lo sforzo mi causava una lieve ruga sulla fronte che  confermava la mia fama di bambino buono (del tentativo di farmi entrare in seminario ho già raccontato).

Fu solo tornati a casa, finito tutto, che togliendo le scarpe mia madre si accorse di un particolare che ad un bambino meno distratto di me non sarebbe sfuggito.  “Ma non sentivi che erano strette?” – mi chiese allibita – “non hai visto che c’era la carta?”. Mi ero dimenticato di togliere la carta che serve solitamente a tenere in forma le punte. Ci sono momenti, e passano nella vita di ognuno,  in cui non ci si sente di un’intelligenza acuta (l’ora del cojo’), e quello ne fu uno; alla domanda pleonastica credo di aver risposto balbettando, forse un diffuso rossore imporporò il mio viso. Ed io che pensavo che per fare la comunione si dovesse soffrire.

In quell’occasione gli zii materni mi regalarono la bicicletta. Bella, rossa. Ora ci sono biciclette di tutte le misure, e man mano che i bambini crescono si cambiano: allora la bicicletta da bambino doveva durare fino a quando si prendeva quella da uomo. Perciò all’inizio erano grandi, e si faceva fatica a toccare i piedi per terra; alla fine invece le ginocchia toccavano il mento.

La tecnica per diventare ciclisti non è molto cambiata nel tempo. Qualcuno più grande ti regge in equilibrio, solitamente dalla sella; quando si accorge, dopo qualche pedalata avanti e indietro, che bene o male stai dritto, ti molla e vai. E così difatti il mio genitore fece: ad un certo punto, fiducioso, mi mollò. La bottega di mio padre, come ho già accennato, dava sulle mura del paese, intorno alle quali scorre la strada di circonvallazione; ed è proprio lì che mi lanciai per il mio primo viaggio solitario.

Le mani piccole non riuscivano a tirare i freni, ma ero confidente in un modo o nell’altro di riuscire a fermarmi.

Quando pensavo già di essere padrone del mezzo, il cielo sopra il novello Gimondi si oscurò. Un inconfondibile suono strombazzante annunciò l’arrivo della corriera di Damiani, della linea Pollenza-Macerata, ed il panico si impadronì di me. Con le mani sudate, i freni scivolavano; cercai di spostarmi a destra, ma tutto impegnato a cercare di tirare quei maledetti freni, mi accostai un po’ troppo ai veicoli parcheggiati. Per fermare mi fermai, ma con uno stile che non mi sentirei di consigliare ai neofiti : come freno usai la faccia. Cioè, mi impastai sul retro di un camioncino. Col senno di poi sarebbe stato meglio mettere almeno le mani avanti: ma l’idea di mollare il manubrio nemmeno sfiorò la mia mente. Tornai alla bottega, pesto e insanguinato, e con i miei bei dentoni davanti spezzati. Mio padre, che sapeva cosa l’avrebbe aspettato appena arrivati a casa, non aveva un aspetto sereno.

Qualche tempo dopo, a causa della nuova pista di pattinaggio, scoppiò un’epidemia di denti rotti: su di me non attecchì, ero stato vaccinato.

(32. continua)

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Il prete e la monaca

Secondo l’ultimo censimento Istat del 2012, a partire dai 35 anni le donne sono in misura maggiore degli uomini. Nel passato questo fenomeno, causa guerre e carestie, era ancora più accentuato: questo faceva sì che se un uomo maturo non fosse sposato venisse definito scapolo (c’è sempre speranza di); se invece matura era la donna, si parlava di zitella (mettiti l’anima in pace).
Ingiustizia da cui mi dissocio.

La mia prozia Caterina, Catò per gli intimi, era appunto una zitella. Si favoleggiava di un antico sfortunato amore di gioventù; o del suo ritrarsi di fronte a qualsiasi avance, per non fare la fine delle donne della sua epoca, totalmente sottomesse ai mariti. La parità tra i sessi era ben lungi dall’essere raggiunta dalle suffragette di casa nostra; qualche sonora battuta da parte di mariti denutriti si, ma frequentatori assidui di cantine, non era infrequente.
A volte accadeva anche il contrario, ma costituiva un’eccezione.

Oggi si sente parlare molto di sobrietà. Di solito da gente con la pancia piena che la raccomanda agli altri. Catò in fatto di sobrietà avrebbe potuto dar lezioni a tutti.
Ero bambino, e le chiedevo perché mai non si decidesse a comprare la televisione. E che ce faccio, rispondeva, che tra un po’ devo murì. Aveva poco più di 60 anni, e ne campò altri 30: la televisione non la comprò mai, benedetta donna, che bellezza se tanti avessero seguito il suo esempio!

Mi sembrava quindi abbastanza precipitosa nella sua risoluzione; c’è da dire che la preoccupazione maggiore degli anziani di una volta era quella di mettere via i soldi per “lu furnittu”, ovverosia il loculo dove essere tumulati, senza lasciare debiti agli eredi. Per me non preoccupatevi, comunque.
Per riscaldamento aveva una vecchia stufa a legna (ora tornate di gran moda) che riscaldava un solo ambiente della casa. La camera da letto, dove l’avreste trovata già alle sette di sera, era fredda; per questo d’inverno nel letto si infilava l’accoppiata prete-monaca.
Non pensate male: la monaca era un braciere di terracotta; il prete una specie di baldacchino che veniva infilato sotto le coperte e nel quale veniva deposta la monaca; il suo scopo era quello di non far toccare appunto le coperte con le braci.

Quando passavo a trovarla, innanzitutto si lamentava che non andassi mai a trovarla: gatto che si mordeva la coda, perché per non sentire le sue recriminazioni davvero la volta dopo ci pensavo due volte. Però a volte ne valeva la pena. Ad esempio, Catò custodiva un tesoro.

Ho già accennato al ramo di parentela emigrato con lo scopo precipuo di arricchire l’avvocato Agnelli. Zia Caterina conservava religiosamente, in soffitta, in scatoloni catalogati con cura, varie masserizie lasciate da mia zia Lelletta; delle bottiglie di liquore residui di una gestione di suo marito del circolo cittadino (Punt e Mes!); e soprattutto la collezione di Nembo Kid del di lui fratello minore, che Catò amava come un figlio. La zia mi faceva violare il sancta sanctorum con la scusa di aiutarla a spolverare; ma in realtà credo lo facesse perché sapeva che mi piaceva leggere, e tanto. Mentre lei passava in rassegna i suoi pacchi, io scandagliavo la raccolta; potevo leggere quanto volevo, ma guai a portar fuori un giornalino. Adesso la collezione varrebbe parecchio: peccato che perì nel crollo della soffitta, causato dalla canna fumaria dell’abitazione sottostante.

Catò alla perdita non resse. Deportata nel vicino ospedale, senza la sua indipendenza e i suoi lamenti, si spense. Aveva conservato per tutta la vita la sua virtù come quella collezione di Nembo Kid; testimoni attendibili riportano che alla fine si chiedeva se, dopotutto, ne fosse valsa la pena.

(17. continua)

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