Olena regina d’Abissinia – 16

«Mi sa che qualcuno ce l’ha con noi.»
Nonna Pina osserva perplessa quello che rimane della casa dove erano dentro fino a pochi secondi prima.
«Mi sembra un po’ esagerato, non trovi anche tu Natascia? Voglio dire, passi il rapimento del cantante, ma farci saltare in aria lo trovo scortese. Vorrei sapere tra l’altro come hanno fatto a sapere che lo stavamo cercando. Qualcuno deve aver spifferato qualcosa, non sarà mica stato il tuo amico, ti fidi di lui? Non è che fa il doppio gioco?»
«Io non fida di nessuno» risponde Olena, concentrata. «Però io dubita che se avesse voluto fare saltare in aria avrebbe avvisato noi di uscire, voi non trova?»
Mentre le due si pongono questi interrogativi il telefonino della vegliarda suona, strappando ad Olena una smorfia di disappunto.
«Babushka, io detto voi di spegnere cellulare. E’ rintracciabile» la rimprovera la russa.
«Adesso non vorrai mica dare a me la colpa se ci hanno sgamato?» risponde piccata. Poi, dato uno sguardo al numero, risponde, con Olena che alza gli occhi al cielo.
«Pronto, chi parla?»
«Sono io nonna, dove siete? L’avete trovato?» cinguetta Gilda in apprensione, poi senza dare il tempo di rispondere continua:
«Noi siamo stati rapiti dai rastafariani, ma non ci hanno fatto del male. Anzi, loro dicono che l’hanno fatto per il nostro bene perché c’è qualcuno che ha brutte intenzioni nei nostri riguardi. Vi risulta?»
«Avevo detto di aspettare me» commenta Olena scuotendo la testa, a cui fa eco il controcanto di Svengard «Se aspettavamo Natascia non sarebbe successo niente» interrotto dal rumore di una borsetta calata con energia sulla zucca.
«E adesso che si fa?» chiede la Calva Tettuta, ricomponendosi.
«Voi adesso aspetta lì dove siete. Io manda miei amici a prendere voi» ordina Olena, strappando il cellulare dalle mani di nonna Pina. Poi lo spegne, e rimane a guardarlo pensierosa.
«Così non va» dichiara poi la russa «Dobbiamo ricominciare da capo»
«Torniamo ad Addis Abeba? Avrei giusto bisogno di un bel bagno ed un massaggio» dichiara la vecchia avventuriera.
«Voi fate pure bagno» concede Olena. «Io devo sistemare una faccenda in Svizzera»

Intanto a Villa Rana regna l’anarchia.

«Slava Rani!»
Kocca la gallina, Fiona la cavalla e Riitta la renna squadrano perplesse Flettàx, il pappagallo ex-sovranista diventato fervente atlantista, che dall’alto del trespolo su cui è poggiato, petto in fuori e becco volitivo, arruffa le penne in atteggiamento bellicoso.
«Speriamo che i padroni tornino presto» auspica la cavalla preoccupata «qui la situazione degenera di giorno in giorno»
«Strapperemo le penne agli invasori!» garrisce ancora l’Ara Macao padano, sempre più agguerrito.
«Ma si può sapere con chi ce l’hai, Flettino? Stai rendendo la vita impossibile a tutti, finiscila una buona volta!» lo esorta Kocca, che comincia a diventare impaziente.
«Con chi ce l’ho? Ma sentitela, proprio lei parla¹. A parte che ti ho detto mille volte di non chiamarmi Flettino, ma casomai Spartacus, o al limite Volodimiro, sai bene con chi ce l’ho! Ce l’ho con certi parrocchetti di mia conoscenza, che s’insinuano con l’inganno come serpenti, e poi colpiscono alla schiena come scorpioni. Con quelli che si fingono amiconi, e appena possono ti pugnalano alle spalle. Ma è finita la pacchia, cara mia, questo giardino è troppo piccolo per tutti e due. Uno di noi se ne deve andare, e quell’uno non sono io!»
«Ho capito, hai litigato ancora con Spread» constata Riitta, ruminando dell’erba cipollina. «Ma come, eravate pappa e ciccia quando si trattava di abbindolare quelle due padovanelle². Che è successo, ti ha cornificato?» ipotizza la renna, perfida.
«Io non ho litigato con nessuno, e non pronunciare quel nome in mia presenza! E per tua norma e regola, nessuno cornifica il sottoscritto» insorge il pappagallo, fingendo di non notare le risatine delle tre amiche alla sua ultima affermazione.
«E’ arrabbiatissimo perché Spread si è spacciato per lui e ha portato nel cespuglio anche la sua padovana» bisbiglia ridacchiando Fiona a Kocca, strappandole un allegro coccodè.
«Perciò da questo momento proclamo: sanzioni! Niente becchime al parrocchetto. E chi verrà sorpreso a fornirgliene dovrà vedersela con me» conclude Flettàx, dondolandosi minacciosamente.
«Autocrate!» lo rimbecca Riitta, sincera democratica.
«Prepotente! Io faccio quello che mi pare e piace» lo sfida la cavalla, scuotendo la criniera.
«Ma quant’è carino quando si arrabbia?» sospira Kocca, che per amore tutto perdona.

¹ I lettori più affezionati ricorderanno che nell’avventura precedente, Olena à Paris, la gallina Kocca aveva condiviso le attenzioni dei due pappagalli.
² Idem per le due galline padovane venute a rinforzare il pollaio.

Olena regina d’Abissinia – 15

Il Gran Rift Africano è una profonda spaccatura della crosta terrestre, visibile perfino dallo spazio, che si estende per 6.440 chilometri dal Libano al Mozambico. L’Etiopia ne è attraversata da nord a sud, a partire dal Mar Rosso fino al lago Turkana, al confine con il Kenia; a nord la depressione assume la forma di un grande imbuto: è la regione della Dancalia, il cui territorio è posto in gran parte a più di cento metri sotto il livello del mare, dove le temperature del deserto possono diventare infernali tanto da raggiungere i 160° centigradi, quanto basta per cuocere un pollo senza bisogno di legna, ammesso di trovare un pollo che scorrazzi da quelle parti. Le uniche persone che ci vivono sono i pastori nomadi Afar, tribù poco amichevoli use a sbarazzarsi degli ospiti sgraditi uccidendoli ed evirandoli, non necessariamente nell’ordine indicato. E’ nel bel mezzo di questo paradiso terrestre, e precisamente nella cittadina di Tendaho, che quattro uomini di nostra conoscenza, per non parlare dell’ascaro¹, dopo una giornata di lavoro nei campi e stanchi di mangiare la sbobba della mensa dell’azienda agricola a cui sono stati aggregati si ritrovano nell’unico ristorante decente, o per meglio dire l’unico, della zona. Dopo essersi lavati le mani nel secchio appeso ad un palo nel retro del locale i nostri beniamini si siedono, piuttosto affamati, sperando di poter mettere sotto i denti qualcosa di decente. Luisito Lenìn, gravato da pensieri cupi, la testa incassata tra le spalle, gli occhi fissi sulle mani poggiate sulla tavola, sbotta.
«Compagni, non ce la faccio più. Io scappo e torno in Italia. Che vadano a farsi fottere le relazioni bilaterali, gli scambi culturali, l’amicizia tra i popoli. Ne ho le palle piene di sole, caldo e di zappare la terra. Era meglio mille volte la catena di montaggio!»
Gli amici annuiscono concordi ma è il capodelegazione, Attilio Trozzo, che si incarica di riportare i depressi terzomondisti sui giusti binari della dialettica democratica.
«E la solidarietà dove la metti?» chiede retoricamente Trozzo. «Stiamo toccando con mano le condizioni di lavoro di questi nostri compagni, di questi fratelli, esperienza che non avremmo certo potuto fare rimanendo con le chiappe al fresco nelle nostre officine dotate di ogni comfort»
«Parla per te» lo contraddice Memo. «Io sto in fonderia, altro che chiappe al fresco. E poi, insomma, ha ragione Luisito, mica c’è bisogno di mettere le mani nell’acqua bollente per sapere che ci si scotta! Questi qua mi sembrano imbambolati, devono darsi una mossa, mica possiamo venire noi dall’Italia a fargli la rivoluzione!»
«Sento puzza di reazione» proclama Attilio. «Ci stiamo imborghesendo? Potevate fare a meno di menare le mani al ricevimento, cosa vi aspettavate, che ci ringraziassero? Se a qualcuno» e ammicca ad Ambrogio Cantaluppi, seduto avvilito vicino al vecchio ascaro «non fosse venuto in mente di mettersi a difendere la patria, a quest’ora eravamo ad Addis Abeba. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso!»
«Ci avevano offeso, dovevamo fargliela passare liscia?» protesta Ambrogio, torcendosi le manone.
«Offeso, offeso! In fondo che ci avevano detto?» lo rintuzza Attilio.
«Ci avevano dato dei fascisti!» insorge Luisito, che ha ancora un occhio bordato di violetto dopo la scazzottata che li aveva portati là.
«E allora? Non avevano ragione forse? Basta guardare chi abbiamo al governo! Quando la capirete che prima di muovere le mani bisogna usare la testa?» li redarguisce Attilio, abituato alle maratone sindacali.

I vecchi delegati toccati sul vivo stanno per replicare, anche con argomenti contundenti, quando al loro tavolo si avvicina la cameriera, che arrivata a pochi passi punta loro la matita che utilizza per scrivere le ordinazioni.
«Ehi, ma io vi conosco!» li saluta la ragazza, e continua « Che ci fate da queste parti? Non pensavo che vi piacesse così tanto la cucina etiope!» conclude con una risata squillante.
«Ma è la cameriera del ristorante del Lazzaretto!» la riconosce per primo Memo, il più fisionomista.
«Sì, sono proprio io» conferma la ragazza. «Non mi aspettavo di trovarvi qua. Siete turisti? Devono avervi consigliato male, ci sono posti migliori da vedere nel mio paese…»
I quattro, ripresosi dallo stupore, recuperano parte della loro giovialità e salutano la cameriera come se fosse una vecchia amica:
«Lei piuttosto che ci fa qua, ha deciso di tornare in Etiopia?»
«Ah, ah, no grazie!» risponde la ragazza con un’altra risata. Sono venuta a trovare mia madre: questo locale è suo, anzi era di mia nonna, ma l’anno scorso è morta ed è rimasto a lei. E’ lei la cuoca. Che vi faccio preparare, signori? Direi injera e shirò², va bene? Vado ad avvisare la mamma che ci sono clienti speciali!» e senza dar loro il tempo di replicare corre in cucina, da dove ricompare pochi secondi dopo con una grande caraffa di tella³ e le posate.
«Scommetto che non avete ancora imparato a mangiare con le mani, vero?» e scompare di nuovo, sempre ridendo.

Dopo un paio di caraffe l’atmosfera si è notevolmente rasserenata, le ombre si sono dissipate e persino l’ambiente sembra meno duro di quel che è; all’arrivo poi del grande vassoio di doro wot che la cuoca ha preparato per loro, ritenuto più indicato del meno nutriente shirò, i nostri riacquistano la naturale bonomia e la joie de vivre che li contraddistingue. Perfino l’ascaro apprezza la libagione, e non manca di sottolinearlo sventolando ogni tanto la bandierina del regio esercito. Spazzolato tutto, e fatta la doverosa scarpetta con la injera, i quattro si appoggiano pesantemente alle spalliere delle sedie, mentre l’ascaro esce con il suo grammofono ed attacca una marcetta coloniale.
«Ci vorrebbe un bel caffè» dichiara Memo, satollo. Come se gli avesse letto nel pensiero, la ragazza arriva con una cuccuma fumante e la piazza in mezzo alla tavola, insieme alle tazzine.
«Non guardate male la caffettiera. Vi conosco voi italiani, pensate di essere capaci solo voi di fare il caffè. Lo sapevate che la civiltà del caffè ha avuto inizio proprio qui, in Etiopia? Per la precisione nella città di Harrar. Su, bevete prima che si raffreddi» esorta i sospettosi avventori. Che, dopo aver assaggiato la nera bevanda, non si fanno scrupolo di versarsene un’altra tazza, sotto gli occhi divertiti della cameriera.
«Vedo che avete apprezzato, sono contenta. Certo, i piatti qua sono un po’ diversi da quelli che avete provato a Milano…»
«Era tutto buonissimo signorina, faccia i complimenti alla cuoca» dice Memo, soddisfatto.
«Grazie, ma perché non glieli fate direttamente voi? Aspettate, la vado a chiamare»
«Ma no, non la disturbi, avrà da fare…» ma la ragazza non li ascolta, e corre sul retro.

Dopo qualche minuto la tenda che divide la sala dalla cucina si apre, ed il vociare dei vecchi compagni si interrompe. La donna che avanza verso di loro lentamente, alta, formosa, con lunghi capelli neri e labbra carnose, vestita di una semplice tunica bianca di cotone orlata di ricami dorati, sembra un’apparizione. La camminata quasi indolente, lo sguardo fiero, un sorriso orgoglioso che fa intravedere i denti bianchissimi; con le mani regge un vassoio su cui sono poggiati dei dolci e dei bicchierini di tej, l’idromele, che poggia delicatamente sulla tavola.
«Benvenuti» sussurra la donna in amarico, con un leggero inchino, ravviandosi una ciocca di capelli scesa a coprire gli occhi neri.
«Vi presento mia madre» dice la cameriera, con naturalezza. «Si chiama Mariam»
«Piacere, signora» saluta Attilio, a nome dei compagni. Mariam sorride, e poi si avvicina ad Ambrogio.
«Tu come ti chiami?» chiede la donna, sempre in amarico. E, come se avesse capito, il rude metalmeccanico, diventato rosso come un peperone, risponde:
«Mi sunt Ambroeus… cioè, io sarei Ambrogio. Per servirla, signora» balbetta il Cantaluppi, ormai perso nella profondità di quegli occhi neri.

¹ Chi non riconosce la citazione, peste lo colga.
² Lo shirò è un piatto tipico che consiste in una vellutata di ceci e berberè. Il berberé è un ingrediente chiave delle cucine eritrea ed etiope. E’ una miscela di spezie, la cui composizione è tradizionalmente: peperoncino, zenzero, chiodo di garofano, coriandolo, ruta comune, ajowan (cumino d’Etiopia) e può comparirvi anche il pepe lungo.
³ La tella è la bevanda alcolica tradizionale più comunemente consumata. Viene prodotta facendo fermentare luppolo, malto e vari cereali, tipicamente orzo, grano, teff, sorgo o mais.

Olena regina d’Abissinia (14)

Alle prime luci dell’alba l’aliante ultraleggero Taurus Electro G2, a motore elettrico, si avvicina silenziosamente all’obiettivo. Giunto a cinquecento metri, il pilota adocchia un pascolo e manovra il velivolo fino a farlo atterrare, sobbalzando sul terreno irregolare, tra i belati di una decina di pecore curiose e la perplessità di due cammelli da soma, che scuotono la testa in direzione di quello che reputano un grande uccello disturbatore.
«La prossima volta guido io» dichiara il passeggero, scendendo lentamente imbracciando la sua pistola mitragliatrice Beretta PMXs.
«Raffiche brevi» gli ricorda il pilota increspando appena le labbra in qualcosa che assomiglia ad un sorriso, accarezzando il suo fido ShAK-12, in grado di penetrare qualsiasi giubbetto antiproiettile in commercio nonché in grado di abbattere un elemento ostile anche se riparato dietro un muro. Poi, con un gesto, indica all’altro il retro della casa verso cui sono diretti, e gli fa cenno di appostarsi da quella parte; quindi con il calcio del fucile rompe il vetro di una finestra e butta dentro una granata stordente e appena dopo l’esplosione spalanca la porta con un calcio ed entra, pronto a usare la sua arma contro chiunque gli si pari davanti.
Dentro la casa nessun segno di vita tranne quella del suo compagno che si gratta la testa in mezzo alla stanza.
«Pare che siamo arrivate tardi» constata Nonna Pina, osservando uno smartphone in terra, ridotto in mille pezzi.
«Babushka, io detto te di aspettare fuori» la rimprovera Olena, la pilota. «Io poteva sparare te!»
«Se c’era qualcuno dentro era meglio se prima sparavano a me che a te» risponde la centenaria «Così li avresti presi tutti facilmente. Se invece non c’era nessuno, come è successo, che importanza ha chi è entrato per primo? Vogliamo farne una questione di precedenza? E’ proprio vero che la riconoscenza non è di questo mondo!» conclude Nonna Pina, beffarda.
«Prossima volta io lascio voi a casa» dice Olena scuotendo la testa, facendo finta di arrabbiarsi con l’indisciplinata vegliarda.
«Comunque, adesso che si fa? Questi hanno chiaramente tagliato la corda, devono aver sentito puzza di bruciato»
«O qualcuno avvisato loro» ipotizza la russa.
«In ogni caso, chissà dove saranno finiti adesso. Dove l’avranno portato? Sempre che non l’abbiano fatto fuori»
«Niet, io non credo loro fatto qvesto»
«E perché no? Non sarebbe il primo cantante che ammazzano in Etiopia¹»
«Appunto. Se volevano uccidere lui, bastava sparare. Perché rapire?»
«Magari per il riscatto, no? E’ abbastanza famoso, magari qualche soldino da parte ce l’ha, avranno pensato» suggerisce Nonna Pina. Ma Olena non ascolta, impegnata ad aprire armadi, rovesciare cassetti, sventrare materassi.
«Si può sapere che stai cercando?» chiede la stagionata commando.
«Una traccia» risponde la russa. «Come qvesta» dice tirando fuori dalla spazzatura i pezzi di un biglietto che sembra pieno di scarabocchi.
«Che roba è?»
«Amarico. Lingua ufficiale di Etiopia, ma scrittura difficile, io non conosce bene. Sentiamo mio amico.» Quindi estrae il cellulare e compone un numero, al quale dopo pochi squilli risponde una voce nota:
«Sono lusingato, capitano Smirnova, non pensavo che ti sarei mancato così presto. Mi chiami per un appuntamento? Allora è amore!» ridacchia l’uomo all’apparecchio.
«Jemal, tu molto divertente. Anche a letto fai ridere molto me. Sto mandando te foto di scritta, tu traduci subito prego»
E, senza dare a Jemal il tempo di protestare, Olena invia la foto; il silenzio che segue viene rotto dalla voce concitata dell’etiope:
«Merda, Olena, vieni via subito di lì. E’ una trappola.»

¹ Nel 2020 ad Addis Abeba venne ucciso a colpi di arma da fuoco il famoso cantante e attivista Hachalu Hundessa, 34enne, che con le sue canzoni promuoveva la libertà e i diritti per il suo gruppo etnico Oromo, il più numeroso del Paese ma che per buona parte della storia recente dell’Etiopia ha subìto la repressione sistematica del governo centrale. La sua uccisione ha provocato un’ondata di indignazione e proteste, e le manifestazioni vennero represse con violenza dalle forze di polizia, tanto che negli scontri morirono circa 250 persone.

Olena regina d’Abissinia – 13

Gilda sposta lo guardo perplesso dal viso dell’anziano uomo che le si è genuflesso davanti a quello del fido maggiordomo James, perplesso per la verità quanto lei.
«James, sono perplessa» ribadisce infatti la vedova Rana. «Passi per qualche cugino, ma addirittura un fratello mi pare esagerato. Tra l’altro questo signore ad occhio e croce si avvicina più all’età di mio nonno che di mio padre, come posso essere sua sorella?» Decide quindi di chiedere lumi direttamente alla fonte, e invita l’uomo ad alzarsi.
«La prego, si alzi, mi fa sentire in imbarazzo. Posso sapere con chi ho il piacere di parlare? Lei è il capo qua? Ah, se poi en passant ci potesse spiegare perché ci ha fatto rapire, mi farebbe un favore» conclude la Calva Tettuta, sistemandosi la bandana in seta stampata con motivi floreali, estremamente indicata per un paese come l’Etiopia che è uno dei massimi esportatori al mondo di fiori freschi¹.
L’uomo si alza, e uno dei ragazzi del seguito si affretta a portare una sedia dove farlo accomodare.
«Grazie, sorella» insiste l’uomo. «Risponderò volentieri a tutte le tue domande, ma prima permettimi di presentarmi. Mi chiamo Paul, Padre Paul², e sono l’ultimo rimasto dei dodici, come gli apostoli, che per primi accolsero l’invito di Hailé Selassié di tornare in Africa dalla Giamaica, nel 1955. Era il sogno che si avverava, i discendenti africani che ritornavano nella terra di origine, la terra promessa, la terra da cui i nostri antenati erano stati sradicati, catturati e venduti come schiavi. Il sogno di riunirsi con i nostri fratelli di sangue, uniti nella fede, senza più divisioni: sogno che si avvera ogni giorno, qui a Sciasciamanna, in questa comunità dove si acquisisce consapevolezza spirituale e si ricerca la verità e la giustizia»
«Magari con qualche piccolo aiutino?» insinua Gilda, ammiccando al gruppetto seduto in circolo che si sta passando uno spinello. Padre Paul sorride, annuendo.
«La ganja aiuta, ma se la mente e il cuore non sono aperti serve a poco»
«Ne sono convinta» concorda Gilda «del resto noi siamo persone di grande apertura mentale, glielo può confermare chiunque. Vivi e lascia vivere è il nostro motto! E l’amore universale è il nostro ideale. Pensi che sotto la rude scorza di questo maggiordomo si nasconde un sorcino, e ho detto tutto»
La fronte del vecchio rastafariano, già rugosa di suo, si corruga ancor di più nello sforzo di immaginare cosa sia mai quel sorcino che si nasconde sotto i panni impeccabili di James; la sua cultura musicale infatti non spazia oltre il reggae, ed è ben lungi dal conoscere le gesta dell’autore di “Il triangolo no, non l’avevo considerato”. Ma ci pensa la vedova Rana a toglierlo dall’imbarazzo:
«Bene, adesso che abbiamo fatto le presentazioni, possiamo sapere perché diavolo ci avete portato qui?»
«Ma è semplice, sorella: perché tu sei l’erede!» risponde serafico Padre Paul, allacciando le mani sulla pancia. Gilda rimane interdetta, ed è il suo turno di corrugare la fronte:
«Io l’erede? Guardi, deve esserci un errore. Io non posso essere l’erede, si figuri, mia madre e mio padre sono di Serrapetrona. Credo che si possa notare anche dalla carnagione, che non sono l’erede. E’ mio nonno quello che ha dato vita ad un nuovo ramo della famiglia, tra l’altro all’insaputa degli altri e soprattutto di mia nonna, ma io non c’entro niente. Insomma, io non posso essere l’erede del vostro Hailé Selassié, se lo metta bene in testa!»
Padre Paul sorride divertito.
«Scusa, sorella, ma chi ha parlato di Hailé Selassié? Tu eri la moglie di Evaristo, giusto? E dunque sei l’erede. O sbaglio?»
La Calva Tettuta, a sentire il nome del defunto consorte, perde il consueto aplomb e si erge in tutto il suo metro e sessanta di furia tascabile:
«Cosa c’entra Evaristo adesso? E lei come fa a conoscerlo? Non sarà venuto a caccia con Roby Baggio³ anche qua?»
«Dunque tu non sei al corrente delle attività di tuo marito?» chiede sorpreso il vegliardo.
«Il mio ex marito, prego. Poco rimpianto, tra l’altro. Evaristo aveva l’abitudine di tenersi qualche segretuccio per sé, di tanto in tanto. Insomma, cosa ha combinato stavolta?»
«Tuo marito aveva delle grandi idee! Era un visionario»
«Su questo non c’è dubbio. Pensi che una volta voleva riempire il ripieno dei tortellini con dei manometri. Ce n’è voluto per convincerlo che non ci stavano⁴. Con l’aiuto delle vostre erbe chissà che visione avrà avuto questa volta. Ma non preoccupatevi, la maggior parte delle sue idee erano strampalate.»
«Ma non questa, sorella! Anzi, siamo ormai in fase avanzata di realizzazione. La società è aperta da tempo, ed eravamo quasi pronti per avviare la produzione; poi però la morte di Evaristo ha bloccato tutto, ma ora ci sei tu e possiamo riprendere da dove ci siamo fermati. Fifty-fifty, come concordato!»
«Fifty-fifty? Ma di che, si può sapere? Non sarà una cosa illegale, vero? No, perché nel caso credo che la prima cosa da fare sia nominare un amministratore delegato a cui dare la colpa. Oppure sperare in qualche condono: come siete messi in Etiopia con sanatorie e affini? Da noi sono abbastanza frequenti, ma capirete, noi siamo una democrazia liberale» ragiona Gilda, addentrandosi in considerazioni politiche.
«Niente di illecito, ti assicuro. Evaristo avevano comprato un appezzamento di terreno per coltivare la canapa alimentare; con questa noi produrremo farina di canapa, che ha delle straordinarie proprietà nutrizionali: aiuta a regolare l’intestino, abbassa il colesterolo, rinforza il sistema immunitario, rallenta l’invecchiamento dei tessuti, riduce la pressione arteriosa e molto altro…» elenca Paul.
«Insomma, un toccasana» commenta Gilda «sì, ma noi che c’entriamo con tutto questo? Evaristo voleva lanciare una linea di integratori alimentari? Non è proprio il nostro settore, ma ci si può pensare. I vegani sono d’accordo?» chiede la Calva Tettuta, immaginando un florido commercio con gli alimentaristi alternativi.
«No, niente integratori. Tuo marito era contrario alle pillole. La sua idea era quella di usare la farina di canapa al posto di quella di grano, e lanciare una nuova linea di ravioli»
«Non mi dica. E come avrebbe voluto chiamare questa nuova linea?» chiede Gilda, che rabbrividisce immaginando la risposta.
«Te l’ho detto che tuo marito era un visionario! L’avrebbe chiamata Kasta, la pasta rasta!»

¹ L’Etiopia esporta oltre due milioni di fiori recisi al giorno; il prodotto principale è la rosa: le serre sulle rive del lago Ziway, nell’Etiopia centrale, sono il più grande centro di produzione di rose del mondo.
² Padre Paul esiste veramente: le cronache riportano che dei dodici pionieri che lasciarono la Giamaica undici partirono in barca, ed uno a piedi. All’Autore sfugge come quest’ultimo abbia fatto, a meno di camminare sulle acque.
³ cfr. Olena a Paris, 2021. I lettori più attenti ricorderanno che in quell’avventura Evaristo Rana possedeva una hacienda in Argentina dove talvolta si incontrava con il divin codino Roberto Baggio, straordinario calciatore, per delle battute di caccia.
⁴ cfr. Natale con Olena, 2017. Dopo tanto tempo Gilda confonde ancora i nanometri con i manometri.

Olena regina d’Abissinia – 12

One love, one heart
Let’s get together and feel all right
Hear the children crying (one love)
Hear the children crying (one heart)
Sayin’, “Give thanks and praise to the Lord and I will feel all right”
Sayin’, “Let’s get together and feel all right”
Whoa, whoa, whoa, whoa¹

Sciasciamanna (“Shashamane”) è una località del sud, nella regione di Oromia, a circa quattro ore di distanza da Addis Abeba, dove vive una comunità di rastafariani; può sembrare strano trovare dei seguaci di questa religione in Etiopia ma non lo è affatto, considerando che questi considerano appunto l’Etiopia, e non la Giamaica, la Terra Promessa, la Nuova Israele.
E’ in questa località beata che Gilda, sorbendo un tè sotto un gazebo alzato in uno spiazzo erboso circondato da una decina di basse casette variopinte con i tetti in lamiera, osserva divertita il compagno che, a torso nudo, cerca di muovere il corpo, più adatto per tagliare tronchi nelle foreste che per ballare,a ritmo di reggae, suscitando l’ilarità del gruppo di ragazzi e ragazze che l’ha adottato.

«James caro, non trovi che le treccine donino al mio Svengard? Dev’essere l’anima vichinga che affiora. Anche se, a essere sinceri, dubito che sotto l’elmo cornuto ci fosse lo spazio per tutti quei capelli. Tu che ne pensi?»
«Effettivamente, signora» risponde l’interpellato, osservando con una certa perplessità i dread locks posticci che il norreno si è messo in testa.
«Ma che mi stavi dicendo a proposito di questa gente? Non mi aspettavo di trovarne da queste parti. Mi sembra che uno del nostro ufficio marketing sia rastafariano. O mi confondo, ed è pastafariano? Del resto noi facciamo pasta, anche se ripiena, lo capirei se la adorasse »
James, con un lieve tossicchiare, sorvola sulla seconda domanda della padrona.
«Alla metà degli anni ’50 un gruppo di giamaicani, eredi di schiavi africani come la maggior parte dei neri che si trovavano a quei tempi in giro per il mondo, emigrarono dalla Giamaica quando Hailé Selassié, venerato da loro come il nuovo Gesù, donò 500 acri di terra per quelli che volevano fare ritorno in Africa. Rastafariani significa infatti “seguaci di ras Tafari”, cioè Tafari Maconnèn che era il nome di Hailé Selassié prima di diventare negus nel 1930. La religione rastafariana è molto aperta, dialoga con tutte le altre religioni, è pacifista, e per scopi meditativi i seguaci assumono marijuana, o ganja come preferiscono chiamarla»
«Non vorrei passare per agnostica, se è questa la parola giusta » dice Gilda abbassando la voce «ma perché mai, tra tante persone al mondo, questi giamaicani avevano scelto proprio Hailé Selassié come nuovo Cristo?»
«Per una serie di motivi» risponde il maggiordomo «il primo è la discendenza, fatta risalire addirittura all’incontro fra il Re Salomone e la regina di Saba; poi i titoli che ha assunto all’incoronazione, cioè Re dei Re, Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda; loro sostengono inoltre che nelle Sacre Scritture si trovino segni del suo avvento e delle sue opere, così come delle sue iniziative politiche»
«James caro, come divulghi tu divulgano in pochi e non sarei sorpresa se un giorno qualcuno ti proponesse di condurre una trasmissione in qualche rete televisiva, magari in coppia con Licia Colò» dichiara la Calva Tettuta, ammirata.
«Comunque, anche se possono sembrare un po’ strambi² sono tutti molto gentili, non trovi? E poi quelle sigarette sono molto stimolanti, direi stupefacenti. Ad ogni modo, hanno sicuramente un effetto benefico. Mi sfugge tuttavia il motivo per cui questi tizi ci hanno rapito. Se è per il riscatto li potrei anche capire, in fondo siamo abbienti, per non dire sfacciatamente ricchi almeno secondo i loro parametri, ma non mi sembrano molto interessati a ricompense economiche. Chissà che vorranno?»
Quasi come se gli avessero letto nel pensiero, da dietro una delle capanne avanza un piccolo corteo, con in testa un uomo anziano non molto alto, con una lunga barba bianca e sul capo un rasta tam³; al suo fianco l’uomo che li ha prelevati all’aeroporto, con i capelli non più costretti sotto il cappello da autista. La musica si ferma, e tutti si stringono intorno ai nuovi arrivati. L’uomo saluta tutti affettuosamente, si avvicina a Gilda e prima che questa possa riprendersi dallo stupore le si inginocchia davanti e la saluta commosso:
«Benvenuta a te, sorella! E’ da molto che ti aspettavamo»

¹ “One love”, Bob Marley, 1977
² L’Autore ricorda quando, in occasione della Pasqua di qualche anno fa, l’anziano prete che stava benedicendo il condominio in cui vive suonò all’appartamento del vicino di pianerottolo e questi si schermì con un “io sono rastafariano” al che il nostro sant’uomo, confuso, rispose “piacere, e io sono il parroco”.
³ Berretto tipico, spesso con i colori dell’Etiopia, ovvero verde, giallo e rosso.

Olena regina d’Abissinia – 11

«Amici, salutiamo calorosamente la delegazione di lavoratori italiani che ci onoriamo di ospitare; riconosciamo l’importanza di questi scambi culturali, la reciproca conoscenza non può che portare a tessere rapporti sempre più proficui e a stimolare e incrementare la collaborazione tra i nostri grandi paesi!»
Okiki Tesfaye, presidente della associazione di amicizia Etiopia-Italia, carica che detiene grazie ad amicizie influenti che gli garantiscono finanziamenti cospicui che gestisce da padre-padrone, saluta gli ospiti, accompagnati dal console italiano.
Alle spalle del podio dell’oratore, sul palco dove solitamente si esibiscono gruppi folcloristici locali, è posto un lungo tavolo dove sono schierati i consiglieri dell’associazione ed il gruppetto di nostra conoscenza. Il console, Marcantonio Poltronieri, fa un breve pistolotto sui legami fraterni, i punti di intesa, l’intreccio di culture, dopodiché lascia la parola al capodelegazione Attilio Trozzo. Il quale si alza lentamente, con in mano i fogli del discorso la cui quantità inquieta gli ascoltatori, attirati sì dall’opportunità di scambi economici e culturali ma soprattutto dal ricco buffet i cui piatti caldi rischiano di freddarsi. Sistemati i fogli sul leggio, Attilio sorride all’uditorio ed inizia il suo discorso, che una giovane traduttrice si incarica di convertire in tigrino.
«Compagni, permettetemi di chiamarvi così: compagni di cammino, di lavoro, compagni nelle fatiche di tutti i giorni… In questo mondo che sembra ogni giorno più piccolo, dove le sfide sono ormai globali, ed i problemi di uno sono i problemi di tutto, è sempre più importante unirsi, fare fronte, lottare contro le disuguaglianze e le ingiustizie!»
Tesfaye lancia uno sguardo interrogativo del tipo “ma chi mi hai portato?” al console, il quale si stringe leggermente nelle spalle, come a dire “e lo so, ma falli parlare, sono innocui”; mentre Luisito sussurra al vicino Memo:
«Il vecchio leone ruggisce ancora »
«Già. Peccato che da noi siano rimaste solo le pecore»

Attilio, sentendo crescere l’attenzione e l’interesse, continua infervorandosi sempre più:
«Sì, lottare! Lottare per i sacrosanti diritti di lavoratori, di cittadini, di uomini e donne! Italia ed Etiopia uniti nel riconoscere la necessità che le risorse e la ricchezza non siano appannaggio di pochi privilegiati, ma tornino al legittimo proprietario, il popolo!»
A questo punto anche i due vicini cominciano ad agitarsi.
«Non vorrei che si facesse prendere un po’ troppo la mano» dice Luisito, preoccupato.
«Devono essere state tutte quelle spezie che ci hanno propinato in questi giorni» ipotizza Memo.
«Il popolo, sì, il popolo» prosegue Attilio ormai in trance, buttati via i fogli preparati e parlando a braccio:
«Quel popolo che, come cantava un’altro grande popolo, quello cileno, “El pueblo unido jamas sera vencido!”»
I tigrini, che in quanto ad entusiasmo non sono secondi a nessuno, si levano in piedi ad applaudire, e qualcuno inizia già a puntare il dito contro Tesfaye, individuato come rappresentante della borghesia affamatrice, quando dal fondo della sala si ode la voce gracchiante di un grammofono.

Se vuoi venir con me a Macallè
qualcosa c’è da far anche per te;
c’è tanta ricca terra qui da coltivar
che pane in abbondanza a tutti potrà dar!
E quando cesseran le ostilità
la vanga questo suol redimerà,
una casetta in mezzo ai fiori
io ti farò col mio lavor
se vuoi venir con me a Macallè!¹

Un gruppo di ragazzotti, sotto al palco, ridacchia rumorosamente; Attilio si ferma, interdetto, cercando di individuare l’origine della musica; Tesfaye balza al microfono e urla paonazzo (per quanto possa esserlo un etiope):
«Buttate fuori quel provocatore!», mentre la canzone continua:

Ti scrivo qui da un piccolo fortino,
mentre lontano fugge l’abissino
doman riprenderemo l’avanzata
verso la mèta ognor desiderata,
ma tu non piangere mio piccolo tesor
non si può infrangere il nostro grande amor!

Tutti si voltano verso l’autore di quella che reputano una bravata, e con stupore invece di scoprire uno degli impuniti ragazzotti vedono un vecchio rugoso, con una uniforme da ascari², sventolante una bandierina del Regio Esercito. Prima che gli uomini della sicurezza lo raggiungano, l’uomo si alza in piedi e con voce stentorea, inimmaginabile in un uomo della sua età, grida:
«Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia! Viva il Duce!» mentre parte la seconda strofa:

Il suolo che l’Italia ha conquistato
in poco tempo è stato rinnovato,
all’ombra del superbo tricolore
più non ci son né oppressi né oppressore!
Le strade nascono con gran rapidità
e insieme marciano progresso e civiltà!

La platea ammutolisce; Attilio, smarrito, cerca di riportare la discussione su binari meno scivolosi:
«Compagni, l’Italia è una grande repubblica, così come l’Etiopia; repubblica non dimentichiamolo nata dalla resistenza al regime nazifascista, e condanniamo fermamente l’avventura coloniale e tutti i colonialismi»
Gli uomini della sicurezza lottano intanto per strappare di mano il grammofono al valoroso ascari, che lo difende fino al finale:

Prepara dunque i corredin
per quattro o cinque marmocchin,
per poi venir con me a Macallè!

E fanno piovere sul malcapitato una gragnuola di manganellate, finché Ambrogio Cantaluppi, rimasto fino ad allora in silenzio, si alza in piedi e tuona:
«Lasciate stare immediatamente quell’uomo!» e per dare maggior peso alle sue parole avanza nella sala e si frappone fra l’uomo che si rotola in terra dolorante e i manganellatori.
«Ma che sta facendo?» chiede Luisito al vicino.
«Non lo so, ma si mette male» profetizza Memo.
E infatti, mentre la sicurezza ragiona sul da farsi, dall’altro lato della sala si sente un distinto:
«Italiani tutti fascisti!»

Ambrogio impallidisce. Orfano di padre partigiano, entrato in fabbrica a quattordici anni, metalmeccanico per quarant’anni alla Breda di Sesto San Giovanni , sindacalista per una vita, tessera del glorioso partito comunista in tasca, raddrizza le grandi spalle e porta il suo metro e ottantacinque per centoventi chili di peso, mani grandi come pale, davanti all’incauto urlatore.
«Se te dì cus’è, negrèt? Ripetilo se hai coraggio»

Sarà stato l’accenno al coraggio, qualità di cui gli abissini non difettano a differenza della prudenza, o forse quel negrèt poco politicamente corretto, ma l’uomo persiste nelle sue accuse; ha appena il tempo di pronunciare “Italia…” che un manrovescio di Ambrogio, non per niente chiamato Katanga ai tempi in cui faceva parte del servizio d’ordine alle manifestazioni sindacali, lo giustizia sul posto. Da quel momento in poi è tutto un mulinare di cazzotti e sedie e persino le marmittone del buffet vengono usate come armi improprie e contundenti. Mentre il console si defila, Attilio, Luisito e Memo scendono a dar man forte all’amico; si difendono con valore ma alla fine, soverchiati dal nemico come le truppe del maggiore Pietro Toselli sull’Amba Alagi³, sono costretti a rinculare fino ai camerini sul retro, dove riescono a barricarsi.
«Alla faccia dell’amicizia» commenta Luisito, tamponandosi il naso con un fazzoletto. «E tutto per salvare questo matto» dice indicando il vecchio ascaro. «Ma si può sapere chi cavolo sei?»
«Viva il Duce!» proclama questi orgoglioso, continuando a sventolare la regia bandiera tricolore.

Vieni a Macallè – 1935

Note
¹ cfr. Vieni a Macallè, canzone coloniale, 1935 (testo Enrico Frati, musica Eros Sciorilli)
² L’àscari era un militare eritreo, a cui in seguito si aggiunsero quelli reclutati nelle altre colonie africane, che combattè a fianco delle truppe coloniali italiane, inquadrato nei Regi Corpi Truppe Coloniali.Organizzati in battaglioni indigeni, diedero grande prova di valore in tutte le battaglie in cui furono impiegati.
³ Sul monte Amba Alagi si combattè nel 1895 una battaglia dove il presidio italiano, composto da 2.300 persone tra nazionali e indigeni, venne assalito da 30.000 soldati del negus Menelik II e completamente annientato. L’episodio fu uno dei più cruenti della guerra d’Abissinia che vide la sconfitta italiana e ne fermò l’espansione coloniale per molti anni.

Olena regina d’Abissinia (10)

Macallè è la capitale della regione del Tigrè, nel nord dell’Etiopia, a 780 chilometri dalla capitale Addis Abeba; si trova ad oltre 2.200 metri sul livello del mare ed è sede, tra le altre cose, di un polo industriale tessile che lavora per marche di tutto il mondo. E’ stata la prima città etiope dove è stato vietato il fumo nei locali pubblici, divieto apprezzato dai quattro commensali che siedono ad un tavolo del ristorante dell’hotel Lalibela nel quale alloggiano, un due stelle che ha visto tempi migliori ed è stato posto più volte sotto sequestro dalla polizia buoncostume locale.

«Compagni, devo dirvelo. E’ da quando siamo arrivati che ce l’ho qui, in gola, ma sento che è arrivato il momento di esternarlo»
Luisito Lenìn prende un pezzo di injera e lo usa come posata per sollevare un pezzo di tsebhi di agnello e portarselo alla bocca. Lo guarda perplesso, e continua:
«Intendiamoci, è una sensazione del tutto personale, non vorrei che fosse interpretata come una critica alla dirigenza del partito che ci fatto l’onore di mandarci qua»
Ambrogio Cantaluppi, più portato all’azione che alla dialettica, seppur democratica, sbotta:
«Luisito, parla chiaro per la miseria. Finiscila con questi giri di parole, vuota il sacco!»
Lenìn, uomo dai lunghi preamboli, abitudine della quale la sua stessa consorte è infastidita in quanto raramente arrivano ad un dunque, poggia l’agnello, si alza in piedi e dichiara:
«E va bene, se volete che sia diretto lo sarò: mi sono rotto i coglioni! Da quando siamo arrivati non abbiamo fatto altro che zappare, piantare alberi, innaffiarli: se volevo fare il giardiniere restavo a casa, che mia moglie è da una vita che mi dice di tagliare la siepe! Mi si sono riempite le mani di vesciche! E poi, se vogliamo essere onesti, questi in cinquant’anni hanno rasato tutte le foreste, adesso hai voglia a piantare alberelli! »
«Fa’ e disfa’ è tutto un laurà» sentenzia Alcide Remigi, detto Memo.
«E va bene, ma non doveva essere un viaggio di istruzione? Qui pare che facciano apposta a tenerci lontano da tutto, a non farci parlare con le persone! Di che hanno paura, che li contaminiamo?» chiede polemicamente Luisito e si risiede, addentando con foga la pietanza speziata. Attilio Trozzo, il capodelegazione, cerca di riportare la discussione su binari più moderati.
«Compagni, un poco di pazienza! Siamo o non siamo il partito dei lavoratori? E allora lavoriamo. Fate conto di essere tornati alle elementari, quando i primi giorni di scuola piantavamo gli alberi; e poi non siete orgogliosi di partecipare alla realizzazione della Grande Muraglia Verde africana? Un’opera destinata a fermare la desertificazione del continente: l’Etiopia ha già messo a dimora 5 miliardi e mezzo, e dico miliardi non bruscolini, di piante, e voi vi lamentate per qualche vescica alle mani? Vergogna!»
«Trozzo, facciamo a capirci» interviene di nuovo Memo. «Ci sei o ci fai? Non siamo mica boy scouts. Siamo venuti a studiare le istituzioni, prendere contatto con le associazioni sindacali e i partiti di sinistra, incontrare le rappresentanze degli studenti e dei lavoratori, confrontarci con la società civile. Finora non abbiamo visto un’anima viva, a parte le donne che zappettano davanti a noi, ma più che altro le schiene e i sederi, perché non alzano mai la testa. Tra l’altro le facciamo pure rallentare perché non siamo capaci. Allora, si può sapere che c’è sotto?»
«Sì, che c’è sotto?» insorge ancora Ambrogio «E poi perché proprio a Macallè dovevano mandarci? A parte che evoca brutti ricordi» dice il leader del sindacato mimi di strada e falsi invalidi in carrozzella, alludendo alle battaglie combattute e perse nel 1895 dal regio esercito contro l’esercito di Menelik II «ma qui non è per niente sicuro. Questi tigrini si sono fatti la guerra con il governo centrale per due anni, adesso c’è la tregua ma non è detto che non riprendano ad ammazzarsi, e io non vorrei trovarmici in mezzo. Ma chi è il deficiente che ha scelto proprio questo posto?»
«Esatto, un deficiente» incalza Memo «Lo dicevo io che era meglio andare a Cuba! Insomma, questa è gente litigiosa, e non poco. E se qui non si sta tranquilli non è che dalle altre parti sia tanto meglio: verso il Sudan è meglio non avvicinarsi perché sono ai ferri corti per la diga che gli etiopi vogliono costruire sul Nilo Azzurro, con l’Eritrea non ne parliamo che sono stati in guerra per vent’anni, con la Somalia idem, insomma ‘sti abissini sono dei gran rompicoglioni!»
«Senza contare» ricorda Luisito, con una punta di invidia «che ciulano come matti. In trent’anni la popolazione è raddoppiata!»
«Compagni, compagni, e che cazzo! Va bene criticare, ma il popolo lavoratore ha pur diritto di ciulare quanto vuole» proclama Attilio Trozzo, enfaticamente. «E poi, se mi aveste fatto parlare, vi avrei dato la notizia che sono sicuro vi rasserenerà»
«Ce ne andiamo?» chiede Ambrogio, provocatoriamente.
«Al contrario. Domani sera saremo ospiti dell’associazione di amicizia Italia-Etiopia: si terrà una festa da ballo e conosceremo autorità e delegati. Avete visto, uomini di poca fede? E mi raccomando» conclude Trozzo abbassando la voce e avvicinandosi ai suoi commensali «cerchiamo di non farci riconoscere, come al solito»

Olena regina d’Abissinia – 9

Oga-oga-oga-den
Grama la tera püssé mó i gent,
in tel desert non cresc gnent
anca le zuche sun dré a secass
in Ogaden ghen stan sul i sass!

L’Ogaden, storicamente nota come Somalia Abissina, è una delle dieci regioni che compongono l’Etiopia; si trova a sud-est del paese e confina con Gibuti, la Somalia ed il Kenia; è abitata da popolazioni in prevalenza somale, tanto da essere chiamata proprio Regione dei Somali. E’ una terra arida, soggetta periodicamente a siccità e carestie; inoltre ogni tanto, giusto per non farsi mancare niente, ci si fa qualche guerricciola . Ci si potrebbe chiedere perché ci si debba ammazzare per possedere questa terra ingrata: un motivo valido potrebbe essere la presenza di giacimenti di gas naturale e petrolio, o forse semplicemente l’uomo non è molto evoluto dai tempi di Lucy¹, per cui trova buono ogni pretesto per picchiare la clava in testa al vicino.

E’ qui, comunque, in una casupola cotta dal sole nella periferia di Dagabur, che due uomini armati sorvegliano un ragazzo sui venticinque anni con i capelli crespi colorati di arancio, che indossa un paio di pantaloncini, una maglietta verde e gialla della nazionale etiope e un paio di infradito di plastica e strimpella una chitarra non perfettamente accordata inventando strofe che difficilmente potrebbero vincere il premio Tenco a Sanremo.
«Io gli sparo» dichiara il più alto dei due guardiani, che indossa blue jeans attillati e maglioncino dolcevita chiaramento inadeguato alle temperature, portando la mano verso la pistola riposta nella fondina ascellare.
«Non fare stronzate, Surafel. Hai sentito gli ordini del capo, nessuno deve torcergli un capello» lo dissuade il compare, un traccagnotto dal collo taurino.
«Non ce la faccio più a sentirlo!» protesta Surafel. «Ore e ore a cantare scemenze! Ma si può sapere perchè diavolo ce l’hanno fatto rapire, e quanto tempo dobbiamo tenerlo in questa baracca? E che lingua parla, poi?»
«Non farti troppe domande, amico, la curiosità fa male alla salute. Che ti importa che lingua parla, assomiglia all’amarico antico ma per me potrebbe essere pure assiro-babilonese. Lascialo cantare, si stuferà prima o poi… sai come si dice, l’uccellino in gabbia canta per amore o per rabbia…»
«Che ne dite amici, vi è piaciuta? Spacca, vero?» chiede il cantautore, orgoglioso della sua creazione.
«Dacci un taglio, o ti spacco io qualcosa» lo minaccia Surafel, ma l’ispirato rapper non se ne da pensiero e continua imperterrito:
«Ma non è finita! Che ve ne pare di quest’altra?»

Tu-tu-tu-tucul
Qui nel tucul si sta stretti Zietto
ma non c’è bisogno che mi spingi sul letto
eh no non mi sento tranquillo
che fastidio il tuo fiato sul collo
e non spingere dai, chiedi almeno permesso
non sono a mio agio, sono alquanto perplesso
qui in questo tu-tu-tu-tucul.

«Almeno questa si capisce» commenta il traccagnotto.
«Questo è tutto scemo. E c’è anche chi gli compra i dischi, roba da matti» poi, cambiando discorso: «La dispensa è quasi vuota, bisogna andare a far spesa. Vado io, almeno prendo un po’ d’aria»
«Sì, va bene, ma vai al mercato lontano, non quello qua vicino. E poi non comprare solo verdura come l’altra volta, che mica siamo delle capre»
«Si, ok. Ci mancherebbe che ci mettiamo a litigare sulla spesa, come una coppietta di mezz’età. Sai che ti dico? Che se entro tre giorni non ci dicono cosa fare di questo deficiente io gli sparo e lo sotterro, e poi dico che è scappato»

Mentre Surafel si prepara ad uscire, dall’altra stanza si sente ancora la voce di Bronch’io:
«Vi piace la maglietta, amici? Me l’ha regalata Selemon² in cambio del mio ultimo album. Ora fatemi un grande ciao ciao!»

Olena si siede sul letto, e solleva il telefonino che vibra sul comodino. Guarda la notifica che è appena arrivata, e le scappa un sorriso.
«Jemal, penso di non avere più bisogno di te» dichiara all’uomo disteso di fianco.
«Come mai? Ti ho deluso, capitano?» ridacchia Jemal, tirandosi a sua volta a sedere.
«Certo tu non rende più come trenta anni fa» constata la russa «tu imborghesito. Tu deve fare più esercizio. Ma motivo non è questo»
«Ah, no? E perché, allora?»
«Perché io trovato da sola. Guarda qua»
E Olena mostra a Jemal una diretta facebook dove un ragazzo in maglietta verde e gialla inquadra due persone con delle fondine ascellari bloccate in un’espressione tra lo stupito e lo spaventato, finché il più tozzo dei due si riprende e inveisce verso l’altro:
«Cazzo, Surafel, non gli hai tolto il cellulare! E adesso?»

Olena regina d’Abissinia – 8

«Mi amor, porqué sei asì pensosa? Domani è il grande giorno, non sei felice?»
Miguel e Paio Pignola, ormai alla fine della loro luna di miele in Marocco dove hanno partecipato al classico tour delle città imperiali con tanto di escursione in cammello, sono seduti al tavolo del ristorante Al corno di rinoceronte del loro amico Farouk, a Casablanca, che ha preso il posto del vecchio Le Zac et voilà del defunto Ahmed Marrakech, marito della bella Fatima, morto per uno sfortunato incidente infilzato proprio da quel corno che campeggia sopra l’insegna del locale rinnovato¹.
«Non lo so, non so spiegarlo, sono preoccupata» confessa Paio, stringendo le mani del suo sposo, di un paio di taglie più piccole delle sue.
«Ma come, mi amor, è da tanto che aspetti questo momento. Il tuo sogno finalmente si realizzerà, sarai quello che hai sempre desiderato essere!»
«Sì, è vero, l’ho desiderato tanto. E i tuoi genitori sono stati davvero carini a regalarmi l’operazione come regalo di nozze. Però…»
«Però cosa, mi amor? Finalmente darai l’addio al vecchio Hector, e sarai solo Paio!» la rincuora il giardiniere.
«E’ proprio questo che mi preoccupa. Tu mi amerai ancora? Sarò una vera donna, ma mi mancherà per sempre qualcosa. Non è che poi andrai a cercare da qualche parte quello che non potrò più darti?» chiede accorata Paio.
«Insomma, querida: quando eri uomo eri gelosa perché sono stata con una donna, peraltro una volta sola e in stato di incoscienza, adesso che diventi donna mica diventerai gelosa degli altri uomini!»
«Ma io potrò farti veramente felice? Non posso avere figli» si strugge il cubano.
«Pazienza. Un figlio io ce l’ho già, ce lo divideremo con la madre. Casomai ne adotteremo qualcuno» propone Miguel, rabbrividendo all’idea di avere per casa degli altri piccoli Chico² pelosi e zampettanti.
«Non so, sono così confusa. Forse sarebbe meglio pensarci ancora un poco…»
«Ma Paio, siamo venuti a Casablanca apposta, abbiamo preso appuntamento con il migliore chirurgo, la visita è andata benissimo, cosa ha detto il professore? E’ un’operazione di routine, un taglietto e non ci pensi più. Niente più bisogno di bendaggi che comprimono, che schiacciano, potrai metterti in bikini senza problemi e nessuno saprà mai che fino al giorno prima hai avuto un pene, e abbastanza ingombrante tra l’altro. Un fastidio in meno!»
«Sì, hai ragione, basta ripensamenti. Domani mattina mi accompagnerai in clinica, come d’accordo, e dopo tre giorni ne uscirò come nuova. Ah, Miguel, che ne facciamo di “lui”?»
«Lui chi?» chiede Miguel.
«Be’, lui, l’ammennicolo, l’indesiderato, il pendente. Pensi che mi permetteranno di portarlo a casa? Vorrei tenerlo come ricordo»
«Paio, non mi sembra il caso. Mi sembra un po’ macabro, non trovi? Vuoi metterlo sopra al caminetto? E poi a che pro rimembrare sul membro perduto? No, no, lascia stare, ci penseranno i dottori a smaltirlo come si deve» cerca di dissuaderla Miguel.
«Forse andrebbe seppellito. So che quando ad esempio viene amputato un arto, questo si seppellisce in attesa che arrivi il resto»
«E che vogliamo fare, Paio, la tomba al tuo uccello? Dai, mi pare ridicolo!» sbotta il messicano, che comincia ad innervosirsi.
«Tu sei un mostro, sei insensibile, sei… sei… etero! Allora sai che ti dico, io non mi faccio operare e rimango come sono. Se non ti sta bene, amen!»
«Ma Paio, a me non frega niente se ti operi o no, a me piaci come sei! Sei tu che volevi farlo. Se ci ripensi per me va bene» dichiara Miguel, comprensivo. Ma subito dopo una domanda gli sorge spontanea: «Sì, ma ai miei che diciamo?»

¹ L’incidente aveva impedito ad Ahmed di concorrere al cooking show “Non aprite quel raviolo” sponsorizzato dalla Rana; Farouk, suo cugino e chef del ristorante, aveva partecipato al suo posto finendo tra i sospettati dell’omicidio del presentatore Alessandro Turchese (cfr. “Tre stelle per Olena”, 2022)
² Chico, frutto di una notte di passione alcolica tra Miguel e Conchita, la donna barbuta, è nato con un accentuato irsutismo che col tempo, assicura lo specialista tricologo, si risolverà; nel frattempo il piccolo si è aggregato ad una colonia di koala che è stata ospite per un periodo a Villa Rana, animaletti con i quali ha fraternizzato a tal punto da essere accolto nella loro tribù e con i quali ora è in vacanza in Australia.

Olena regina d’Abissinia – 7

Addis Abeba, aeroporto internazionale Bole.

«Forse avremmo dovuto aspettare l’arrivo di Natascia…» osserva rispettosamente James, guardando perplesso la padrona che avanza tacchettando inguainata in una tutina leopardata seguita da Svengard che spinge un carrello pieno di valigie, anche loro leopardate, respingendo l’assalto dello stuolo di facchini che vorrebbe guadagnarsi la pagnotta servendo quelli che appaiono come ricchi turisti.
«Sì, dovevamo aspettare Natascia» conferma Svengard, sbuffando.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, mi pare» lo redarguisce Gilda, puntandogli contro il ditino. «E ricordati che sei ancora sub judice, se è la parola giusta. Non capisco il motivo di tutta questa segretezza. Non potevamo viaggiare con il nostro aereo, invece di quello di linea? A quest’ora saremmo già in albergo sotto la doccia» si lamenta la Calva Tettuta, portandosi al nasino un fazzoletto di seta intriso di essenza di Artemisia Arborescens per allontanare l’odore di umanità che ristagna nell’aria.
Giunti all’uscita del gate, uno chauffeur vestito in un completo nero che gli sta un po’ largo di spalle, con i capelli rasta raccolti a stento sotto il berretto di ordinanza, li aspetta mostrando un cartello “Regina di Saba”, il nome dell’albergo dove è stata prenotata per loro la suite imperiale.
«Ecco, avete visto? Sono venuti a prenderci, uomini di poca fede»
L’uomo li guida fino ad un minivan con i vetri oscurati, in vicinanza del quale Gilda si ferma perplessa, guardandosi intorno.
«Senta, buon uomo» chiede rivolta allo chauffeur «giusto per essere sicuri che non ci siano fraintendimenti, a lei l’ha mandata Natascia, giusto?»
L’uomo annuisce, cordiale; apre la porta scorrevole del Van e invitando i tre ad entrare ripete il nome dell’albergo. Gilda, titubante, ignora l’invito.
«Credo sia il caso di chiamare, non credi James? Paese che vai usanze che trovi, non vorrei che ci portassero a fare un giro turistico per spillarci qualche soldo. No giro turistico, compris?» intima all’abissino, aiutandosi sempre con il ditino alzato.
«Regina di Saba» la rassicura l’autista, e più che i denti di madreperla che spiccano sulla pelle olivastra è la pistola Glock 43 che punta verso di loro che li convince a salire in macchina.
«Cominciamo bene» commenta la Calva Tettuta, sistemandosi nervosamente il turbante leopardato.
«L’avevo detto, io» precisa con dubbio tempismo Svengard, beccandosi una borsetta leopardata in testa.

Ethiopian Empire Hotel, centro di Addis Abeba

«Jemal? Qui Olena, tu ricuorda di me?»
L’uomo, un massiccio sessantenne dai capelli rasati ed una lunga cicatrice che gli attraversa il volto, immerso in una grande vasca Jacuzzi, guarda sorpreso il cellulare che gli ha passato una delle due massaggiatrici che lo aiutano con diligenza ad espletare le pulizie quotidiane.
«Olena… tenente Smirnoff?» chiede incredulo, raddrizzandosi di scatto.
«Capitano, prego» precisa Olena.
«Buon Dio» esclama Jemal «è proprio lei? Che piacere sentirla, ma quanti anni saranno passati…?»
«Trenta anni» lo aiuta la russa. «Trenta anni precisi da quando abbiamo aiutato quel criminale di tuo capo Menghistu a scappare da suo compare in Zimbabwe. Avremmo fatto cosa giusta a piazzare lui palla in testa»
«Ah, ah, sempre animosa, vedo. Sì, forse sarebbe stato meglio, in pochi l’avrebbero rimpianto. Ma eseguivamo ordini tutti e due, dico bene? Non stava a noi decidere cosa era giusto e cosa no»
«Già» conferma Olena «qvesto grosso problema. Chi decideva…»
«Capitano, non mi avrà chiamato per parlare di politica, vero? Non mi occupo più di quella roba, ho altro per la testa adesso. Sono un uomo d’affari…»
«Sì, io conosco tuoi affari Jemal. Qat¹, donne e gioco d’azzardo. Nuovo sole di avvenire…»
«Non mi dirà che è nostalgica, capitano. E’ stato bello finché è durato, e ci ho pure creduto. Poi il mondo è cambiato e mi sono dovuto reinventare. Lei invece è rimasta nel giro?»
«Ho bisogno di tuo aiuto, Jemal» chiede Olena, senza rispondere.
«Lei hai bisogno del mio aiuto? Questa è bella. Come le dicevo non sono più nel giro, ma magari potrebbe venire da me e parlarne a quattr’occhi» invita l’uomo insinuante.
«Non sembra molto buona idea» dice Olena «tua vasca da bagno è piuttosto affuollata»
«Che cosa?» chiede l’etiope stupito, notando finalmente il puntino rosso che gli illumina il centro del petto, provocato dal laser del fucile di precisione che Nonna Pina gli sta puntando dal terrazzo dell’albergo di fronte, osservazione che lo spinge ad uscire di scatto dalla vasca e dalla stanza da bagno, fuori dalla quale lo aspetta una bionda in pelliccia che gli sorride beffarda e gli porge un accappatoio di spugna. L’uomo si ferma e sorride a sua volta, sollevato.
«Ma che cavolo, Olena, che scherzi sono questi? Mi hai fatto prendere un colpo!» sbotta passando ad un linguaggio meno formale.
«Vedo che tu tenuto bene in forma, complimenti» dice Olena, soppesando quanto rimasto degli antichi splendori.
Jemal scuote la testa allacciandosi la cintura dell’accappatoio, indica alla russa la poltrona, riempie due bicchieri di vodka e gliene passa uno; le si siede di fronte ed alzando il bicchiere per brindare chiede:
«Dunque? Che posso fare per te? »
«Sto cercando un uomo. Sembra sia stato rapito, e non voglio perdere troppo tempo »
«Chi è?»
«Suo nome è Hacalu Maconnèn, ma lui fa chiamare Bronch’io»
«Bronch’io? Ma che razza di nome è?»
«Lui rapper» chiarisce Olena.
«Musica degenerata» sentenzia Jemal, vuotando il bicchiere. «Ai bei tempi l’avremmo mandato nell’Ogaden² a spaccare pietre. Perché è stato rapito?»
«Non posso dire te»
«Ah, ah, sei sempre la solita…» ride Jemal, battendosi la mano destra sulla coscia.
«Ok, ci sto. Ma a me che ne viene?» chiede l’etiope, divertito.
«Mia riconoscenza» dichiara Olena, alzandosi in piedi e facendo scivolare a terra la pelliccia turchese «E un milione di dollari.»

¹ Il Qat è una pianta, coltivata in Etiopia ed in altre parti dell’Africa, le cui foglie masticate hanno un effetto anfetaminico, reprimendo tra le altre cose gli stimoli di fame e fatica, ragione per la quale erano usate tra i contadini dei poveri altipiani, un po’ come succede sugli altipiani boliviani con le foglie di coca. Uno dei suoi effetti è quello dell’aumento della libido e del desiderio sessuale, sarà per questo che gli etiopi si riproducono tumultuosamente?
² L’Ogaden, grande regione dell’Etiopia che confina con Gibuti, Somalia e Kenya, è abitato da popolazioni di etnia somala e religione musulmana. Più grande dell’Italia, ma con meno di 7 milioni di persone, oggi fa tecnicamente parte della Regione dei Somali, creatura burocratico-amministrativa del governo etiope. Non bastassero siccità e carestie, ogni tanto la gente pensa bene di ammazzarsi con qualche guerra civile.