Vecchio è chi vecchio fa (Cronachette dall’ex zoccolo duro)

E sono 62, amiche e amici! Finora non mi sono annoiato, speriamo di continuare così. A parte questo ultimo periodo in smart working, se proprio vogliamo sottilizzare… a questo proposito, lo scorso weekend come sapete si sono tenute le giornate FAI di autunno, con l’apertura di tanti beni e monumenti di solito non visitabili. Ho approfittato della bella giornata per andare a Canzo, nel triangolo Lariano, per visitare la bella Villa Magni-Rizzoli che dopo un periodo di incuria è stata acquistata da una società che la utilizza come location (si dice così, fa molto chic) per matrimoni sontuosi. Adesso pare che non ci siano più le mezze misure: o non ci si sposa, o se ci si sposa si vuole la villa da sogno: ma che c’è di male nel vecchio buon ristorantino? Ah, quei bei matrimoni che partivano dall’antipasto di affettato per passare agli straccetti in brodo, il bollito con le erbette, tagliatelle e vincisgrassi, frittura mista (con olive ascolane e crema fritta, che ve lo dico a fare), insalata per sciacquarsi la bocca e infine arrosti misti! (e pensare che quando mi ci trascinavano da giovane mi sembrava una tortura). E’ ovvio che qui in Lombardia il menu era diverso, ma ci siamo capiti.

La Villa ha una storia non lunghissima: costruita a cavallo dell’ottocento-novecento in uno stile eclettico (insomma un misto frutta di stili, su cui predomina il neo-medioevale), è situata su una collinetta, con un grande parco intorno dove spiccano una fontana ed un piccolo oratorio con una torretta; l’interno ha delle sale decorate riccamente e specialmente interessante è la biblioteca (di cui rimane solo il nome, i volumi non ci sono più) rivestita da affreschi onirici che sembrano quasi fumetti di Lanciostory per chi è anziano come me e pratico del genere. Come dicevo, ospita ricevimenti e eventi, per cui chi fosse interessato può farsi sotto. Tra i volontari che accoglievano i visitatori svettava per presenza fisica mio figlio, la qual cosa ha reso oltremodo orgogliosa la mia consorte. Insomma, l’avrò fatto studiare Arte per qualcosa, no?

Il nome Rizzoli evoca libri: ed infatti il proprietario, dopo i Magni, era quel Rizzoli fondatore della casa editrice, Angelo, poi andata in malora con suo nipote (anche lui si chiamava Angelo, ve lo ricordate? Sposato con Eleonora Giorgi, lei almeno la ricorderete, no?). Voglio dire una cosa ai ragazzi: questi sembrano a volte i tempi più cupi mai vissuti. Ma non perdete la fiducia nel futuro: i miei nonni ed i miei genitori hanno visto la guerra; la mia generazione ha vissuto il periodo del terrorismo, con le sue stragi ed i suoi lutti; in quel periodo in Italia abbiamo avuto una loggia massonica come la P2 che si è infiltrata in tutti i livelli di comando fino a sostituirsi quasi allo Stato. Che allora seppe reagire, certo i protagonisti erano di un livello parecchio più alto degli scalzacani di oggi… ops, scusate, mi sono lasciato andare. Quello era il periodo in cui Rizzoli junior , iscritto a sua volta alla loggia, perse tutto quello che il nonno aveva costruito. Se poi si va a vedere a chi è finita la Rizzoli si capiscono tante cose, ma non voglio togliervi il gusto di ricercarvelo per conto vostro…

Finita la visita abbiamo passeggiato un po’ per Canzo, paesino delizioso, che tra le altre cose diede i natali a Filippo Turati, uno dei padri del socialismo in Italia; nel parco c’era un concerto di un’orchestra swing, pieno di spettatori. Da queste parti venivamo tanti anni fa, ci si parte per le passeggiate ai corni di Canzo, i monti che la circondano, con sentieri non troppo impegnativi (è relativo: adesso lo sarebbero di sicuro) e baite dove rifocillarsi quando si è stanchi. Qui si imbottigliava un’acqua parecchio rinomata da queste parti (la fonte Gajum) ma ad un certo punto la fabbrica ha chiuso perché la vena non dava più materia sufficiente per avere un riscontro economico, insomma era più la spesa che l’impresa. Adesso rimangono delle fontane dove l’acqua sgorga libera, e spesso si trova la fila di gente che riempie bottiglioni e damigiane.

E’ morto Franco Cerri, grande chitarrista jazz. Quelli giovani come me lo ricordano per una pubblicità dove faceva l’omino in ammollo per una marca di detersivo. Da qualche parte devo ancora avere un suo metodo per chitarra, come avrei voluto suonare come lui!

Amiche e amici, vi saluto: stasera niente bisboccia, stapperò solo una bottiglietta e se mi permettete brinderò alla vostra salute, facendo finta che siate tutti con me. Prosit!

Finalmente libero!

Amiche e amici, sabato mattina ho avuto il responso al terzo tampone e stavolta è stato fausto: negativo! Come notizia è positiva, e vuol dire che dopo 28 giorni di isolamento posso uscire dalla stanzetta e tornare alle consuete abitudini. Vagheggiavo questo momento e nella mia fantasia mi vedevo pronto a darmi alla fuga, in stile Papillon: niente di tutto questo, fuori faceva freddo, mi sono spaventato e sono rimasto lo stesso in casa: sindrome di Stoccolma, mi sarò innamorato del virus?

Venerdì era passato nell’attesa, anzi a dir la verità ero stato parecchio preso con il lavoro; un mio collega romano, forse condizionato dai miei racconti, di ritorno da qualche giorno di ferie in Friuli con un po’ di mal di gola si è precipitato in farmacia a farsi fare il tampone veloce, fortunatamente negativo.

Sabato è passato cercando di cancellare questo periodo: la stanza d’isolamento è stata ribaltata e disinfettata, tutte le lenzuola asciugamani coperte cuscini pigiami insomma tutta la stoffa con cui sono venuto a contatto è finita sul balcone a decontaminarsi; la finestra è rimasta spalancata per due ore, per far uscire il residuo d’aria cattiva eventualmente rimasto, quest’ultima operazione non mi ha giovato granché perché quando ho ripreso il mio posto al computer, smanioso di mettermi in pari con i conti di casa, devo aver preso un po’ freddo e la sera ho iniziato a starnutire. Ho sistemato il vino appena arrivato in cantina, diciamo che al momento potrei superare anche una eventuale terza ondata; ho anche fatto i conti di quanto ho speso quest’anno di vino e mi si sono drizzati i capelli, già dritti di loro perché dovrò andare al più presto a tagliarli: chi vende vino non può certo lamentarsi del lockdown…

Cosa che invece fanno i benzinai, che hanno annunciato uno sciopero dalle 19 di domani a mercoledì; sicuramente quest’anno per loro è stato un anno magro, e mi sembra protestino perché la loro categoria non è rientrata tra quelle aventi diritto ai ristori; magari girando a loro un po’ degli utili indebitamente incamerati negli anni scorsi da Società Autostrade, qualcosa potrebbero recuperare.

Oggi, per tornare come dicevo alle vecchie abitudini, pranzo a casa di mia suocera: la Lombardia è da oggi zona gialla e quindi siamo potuti sconfinare nel paese in cui lei vive, a sette chilometri da qui; sembra che il governo sia orientato per Natale a permettere gli spostamenti almeno tra piccoli Comuni limitrofi, dove per piccoli si intende con meno di 5.000 persone; è abbastanza assurdo infatti che uno possa spostarsi per tutta Milano che ha più di un milione e quattrocentomila abitanti e non possa farlo tra due paesini che si toccano…  

Mia moglie sabato ha provato a fare la prima operazione di cashback dal panettiere. Bene, questo ha messo fuori un bel cartello “no cashback”. Sembra che per i piccoli esercizi ci sia un costo aggiuntivo che non tutti possono permettersi, io nella mia ignoranza pensavo che bastasse avere un Pos e invece non è così: le società che gestiscono i Pos devono aver fatto una convenzione con lo Stato, e l’aggiornamento dei sistemi viene in parte ribaltato ai commercianti, così però succede che una parte del cashback non la paga lo Stato ma i commercianti stessi, e come al solito saranno favoriti i più grandi, i supermercati o chi vende articoli già di per se stessi costosi… c’è anche la questione del costo per operazione, anche se ho visto che diverse società hanno deciso di non far pagare commissioni fino a 10 euro di spesa, però su loro iniziativa volontaria, sarebbe stato meglio imporglielo… ricordo anni fa a Goteborg, in Svezia, le carte erano accettate anche per le spese più minute dappertutto e addirittura dei negozi accettavano solo carte, niente contante… c’è anche una polemica sul fatto che tanti italiani sono stati disposti a dare i propri dati per i benedetti 150 euro quando magari si erano rifiutati di installare la app Immuni per non essere “tracciati”: in realtà io credo che ormai lo Stato non abbia più nessun bisogno che gli diamo i dati, ce li ha già… mia moglie ha registrato il Bancomat e le è bastato mettere il suo codice fiscale perché già le apparisse senza il bisogno di aggiungere nient’altro: ci siamo capiti, no?

Tornando a casa da mia suocera un grande fila di auto, chi in entrata e chi un uscita dalla città; ieri mio cognato che lavorava in città mi ha detto che in giro c’era una folla, evidentemente anticipando la zona gialla; è ovvio che pagheremo caro pagheremo tutto, come si diceva una volta. Entro l’estate pare che verremo vaccinati tutti (almeno chi vorrà, anche se c’è chi pensa di rendere il vaccino obbligatorio; non per fare la parte del no-vax ma non sono d’accordo su quest’ultima impostazione, considerando anche la fretta con cui questi vaccini sono stati fatti).

Non sono ancora andato a trovare il mio amico edicolante perché a mia volta sono andato ad inaugurare il cashback all’Esselunga comprando il giornale locale: domani chiederò a Giuseppe se ha intenzione di mettere il Pos, ma mi aspetto già la risposta… le notizie sono deprimenti: l’Egitto ha deciso di tenere ancora in prigione Patrick Zaki, ed è una vergogna; sulla vicenda di Giulio Regeni le nubi si stanno squarciando e quello che si sapeva fin dall’inizio è ormai certo, ovvero che il ricercatore è stato sequestrato e ucciso dall’apparato di sicurezza (i servizi segreti) di quel paese; nel contempo Macron riceve con tutti gli onori il presidente egiziano El-Sisi a cui sta vendendo un fracco di armi come noi peraltro, che gli abbiamo venduto due fregate per 1,2 miliardi di euro: se non lo facevamo noi l’avrebbe fatto qualcun altro si dirà, ed a chiederne conto si passa per anime belle: ma abbiamo visto nel passato tanti personaggi passare in poco tempo dallo status di stimati presidenti a quello di efferati dittatori pur continuando a fare esattamente le stesse cose che facevano prima, vedi Saddam o Gheddafi, chissà che prima o poi il vento giri anche per lui.

Ma la notizia che più mi ha addolorato è stata la morte di Paolo Rossi, il centravanti dell’Italia mundial dell’82, i mondiali con Pertini ad esultare sugli spalti del Santiago Bernabeu di fianco a re Juan Carlos, dell’urlo di Tardelli, della parata sulla linea di Zoff contro il Brasile, di Bearzot e la sua pipa… non avevo ancora 23 anni, fu un’estate felice resa ancora più felice da questa vittoria anche (e forse soprattutto, che nel calcio non si vince ai punti, bisogna segnare) grazie ai goal di Pablito, con il suo senso della posizione, la sua velocità, la sua scaltrezza, di questo ragazzo che incantava oltre che per la bravura per la simpatia, l’umiltà, il sorriso… Giustamente in questi giorni viene ricordato ovunque abbia giocato con commozione: per me quella fu l’ultima estate spensierata, poi vennero il lavoro, l’amore, la famiglia… qualcuno ha descritto quel momento come un’uscita corale dagli anni bui degli anni ’70, ma su questo non sono affatto d’accordo, fu una parentesi, un bel sogno: nemmeno due mesi dopo a Palermo in Via Carini la mafia uccideva il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, ed il buio divenne ancora più profondo.

Ma bando ora alle tristezza, amiche e amici: rallegriamoci per quanto abbiamo oggi, ieri è passato e domani ha da venire; stasera minestrone, e da domani cominceremo a pensare ai regali!

Una birra per Olena (XXIII)

Mentre l’orchestrina di ottoni in costumi tradizionali attacca Ein prosit der Gemütlichkeit¹ Fritz solleva il boccale che la premurosa e prosperosa cameriera Baldegunde chinandosi gli ha poggiato sul tavolo, mettendo oltretutto in mostra un ragguardevole davanzale.
Fritz si distrae nella visione della tenera bavarese che sparecchia, la osserva radunare i boccali vuoti e caricarli su di un largo vassoio; e non gli sfugge l’occhiata maliziosetta che la ragazza, sentendosi osservata, gli scocca prima di andarsene. Infine, scacciando dalla mente fugaci pensieri di lieti accoppiamenti con Baldegunde che reggono vassoi, torna alla domanda rimasta in sospeso.
«Commissario, ma cosa ci faceva a Dresda? Era dall’altra parte! Non capisco come…»
«Fritz, mi faresti il piacere di non continuare ad interrompere?» lo interrompe a sua volta Horst.
«Apri bene le orecchie e fai conto di avere a che fare con Paganini, il violinista, non il ballerino italiano, perché non ripeterò due volte quanto sto per dire»
Fritz, annuendo, si predispone all’ascolto buttando giù un generoso sorso di birra.

«Dicevo» continua Horst «che nell’89 ero di servizio a Dresda. Si, Fritz, Dresda, Germania Est. Sono nato e cresciuto a Lipsia, in Sassonia; ho svolto il servizio militare nella Nationale Volksarmee, la NVA, come sottotenente ed infine mi sono arruolato in polizia, nella Volkspolizei: cinque mesi di corso, sei mesi di pratica e poi ho preso finalmente servizio, nel 1980, prima a Magdeburgo e poi a Berlino.
Infine, nel 1988, venni destinato alla sorveglianza dell’ambasciata sovietica a Dresda. L’aria stava cambiando, e fu lì che…»
«Che conobbe la russa?» interviene Fritz, dopo essere riuscito a chiudere la bocca rimasta aperta per lo stupore.
«Fritz, non spoilerare² i finali o tolgo la sicura alla mia Glock»
«Chiedo scusa, commissario capo»
«E fu lì che conobbi Olena, si. Lei era stata appena nominata attendente dell’ufficiale al comando; ma i suoi compiti andavano ben oltre quelli di assistenza…»
«In che senso, scusi?»
«Fritz, l’hai sentito con le tue orecchie: Olena era una spia. Non che fosse un segreto per noi, lo sapevano anche i sassi che gli uomini dell’ambasciata erano del Kgb, così come quelli delle nostre ambasciate erano della Stasi e, per inciso, nelle “vostre” c’erano quelli del Bundesnachrichtendienst³.»
«Ma scusi, cosa c’era da spiare nella DDR? Eravate amici con l’URSS, mi pare…»
«Come sei ingenuo, Fritz, mi commuovi quasi, c’è sempre da spiare. Secondo te perché la NSA americana ha spiato per anni i suoi alleati (e non è detto non lo faccia ancora oggi), tra cui la nostra Cancelliera? Per esercitare il potere a volte non è necessario usare la forza: basta avere le informazioni giuste… ma lasciamo stare questo discorso, per adesso.»

Horst beve un sorso della sua Original Münchner Hell, e riprende il racconto:
«Hai mai sentito parlare del caso Sobolev, Fritz?» e al cenno di diniego del sottoposto, continua:
«Serghei Sobolev era un diplomatico russo, aveva una settantina d’anni e viveva con la moglie Olga in un appartamento non distante dal teatro dell’Opera. Un bel giorno, mentre la moglie era in Crimea per una cura termale, Sobolev sparì. Capirai, caro Fritz, che un diplomatico che diserta non fa mai piacere, e in quel periodo di Glasnost e Perestrojka ancora di più, voleva dire non credere nel nuovo corso. Se nemmeno un diplomatico aveva fiducia che le cose potessero cambiare…»
«Ma lei che c’entrava, capo? Di solito se ne occupano i servizi di queste cose…»
«E in effetti fu così, Fritz. All’inizio tutti pensarono che si trattasse della solita fuga in occidente, e le indagini si orientarono in quella direzione. Dopo qualche tempo le ricerche vennero interrotte, in attesa di vederlo ricomparire da qualche parte del mondo magari presentando qualche libro, ma il tempo passava e di Sobolev non si avevano notizie. Finché un giorno, camminando sulla Stübelallee per andare a casa, vicino all’Orto Botanico, venni affiancato da due donne, apparentemente madre e figlia. La più giovane mi prese sotto braccio e mi disse di continuare a camminare facendo finta di niente: aveva argomenti parecchio convincenti, come la pistola che mi teneva premuta sulle costole. Ad essere onesti, più che preoccupato ero incuriosito: che diamine volevano da me quelle due? E poi, ti sembrerà assurdo caro Fritz, ma camminare al braccio di quella ragazza mi dava delle strane sensazioni… sentivo il suo corpo appoggiarsi al mio, il suo profumo, e tutto quello che riuscivo a pensare era che mi sarebbe tanto piaciuto spogliarla… quello fu il mio primo incontro con Olena»

Horst prende un’altra boccata di birra e sorride vedendo l’espressione stupefatta del suo aiutante.
«Una volta arrivati a casa Olena, senza minimamente scusarsi, si presentò e mi chiese o meglio mi ordinò di ascoltare quello che l’altra donna aveva da dire. Si trattava nientemeno che di Olga Soboleva, la moglie dello scomparso, una bella signora di 65 anni, elegante, molto distinta. Mi disse di essere preoccupata per suo marito; era sicura che non se ne fosse andato di sua volontà ma che doveva essergli successo qualcosa. Le chiesi perché raccontava queste cose a me, le indagini non erano di mia competenza, ma la donna disse di aver già raccontato quelle cose agli inquirenti che però, convinti della fuga, non gli avevano dato peso. “Si, ma perché proprio io!” Mi ricordo che protestai. Olena allora si avvicinò, mi si mise di fronte e mi guardò fisso, per dei secondi interminabili. Dalla lampada un raggio di luce dovette riflettersi nei suoi occhi, perché per un attimo rimasi abbagliato ed a malapena la sentii sussurrare nel mio orecchio “Horst, lo so che mi vuoi. Non fare i capricci, panzerotto.” Poi mi baciò.»

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¹ Un brindisi per la felicità
² Spoilerare, neologismo accettato dall’Accademia della Crusca, è usato per chi rivela i finali di film o romanzi a chi non li ha visti o letti. Chi lo fa non è un buontempone come crede lui ma una persona malvagia.
³ Il Bundesnachrichtendienst (o BND) è l’agenzia di intelligence esterna della Repubblica Federale Tedesca

Una birra per Olena (XVIII)

«E una volta finite le Olimpiadi, che è successo?» chiede Fritz, ancora sbalordito.

«Bè, eravamo gasatissimi… avevamo fatto il pieno di medaglie, e gli occidentali avevano fatto una figuraccia, con quel velocista canadese che correva come il vento, Ben Johnson, te lo ricordi con quegli occhi a palla… squalificato per doping!»
«Eravamo quasi sicuri che ci fosse lo zampino della Cia, perché aveva ridicolizzato il loro campione, Carl Lewis, così telegenico, così perbenino… ma lasciammo stare, non ci conveniva sollevare polveroni» afferma Olena, portando poi alle labbra con nonchalance la flüte di  champagne.
«Tornammo quindi a Dresda, al centro federale, e riprendemmo gli allenamenti» riprende Ursula  «ma poco dopo iniziai ad avere dei problemi…»
«Che tipo di problemi?»
«Era da tempo che avevo una crescita di peli enorme… per fortuna sono bionda, ma le mie compagne more dovevano radersi tutti i giorni. I medici ci dicevano che era un effetto degli allenamenti, che il fenomeno era solo temporaneo e presto sarebbe regredito. Ma fosse stato solo quello… iniziai ad avere dei problemi ginecologici. Le mestruazioni mi erano sparite, ma ero più che sicura di non essere incinta… di notte avevo dei dolori fortissimi, ma i dottori continuavano a rassicurarmi e darmi qualche antidolorifico. Tra l’altro, ed era buffissimo, mi si stava gonfiando il clitoride…»
«Il clitoché?» chiede Fritz, sempre più confuso.
«Il clitoride caro, il clitoride, dovresti conoscerlo, no? E’ un bel po’ che non lo cerchi, ma è sempre al suo posto, che credi? E la vuoi smettere di interrompere?» intima Ursula.
«Un giorno esco dalla palestra per andare al villaggio, e chi trovo ad aspettarmi? Lei, Olena!» e sorride, indicando la russa.
«Si, mi avevano mandato in servizio all’ambasciata russa, aiutante dell’ufficiale al comando» conferma Olena.
«Che non si può lamentare del tuo aiuto infatti… ha fatto un bel po’ di carriera, mi pare» le strizza l’occhio, e continua:
«Mi invitò a prendere una cioccolata, e andammo in un bar poco distante. Ad un certo punto sentii uno di quei dolori, e devo essere impallidita, perché Olena se ne accorse subito. E stavolta fu lei a salvarmi…»
«Perché, che successe?» interviene Fritz, subito rimbeccato da un’occhiataccia.
«Pagò il conto, e mi disse di andare fuori. Capii dopo perché, non voleva che qualcuno ci sentisse, eravamo spiate continuamente, io non lo sapevo ma lei si…»
«Sicurezza nazionale…» annuisce Olena.
«Mi chiese che medicine stessi prendendo, e le dissi degli integratori e ricostituenti che ci davano tutti i giorni, e della pillola blu…»
«Pillola blu? Ma che diamine le davano, il Viagra?» chiede Fritz a Olena, più che mai confuso.
«Tuo marito è un porcellino, vero Ursula? Non si direbbe a guardarlo. E bravo Herr Gunnerbaum» risponde Olena con un accenno di sorriso, per poi tornare seria:
«Il farmaco si chiamava Oran-Turinabol: si trattava di uno steroide anabolizzante androgeno, che in pratica portava ad una virilizzazione delle donne, permettendo loro di ottenere grandi risultati… con qualche effetto collaterale»
«Effetto collaterale! Ma porca puttana, vi drogavano come cavalli quei delinquenti!» esplode Fritz.
«Si, ci drogavano e ci ammalavamo. Solo dopo la caduta del muro scoprimmo che il sistema era pianificato ai più alti livelli, a partire dal ministero dello Sport… e giù a scendere, alle industrie che producevano sempre nuove sostanze per sfuggire ai controlli con la complicità dei migliori scienziati, gli allenatori, i medici sportivi…»
«Bastardi…» dice Fritz «spero li abbiano messi tutti in galera»

Ursula lo guarda con tenerezza scuotendo la testa, e continua:
«Olena mi disse di smettere immediatamente di prendere quella pillola. Io avevo paura che se ne accorgessero, ci facevano le analisi del sangue ogni settimana, non sapevo cosa fare, e non volevo credere che ci facessero del male coscientemente… viste le mie titubanze, Olena mi propose di scappare, avrebbe organizzato tutto lei»
Ursula prende la mano di Olena, e la stringe.
«Il giorno dopo ci incontrammo, e io le dissi che non me la sentivo di mollare tutto. Lei mi sorrise e mi abbracciò… poi mi sussurrò all’orecchio una cosa che lì per lì non afferrai»
«E che cosa?» interrompe per l’ennesima volta Fritz.
«Mi guardò fissa negli occhi e mi disse “Scusami, Ursula, brucerà un pò”. Poi mi sparò.»
«Ti sparò?» trasecola Fritz. «Ma che cazzo?»
«Ricordo, più che il dolore, lo stupore… il sangue che scorreva sul braccio, e il fazzoletto che Olena mi mise in bocca, prima di addormentarmi»
Olena porta il bicchiere all’altezza degli occhi, e quasi parlando a se stessa dice:
«Ti saresti fatta ammazzare, Ursula, o saresti diventata un mostro… era la cosa migliore da fare…»
«E così per non farla ammazzare ha provato ad ammazzarla lei! Ma lei è pazza!»
«Olena non aveva nessuna intenzione di uccidermi, Fritz… sa bene dove sparare. Mi colpì di striscio e mi lesionò un tendine della spalla. La pistola ovviamente era della Germania Ovest, e venne data la colpa ad un rapinatore. Così dopo l’operazione e la riabilitazione, i medici presero atto che non sarei mai più potuta tornare ai massimi livelli: mi allontanarono dal centro federale, e dato che formalmente noi eravamo dilettanti, tornai al mio lavoro, anzi a dir la verità iniziai il mio lavoro perché in quell’ufficio non ci avevo mai passato un giorno… impiegata alle Poste. Grazie ad Olena potei fare una cura ormonale, e se non altro peli e clitoride smisero di crescere…» sorride Ursula. «Ma purtroppo le ovaie erano andate, e anche la tiroide non era messa bene. Poi, dopo pochi mesi, cambiò tutto ed il nostro mondo crollò…»

Ursula prende un attimo di pausa, e riprende:
«Le nostre fabbriche fallivano una dietro l’altra, ovunque licenziavano e privatizzavano. Ma finalmente eravamo uniti, ci dicevano. Ma uniti per far che? Per fare arricchire gli speculatori, per ridurci tutti a mentecatti consumisti! Era il mercato, ci dicevano, o che bello! Alla fine unificarono anche le poste, imposero tutti dirigenti dell’Ovest e “riorganizzarono”, ovvero licenziarono un terzo dei lavoratori. Quando il capo del personale mi chiamò per consegnarmi la lettera di licenziamento non riuscii nemmeno a parlare… avrei potuto sollevarlo con una mano sola e scaraventarlo fuori dalla finestra, e riuscivo solo a piangere. Ce ne ho messo per riprendermi… prima andai a Berlino, trovai posto come istruttrice in una palestra, sai quella dove vanno gli impiegati dopo il lavoro, o le mogli degli impiegati mentre i mariti sono al lavoro. E un giorno lo vidi arrivare…»
Fritz, ormai esausto, crolla a sedere e chiede, senza più forza:
«Chi, Ursula? Chi c’era in quella palestra?»
«Il dottor Hans Sparwasser, il capo dell’equipe medica del centro sportivo di Dresda… aveva una valigetta con dei campioncini, e parlava con la direttrice della palestra. Mi avvicinai, e vidi che aveva ancora quelle maledette pillole blu… gli presi la valigetta e gliela scaraventai per terra, poi presi lui per il collo gridando come una pazza, mi dovettero tenere in cinque e mi buttarono fuori dalla palestra… e venni licenziata, naturalmente» e dopo una breve sosta, riprende:
«E così sono finita a fare la cameriera a Monaco di Baviera… tutto chiaro, adesso, Fritz?»
chiede Ursula, tirando su col naso. Fritz, commosso, le porge un fazzoletto e le accarezza i capelli. Olena li guarda, poi vuota il bicchiere, lo poggia sul tavolo e si alza in piedi.

«Potete continuare con le coccole più tardi, prego? Adesso ci sarebbe da fare»
«Da fare?» chiede Ursula, ricomponendosi. «E cosa? Mi pare che ormai sia stato fatto tutto…»
«No, non tutto» precisa Olena. E scandisce:
«Sparwasser è tornato»

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Una birra per Olena (XVII)

Fritz Gunnerbaum grattandosi la testa guarda sbalordito la donna che occupa la sedia a dondolo del gatto Ringo e che sembra in confidenza sia con sua moglie Ursula che con il suo superiore, il commissario capo Horst Tupperware. Poggia infine sul tavolo il piattino di torta che Ursula gli ha messo in mano, e sbotta:
«Signorina, visto che nessuno si degna di informarmi, non sarebbe così gentile da dirmi chi accidenti è lei e che ci fa a casa mia?».
Olena sorride ad Ursula, e con un cenno del capo le lascia la parola:
«Accomodati Fritz, adesso ti racconto tutto…» poi, quando il marito finalmente si siede, comincia a raccontare:
«Ci siamo conosciute nel 1988, a Seoul…»
«A Seoul? Che ci facevi a Seoul?» interviene subito Fritz, sbigottito.
«Fritz, per piacere, non cominciare ad interrompere. Cosa dovevo fare a Seoul? Ero alle Olimpiadi, no? Con la squadra di atletica della DDR»
«Con la squadra di atletica…» ripete Fritz «Ma che c’entravi tu con la squadra di atletica,  non facevi mica  sollevamento pesi? Tra l’altro allora non c’era ancora il sollevamento pesi femminile alle Olimpiadi…»
Ursula continua a raccontare, senza nemmeno ascoltarlo, persa ormai nei ricordi:
«Avevamo una squadra fortissima in tutte le discipline… vi ricordate? Portammo a casa 102 medaglie, secondi solo all’Unione Sovietica che ne vinse 132… e davanti agli americani, che ne presero solo 94. Per noi non era solo una questione sportiva, si trattava di dimostrare la superiorità del socialismo nello sviluppo armonico della persona rispetto al capitalismo»
Olena conferma, annuendo.
«Stronzate» interloquisce Fritz, zittito da un’occhiataccia della moglie.
«Fin da giovanissimi eravamo sottoposti a ritmi di allenamento massacranti… specialmente con noi donne erano molto severi, noi dovevamo essere i simboli dell’emancipazione femminile, con risultati che si avvicinavano sempre di più  a quelli maschili»
«Donne toste…» commenta Olena.
«Si, toste, ma a che prezzo… hai ragione Fritz, io non avrei dovuto partecipare a quelle Olimpiadi. Ma una mia compagna, Heidi Schmidt, una lanciatrice di peso, si infortunò. O così ci dissero…»
«Che vuoi dire, non era vero che si infortunò? E che le capitò allora?» chiede Fritz.
«Nei campionati mondiali precedenti aveva conosciuto un saltatore canadese… aveva deciso di scappare e chiedere asilo politico approfittando delle Olimpiadi, ma fu scoperta. Tutto questo lo venimmo a sapere molto dopo, naturalmente… allora ci dissero che aveva avuto un attacco di appendicite acuta, avevano dovuto operarla d’urgenza e c’erano state complicazioni. Io ero la prima riserva e presi il suo posto, e feci anche la mia bella figura…»
«Sei modesta, Ursula, una medaglia d’argento non è solo una bella figura…» dice Olena, con sincera ammirazione «tu eri una campionessa!»
«Una campionessa…» ripete con amarezza Ursula. «Lo pensi davvero, Olena? Tu sai bene come stavano le cose»
Ma prima che Olena possa rispondere, Fritz interviene:
«Olimpiadi, medaglia d’argento? Ursula, ma che storia è questa? Quando ci siamo conosciuti facevi la cameriera in una birreria e mi hai detto che avevi praticato un po’ di sport… e questo lo chiami un po’ di sport? E lei?» chiede Fritz a Olena «Anche lei ha praticato “un po’ ” di sport? E dove è stata tutto questo tempo, Ursula non mi ha mai parlato di lei!»
Ursula interviene:
«Fritz, lascia stare, queste sono cose che è meglio non…»
«No, Ursula, tuo marito ha ragione, ha diritto ad una spiegazione» la ferma Olena, alzandosi in piedi con sollievo del gatto Ringo.
«Mi chiamo Olena Iosifovna Smirnova, all’epoca avevo diciannove anni e facevo parte dei servizi di sicurezza sovietici»
«Servizi di sicu… che mi venga un colpo, il KGB?» chiede Fritz, ormai totalmente stordito.
«Esatto, per la precisione ero sottotenente ed avevo l’incarico di agente provocatore. Dovevo fingermi interessata alla fuga in occidente, scoprire la rete che gestiva le diserzioni e neutralizzarla»
Fritz trasecola:
«Neutralizzarla? Ma in che senso, scusi, doveva denunciarli?»
«Eliminazione fisica, preferibilmente» continua Olena senza cambiare tono.
«Ufficialmente facevo parte della squadra di biathlon, come riserva. Potevo girare per il villaggio olimpico e fu così che conobbi Ursula…»

«Tu lo sapevi?» chiede esterrefatto Fritz.
«Ma certo che no, sciocco! Mica andava in giro a dire “ciao, sono un agente segreto!”. Ci siamo incontrate in palestra, Olena non passava inosservata, era sempre attorniata da maschietti diciamo, ehm, interessati»
«Faceva parte del mio compito quello di mettermi in mostra»
«E ci riuscivi parecchio bene…» ridacchia Ursula, e continua «Così bene che qualcuno pensò che se ne potesse approfittare. Una sera la squadra di pallanuoto turca la aspettò nel sottopassaggio che portava dalla palestra al villaggio. L’avevano studiata bene, avevano messo persino dei complici agli ingressi del sottopassaggio, per avvisare in caso di “disturbi”. Quella sera, uscendo dalla palestra, le cadde dal borsone la giacca della tuta… pensai che avrebbe dovuto rimborsarla, e così le corsi dietro per riportargliela» poi, notando l’occhiata di Fritz, puntualizza: «Pesavo ottantadue chili allora, ero un concentrato di muscoli, non come… adesso» constata Ursula con amarezza, indicando il suo corpo eccessivo. «Insomma, immagina ottantadue chili lanciati in velocità ed un cretino che ti indica di fermarti, e per di più brutto. E’ volato come uno straccetto senza nemmeno il tempo di dire “ahi” e sono piombata come un missile nel sottopassaggio e lì mi sono trovata davanti a quella scena…»

Olena a questo punto le si avvicina e le cinge le spalle con un braccio.
«La stavano spogliando… lei era incosciente, dalla testa le colava un filo di sangue, l’avevano colpita a tradimento quei maiali»
Fritz, a bocca aperta, non riesce a staccare gli occhi da sua moglie, cercando di trovare nella casalinga che ha davanti le tracce della sconosciuta che gli si sta rivelando.
«Indossavo ancora la cintura addominale, sai, quel cinturone che si usa nel sollevamento pesi, allora li avevamo in cuoio pesante con due grandi fibbie di ottone… quelli avevano già i pantaloni abbassati, cominciai ad urlare e a picchiare come una pazza, cercavano di scappare e cadevano, ed io picchiavo, e picchiavo, e picchiavo, per Olena, per la rabbia, per i miei allenamenti di merda, per il corpaccione goffo che mi ritrovavo, per Heidi…»
Ursula si interrompe, con le lacrime che le scorrono lungo il viso. Olena la abbraccia e le accarezza i capelli, sussurrandole all’orecchio:
«Basta, Schutzi, è tutto passato, è finito…»
Ursula alza il mento, tira su col naso, e sciogliendosi dall’abbraccio seguita:
«Per fortuna Olena si riprese e me li tolse dalle mani, sennò li avrei ammazzati tutti… Il giorno dopo furono rimpatriati, i loro dirigenti dissero che avevano avuto un incidente stradale…»
«Già, avevano avuto un frontale con il TIR Schutzentagger…» ride Olena.
«Incredibile… ma perché non me ne hai mai parlato, Ursula?» chiede Fritz, commosso, colto poi da un pensiero improvviso:
«La squadra di pallanuoto… non era una squadra turca quella che cadde con l’aereo, l’anno dopo? Erano partiti da noi, da Dresda, giusto? Che strana coincidenza…» dice Fritz, fissando intenzionalmente Olena.
Olena sostiene il suo sguardo, e arricciando le labbra in un sorriso beffardo, risponde:

«Il mondo è pieno di coincidenze, Herr Gunnerbaum»

Berlin, Junioren-Sportfest, Katrin Krabbe

Dammi una lametta che mi taglio le vene

Così cantava Donatella Rettore nel 1982, l’anno in cui la nazionale di calcio di Bearzot vinse il Campionato del Mondo e in cui la mafia uccise Carlo Alberto dalla Chiesa, l’anno della guerra delle Falkland (o Malvinas) tra Argentina e Gran Bretagna e di film come Rambo, E.T. e Blade Runner; la Olivetti presentava il Personal Computer M20, nato per far concorrenza al neonato PC IBM, a cui seguì l’anno dopo l’M24; in America il presidente era l’ex-attore Ronald Reagan, mentre in Unione Sovietica finiva l’era Breznev ma la perestrojka era ancora ben lontana (per fortuna); in Italia c’era un governo pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) guidato da Giovanni Spadolini, il primo governo repubblicano guidato da un non democristiano (a dicembre però il governo cambiò ed i DC si ripresero la guida, con Fanfani). Nella pressochè totale indifferenza un certo Umberto Bossi, un perito elettronico con diploma preso per corrispondenza, fondava la Lega Autonomista Lombarda che alle successive elezioni politiche del 1983 nella circoscrizione Varese-Como-Sondrio raccoglierà ben 157 voti.
L’Istat aveva appena certificato che, su tutto il territorio nazionale, erano presenti ben 321.000 stranieri, per cui si provvide a stabilire delle norme per regolarizzare quelli che non erano in possesso dei documenti.

Avevo allora 23 anni, e in ottobre mi trasferii a Parma per lavorare come programmatore in una giovanissima azienda informatica. Parma è una bellissima città dove la prima cosa che imparai fu che il salame di Felino non era fatto col gatto (quello lo fanno a Vicenza, mi canzonavano gli amici) e la seconda è che tutti vanno in bicicletta non importa che tempo faccia. Prendevo 800.000 lire lorde al mese, che facendo un po’ di conti, tenendo conto dell’inflazione, corrispondono a più di 1.400 euro attuali: non male anche se, dovendo mantenermi, ci stavo dentro a malapena ed a dicembre chiesi un aumento, che mi accordarono (ero bravo, modestamente): un milione.
Scoprivo, con meraviglia, di aver letto molti più libri della gran parte delle persone con cui lavoravo tra cui i miei capi, e di conoscere anche la situazione politica molto meglio di loro: meraviglia, dico, perché venendo da un paesino soffrivo un po’ di complessi di inferiorità e pensavo che la gente di città fosse più “avanti”, ma in fondo Parma era più un paesone che una città…

Ripensando a quei tempi non riesco a capacitarmi di come di quel mondo l’unica cosa che si è salvata sia la Lega e mi prende una botta di tristezza, una sensazione strana come di essere punito ingiustamente per qualcosa che altri hanno commesso: ma forse, come diceva l’altro Umberto, quello colto, il Tozzi, gli altri siamo noi e allora è giusto così, piglia su e porta a casa.
Rettore, ce l’hai ancora quella lametta?

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Vieni tu o vengo io?

L’ultima che ci siamo visti, con il mio amico Vincenzo e sua moglie, è stato una decina di anni fa. Mio figlio partecipava ad una manifestazione di rievocazione medievale a Quattro Castella, non distante da Parma, e così ne abbiamo approfittato anche noi per una rimpatriata. Ci siamo sempre tenuti in contatto, ogni tanto ci sentivamo per telefono, ed ogni volta ci promettevamo: “dai, a primavera vengo su” oppure “dopo Pasqua veniamo a fare un giro”…
Il tempo è passato, amico mio, e tutte quelle discussioni sull’Inter, sulla politica (sui 5S ci avevi visto meglio di me, ma tu avevi avuto l’esperienza di Pizzarotti…), del lavoro che non era più quello che avevamo vissuto noi, non le faremo più; a forza di “vieni tu o vengo io” non ci siamo più incontrati: pensavamo di avere tutto il tempo del mondo e invece no, Big Ben ha detto stop, fine delle trasmissioni.

Quando sabato la moglie Rosanna mi ha chiamato non volevo crederci: ma che si fa così, all’improvviso, con questo male che ti tenevi dentro senza saperlo o senza volerlo sapere, senza lasciare il tempo di promettersi di vedersi ancora, da me o da te? E sono rimasto così, stupido, pensando a che diavolo avevamo di più importante o urgente da fare che non venir giù io e berci insieme una bella bottiglia di malvasia o venir su tu a farci una bella pizzoccherata…

Però ci siamo divertiti, eh, Vince? Chissà se dove sei andato ci sono tavoli da ping pong…

Sassofono e ping pong

 

Добрый день!¹

Sto imparando il russo. Da autodidatta potrei anche riuscirci nei prossimi dieci, venti anni; considerando però che in trenta e passa anni non ho ancora imparato a pronunciare correttamente le parole in milanese non ne sono molto sicuro.

I miei studi sono appena all’inizio, e sto affrontando la comprensione dell’alfabeto cirillico; questo spero mi permetterà di leggere correttamente le targhe delle vie e delle piazze e delle fermate della metropolitana se e quando riuscirò a fare quel viaggetto a Mosca e San Pietroburgo che mi attira da tempo; inoltre in questo modo le varie Olena non dovranno prendersi la briga di usare scadenti traduttori automatici (a proposito: ultimamente ne arrivano di genere incerto, non scherziamo care amiche va bene la teoria gender ma sono un po’ all’antica, a noi mettevano il fiocco blu sul grembiulino nero per capirci).

Nel 1983, avevo appena iniziato a lavorare a Parma, mi feci infinocchiare convincere da una graziosa venditrice ad acquistare un corso di lingue di inglese. Veramente mi sembrava di ricordare di aver firmato solo per un volume di prova che avrei potuto restituire; e forse era così ma con la clausola che avrei dovuto restituirlo entro sette giorni dalla ricezione. Firmai a maggio e quando mi inviarono i volumi? In agosto, mentre ero in ferie. Al ritorno trovai solo una lettera che mi ingiungeva il pagamento, con un supplemento per la mora; mi misi in contatto per chiedere che, pagare per pagare, mi mandassero almeno il corso di russo al posto di quello di inglese, che quello bene o male un po’ lo masticavo. Niente, furono irremovibili, pretesero i soldi ed in più non mi rimandarono neanche il corso d’inglese. Nemmeno la venditrice, dalla quale avrei potuto cercare di avere un piccolo risarcimento in natura, rividi più, cosa che mi dispiacque forse più del russo stesso.

L’altra sera ho visto la prima parte del film-intervista a Putin di Oliver Stone. E’ stato girato prima delle ultime elezioni americane, ed è imbarazzante confrontare il presidente russo con quello che è poi risultato il  vincitore di quelle elezioni. Purtroppo attualmente manca sulla scena politica mondiale uno come il nostro saggio ex-premier che possa farli sedere allo stesso tavolo e discutere serenamente, o magari in qualche dacia con grandi lettoni (lettóni ho detto, non lèttoni, ma anche lèttoni su lettóni andrebbero bene).

Fa un po’ impressione pensare al 1983… guadagnavo 800.000 lire, e dovevo pagarmi la stanza, il mangiare ed ovviamente i viaggi quando volevo tornare a casa. Non c’era troppa trippa per gatti… Dovetti chiedere subito un aumento chiarendo che altrimenti me ne sarei dovuto tornare al paesello e con mia sorpresa mi venne accordato: un milione! Da autonomo però, e dovevo mettermi da parte la quota per Inps, Irpef, camera del Commercio, Associazione di categoria… insomma il netto rimaneva di 700.000 scarse.
Proprio la scorsa settimana parlavo con una ragazzina del gruppo di teatro che lavora ormai da più di un anno come estetista in un centro, e mi diceva che guadagna 350 euro al mese. Non c’è che dire, abbiamo proprio fatto dei passi in avanti.

Ho già avuto comunque il primo successo come traduttore: grazie a degli amici ci siamo iscritti ad una associazione (in pratica arruolato ad honorem nella terza età!) che organizza tra altre cose movimentate come gare di burraco e balli di gruppo attività più riflessive come serate a teatro, e con loro siamo andati al Piccolo Teatro Paolo Grassi ad assistere a “Le serve” di Jean Genet, tutt’altro che allegro. Non incolpo le brave attrici se la palpebra mi è calata dopo un’oretta, la resistenza ad oltranza non è il mio forte. E pensare che ero anche digiuno!
Ma, a parte questo, nell’atrio ho fatto la mia bella figura traducendo il titolone di una locandina, Арлекін: Arlecchino! Non era difficile per la verità anche perché tutta la parete era tappezzata da manifesti di Arlecchino in tutte le lingue. Tradurre servitore di due padroni era più difficile, sarà per la prossima volta.

Essendo una persona metodica, mi sono imposto di studiare tutti i giorni un’oretta, sfruttando il tempo del viaggio di ritorno in treno. Sfortunatamente l’altro giorno stavo appena tirando fuori dalla borsa il mio bel manualetto quando due signore si siedono vicino, ed iniziano a parlare russo. Cercando di non essere scoperto ho riposto il libretto e mi sono disposto all’ascolto della pronuncia, dato che il mio contributo alla conversazione non avrebbe potuto essere per il momento di grande interesse, a meno di ripetere Arlecchin, o anche Ananas o Banan.

Come dicevo, difficilmente la decina di anni che mi mancano alla pensione basteranno.
до Свидания!²

(165 – continua)

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¹ Buon giorno!
² Arrivederci!

E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’

Nell’estate del 1980, quando Gianni Togni spopolava con la canzone “Luna”, io stavo felicemente servendo la patria cercando di essere il più possibile credibile, per non farmi sopraffare da militari coetanei e spesso più vecchi per niente disposti a farsi comandare da uno come me, e soprattutto a cercare di non fare troppo la figura del fesso con i marescialli del reparto, i veri dominatori della caserma.

Per sembrare più autorevole mi ero fatto crescere una bella barbetta, che mi donava qualche annetto in più e secondo me non stava male, correggendo anche una piccola sfuggevolezza del mento.¹
Dopo i sei mesi di addestramento a Sabaudia, ero stato mandato in servizio, che durava nove mesi, in una sede alquanto disagiata: Rimini.
Credo immaginiate tutti come le estati a Rimini possano essere un inferno; specialmente poi se alle 17, se non si era in servizio, si poteva andare in spiaggia; ed ancora di più la sera, fino al contrappello di mezzanotte, che per chi non è pratico è la conta dei presenti. Chi non si presentava in tempo veniva messo in punizione, che consisteva di solito  nella consegna ovvero  nell’obbligo di non uscire dalla caserma, o nei casi più gravi dalla camerata.²
Come ufficiali, dirlo adesso mi fa un po’ ridere, rispetto alla truppa eravamo privilegiati; innanzitutto il nostro stipendio non era di quelle striminzite 1000 lire al giorno che spettavano ai soldati di leva, ma era decente tanto che mi permise di mettere da parte qualche soldino (che poi spesi tutto nei primi mesi di lavoro a Parma per pagarmi vitto e alloggio) e godevamo di altri privilegi, come il circolo e la mensa Ufficiali; quest’ultima era situata nella caserma dell’Aeronautica, che era abbastanza lontana dalla nostra; gli aviatori ci squadravano un po’ con la puzza al naso, specialmente quelli di complemento come me che erano solo di passaggio, ed eravamo considerati un po’ dei parvenu.
Nella mensa ufficiali imparai a sbucciare la frutta con il coltello senza prenderla in mano; abilità utilissima in società ma che, non praticando da decenni, ho perso. Adesso se devo sbucciare un’ arancia prima la mordo e poi la sbuccio con le mani, tipo Manfredi in Pane e Cioccolata.

Tanti amici mi hanno chiesto nel tempo perché avessi fatto domanda per fare l’ufficiale. Non ero di certo un militarista, e anzi non avevo nemmeno grandi attitudini militari, in realtà credo di essere risultato agli ultimi posti del mio corso. Non lo sapevo nemmeno io: per la paga, senz’altro; ma soprattutto perché ingenuamente pensavo che se proprio dovessi essere comandato da un coglione, tanto valeva che quel coglione fossi io; non avevo considerato che nella catena di comando di coglioni se ne possono trovare ad ogni gradino ed a iosa; questo vale ovviamente anche nella vita civile, ma se capita da militare non c’è sindacato a cui appellarsi.³

Il 2 agosto 1980 era una giornata normale, una domenica. Il nostro unico pensiero era quello di arrivare a sera, toglierci la divisa ed andare in spiaggia, quando arrivò la notizia: alla stazione di Bologna era scoppiata una bomba.

Ricordo il senso di sbigottimento, lo sbalordimento davanti alla barbarie che era stata commessa, le notizie arrivavano a sprazzi ed i morti e feriti aumentavano sempre più: colpiti ragazzi, famiglie, turisti, gente normale che andava in vacanza o tornava a casa; ricordo la preoccupazione per i commilitoni, che non ne fosse stato colpito qualcuno che andava in licenza; l’angoscia delle persone care, ricordo che mi chiamarono da casa per sapere se stessi bene, io che non avevo nessuna ragione di trovarmi là, figurarsi la trepidazione di qualcuno che aveva una persona cara in viaggio.
Avevo appena vent’anni, come i miei compagni di Bologna che furono chiamati a prestare i soccorsi, soldatini di leva sbalzati in mezzo all’orrore ed alla distruzione; si rimboccarono le maniche piangendo, fecero quello che c’era da fare, avremmo potuto essere tutti lì ed avremmo fatto tutti le stesse cose. Li ringrazio e li abbraccio, dopo tanti anni.

Non mi addentro nella storia, che come tutte le stragi di quella troppo lunga stagione italiana è costellata di depistaggi, connivenze, omertà; di pezzi dello stato che operavano contro lo stato; a distanza di quasi trent’anni si è riusciti ad avere una sentenza giudiziaria definitiva per gli esecutori, ma è notizia di pochi giorni fa che la procura inquirente ha deciso di archiviare l’indagine sui mandanti.

Io non lo trovo giusto. In questi casi non si può ballare tarantelle di “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. Uno Stato degno di questo nome deve avere la forza di andare fino in fondo e scovare le verità “vere”, non quelle di comodo per chiudere la vicenda purchessia.
Lo deve in primo luogo alle vittime ed alle loro famiglie, a tutti quelli che ne furono colpiti direttamente e indirettamente, a tutti quelli che si prodigarono negli aiuti e si videro cambiare la vita, a quelli che si trovarono a scavare tra le macerie sentendo che solo per caso non era toccato a loro. Lo si deve a tutti quelli che hanno servito questo paese, anche se per un brevissimo tempo, e vogliono continuare ad essere orgogliosi di essere Italiani.

(154 – continua)

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Note.
¹ Purtoppo alla mia consorte non piace altrimenti me la farei ricrescere.
² O almeno credo che fossero quelli gli orari, ma la parte di neuroni relativa a quel periodo si è cancellata come una scheda SD difettosa.
³ A mio avviso qualcuno di noi avrebbe potuto essere utilizzato nell’amministrazione dello Stato, non necessariamente militare, anche alla fine del servizio. Tipo una scuola per funzionari statali, tipo quella francese. Mi sembra uno spreco non sfruttare le risorse quando ci sono.
³ La foto allegata potrebbe essere del mio collega Riccardo Malagigi. Lui c’era, e non credo che lo dimenticherà più.

Ave Maria

Tra i tanti trofei di cui posso fregiarmi, senza vantarmene troppo, c’è quello di aver suonato l’Ave Maria di Schubert con la chitarra elettrica. Capitò infatti verso l’inizio degli anni 80 che un compaesano restauratore di mobili, anticonformista ma non abbastanza da non sposarsi in chiesa, chiese ai comuni amici Diego e Antonina, duo tastiera e voce esperti di servizi matrimoniali, di completare l’ensemble liturgico con un chitarrista perché lui in chiesa si sposava si, ma l’Ave Maria la voleva elettrica. Come ricorderete io la chitarra la suonavo, anche se l’orchestrina R7 in cui militavamo tutti e tre mi vedeva competente bassista; e visto che l’ingaggio sarebbe stato di gran lunga superiore a quello che avrei guadagnato in una intera stagione, accettai di buon grado l’invito a partecipare all’evento.

Cercai di prepararmi come meglio potei, trovando un arrangiamento non troppo astruso: ovviamente non potevo limitarmi all’Ave Maria ma dovevo suonare l’intera messa compresa la Marcia Nuziale di Wagner; quello che temevo non erano tanto le difficoltà tecniche, quanto il fatto che sul più bello l’emozione mi giocasse qualche scherzo, anche perché il genere era abbastanza lontano da quello a cui eravamo adusi, che erano il liscio, lo swing e i sudamericani anni 50.

Non ho niente contro l’architettura moderna. Diciamo che non apprezzo certe esagerazioni; ad esempio nel paese dove ho vissuto un annetto in attesa di convolare a nozze, nel mentre sistemavamo il bilocalino acquistato dando fondo a tutti i risparmi e previa sottoscrizione di mutuo decennale, c’è una chiesa a forma di pandoro realizzata in cemento armato. A proposito di bilocalino dirò che tra i momenti più belli della mia esistenza annovero quelli in cui, da manovale del valente muratore Angelo, zio acquisito di mia moglie, dopo aver scarrucolato fino al terzo piano secchi di malta impastati con maestria ci fermavamo per la merenda mattutina a base di panini freschi e bologna (mortadella per i diversamente nordici), accompagnati da uno ma anche perché no due bicchieri di vino bianco fresco; dopodiché lo zio si faceva un caffè doppio ed un fiato di grappa Nardini che gli faceva scendere lacrimoni di commozione. Io mi fermavo al caffè.

Non sono un ingegnere edile e come detto nemmeno un muratore, ma non credo che il calcestruzzo possa durare dei secoli come le cattedrali o anche le chiesette di una volta; nel caso del pandoro auspico che il deterioramento sia accelerato e il luogo di culto possa riacquistare al più presto una forma dignitosa.

Invece la chiesa dove mi ritrovai a strapazzare Schubert devo ammettere che si adattasse bene ad una interpretazione moderna: si trovava in una frazione di nuovi insediamenti ed era una di quelle post-conciliari, con l’altare al centro di un’assemblea circolare sopraelevata, grandi vetrate variopinte e crocifisso stilizzato, quasi una pagoda.

Ci posizionammo in posizione sopraelevata rispetto al resto dell’assemblea, e potemmo registrare i sorrisetti di stupore quando, all’entrata della sposa, le note di accoglienza non furono quelle attese del grande organo; feci del mio meglio per non far rivoltare nella tomba il maestro tedesco, ma solo una riesumazione potrebbe dire se ci riuscii. Non so se la sposa fosse al corrente dell’iniziativa ma mi sembra che lo sguardo che lanciò al quasi marito non fu dei più promettenti, anche considerando l’imminente prima notte.

Finalmente arrivammo all’Ave Maria, che affrontai con partecipazione e persino commozione; ancora oggi penso che se anche non avessi suonato sarebbe stato lo stesso perché la voce di Antonina bastava da sola a riempire la chiesa; ciononostante feci del mio meglio, ed alla fine ricevetti anche i complimenti dalla carissima Adua, insegnante di musica, che ammirò soprattutto lo stile con cui riuscii a glissare il finale, visto che la comunione era finita da un pezzo.

(88. continua)

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