Casatschok

La mattina del primo maggio il paese veniva svegliato dalle note della banda che eseguiva ad libitum  l’Inno dei Lavoratori. Con gioia birichina andavamo a svegliare proprio quei lavoratori che più di altri avrebbero avuto il diritto di riposarsi, almeno nel giorno della loro festa, ma c’è da dire che allora la gente non era solita crogiolarsi sotto le lenzuola.

Non tutti sapranno che le parole di quest’inno sono state scritte nell’ottocento nientemeno che da Filippo Turati; della qual cosa pochi anche allora erano al corrente ma non il nostro maestro, vecchio socialista, che ce lo proponeva con particolare piacere. Gli strumentisti più conservatori a volte opponevano qualche resistenza; per convincerli a suonare Fischia il vento, celebre inno partigiano, bisognava illuderli che si trattasse di Casatschok di Dori Ghezzi.

Pensare di trovare un negozio aperto il primo maggio sarebbe stata (e dovrebbe esserlo ancora, a mio parere) un’eresia. Ci sono 364 (+1 per i bisestili) giorni l’anno per fare spese: non c’è motivo di intestardirsi nel voler comprare, che so, un paio di scarpe o un maglione proprio quel giorno.

Il culmine della giornata era costituito dalla scampagnata. Ci si trovava, con tutti i membri della Società Operaia, in un prato nella frazione di Cantagallo; questa collina, lo dico per i curiosi, era stata teatro di una battaglia, nel 1815, tra Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e Re di Napoli, e gli austriaci: Murat fu sconfitto, cosa di cui mi sono sempre dispiaciuto, e oltretutto gli aborriti vicini tolentinati hanno sempre cercato di accreditare l’avvenimento come “Battaglia di Tolentino”. Invidiosi.

Oggi scampagnata è un termine desueto, si dice picnic. Non so voi ma a me, quando si parla di picnic, salgono alla mente immagini bucoliche, perlopiù di ambientazione inglese, dove famigliole vestite di tutto punto estraggono da graziosi panieri di vimini  sandwich al formaggio e cetriolo, con contorno di bambini che giocano alla corda o al volano.

Niente di tutto ciò.

La scampagnata del primo maggio era semplicemente la cucina di casa traslata su un prato. Ed ecco quindi uscire dal portabagagli della 124 familiare: teglie di vincisgrassi; arrosto misto a cui magari si accostava una fritturetta di olive ascolane; un po’ di insalata per pulirsi la bocca; un ciambellone o una pizza battuta, magari farcita di crema. Vino, parecchio. La visione salutista odierna prescrive di non somministrare questo alimento a bambini e ragazzi sotto una certa età. Il fegato non metabolizza, dicono. Boh, a noi un goccetto l’hanno sempre dato, magari annacquato; non so se metabolizzasse, ma male non ne ha fatto.
Per merenda, fave e pecorino, ciauscolo e vino cotto.

Non essendo il volano nelle nostre corde,  il prato diventava un immenso campo di calcio; vidi una cosa simile un primo maggio di qualche anno fa, nel Parco della Reggia di Capodimonte a Napoli: però con meno sobrietà.

Dopo qualche anno la consuetudine si interruppe; riprese poi ma in un’altra frazione, il Trebbio, dove fummo chiamati ad allietare il pomeriggio con la nostra orchestrina. Ci venne chiesto di suonare Bandiera Rossa; io non avevo niente in contrario, lungi ancora da me il considerare un ossimoro l’ultima parte del ritornello (“evviva il comunismo e la libertà”) ma il nostro trombettista Diego, maestro del coro parrocchiale,  si faceva qualche scrupolo. Fu una versione discutibile: il popolo sarebbe dovuto andare avanti alla riscossa, ma a passo di marcetta molto spedita.

Quest’anno il primo maggio sarà ricordato per l’apertura dell’Expo di Milano. Nutrire il pianeta, è il tema, o meglio i sette miliardi di persone che lo popolano. Finché un pugno di privilegiati continueranno a mangiare come metà del pianeta credo che l’obiettivo sarà difficilmente raggiungibile: spero di sbagliarmi, ma non mi sembra che tanti siano disposti a intonare Fischia il vento, la maggior parte balla il Casatschok.

(35. continua)

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Poropom, poropom, poropompompompompom!

Senza voler generalizzare, ma pochi inni nazionali rendono l’idea di un popolo come quello italiano. Pensate all’inno tedesco, Deutschland Deutschland uber alles: in sottofondo c’è un inquietante rumore di stivali e fucili. O la Marsigliese: ed ecco Marianna che sfida le baionette con la baguette sottobraccio.

L’inno italiano, che qualcuno derubrica a marcetta, inizia con “fratelli d’Italia”, scippato tra l’altro da un minuscolo partito politico di nostalgici senza nemmeno pagare copyright, ma raggiunge il suo culmine nelle geniali due battute di passaggio tra l’allegro marziale della strofa iniziale e l’allegro mosso delle strofe successive: poropom, poropom, poropompompompompom.

Lì risiede, piuttosto che nelle strofe risorgimentali, l’essenza italiana. Nel mutamento dal marziale in ballabile; dalla tragedia alla farsa. C’è la crisi? Poropom. Disoccupazione: poropom. Razzia della cosa pubblica: poropompompompompom!
Una collettiva alzata di spalle; un gigantesco “va bè, pensa alla salute”. Scurdammoce ‘o passato simm’é Napule (o di Como, o Roma, o Pollenza) paisà.

Del resto, appena fatta l’Italia Garibaldi si prese un bel calcio nel sedere: il buongiorno si vedeva dal mattino.

La banda musicale era finanziata in parte dal Comune. In cambio di una sede e qualche soldino si veniva impiegati in una serie di servizi, sia civili che religiosi: il 25 aprile, il primo maggio, il quattro novembre, il Venerdì Santo, il Corpus Domini… una fetta di incassi era data dai funerali ai quali qualche appassionato chiedeva la partecipazione.
Il quattro novembre (anniversario della Vittoria della Prima Guerra Mondiale, fino a quando per non mettere in imbarazzo i tedeschi si decise di eliminarla) sfilavamo per le vie del paese, con gonfalone del comune in testa e associazioni di combattenti, e veniva deposta una corona ai caduti; qualche reduce leggeva qualche parola di ricordo da fogli tenuti con mano tremante. Devo dire che, avendo la maggior parte degli adulti vissuto la Seconda, di guerra mondiale, non c’era tantissima voglia di ricordare la Prima, e il tutto sapeva un po’ di retorica; solo più tardi, in visita al Sacrario di Redipuglia, capii cosa potessero provare quei vecchietti. Cercai se ci fosse un Magrini. Presente.

Negli anni sessanta come noto ci fu il doppio boom: economico e di nascite. C’era fiducia nel futuro, ma una fiducia operosa: ci si dava da fare perché il futuro fosse migliore.

Mio padre andava, una volta la settimana, alle riunioni nella sezione del partito socialista. Mica in tuta da lavoro: si lavava, si metteva la camicia bianca che mia madre gli faceva trovare stirata, ed usciva; a discutere con i compagni, ad ascoltare magari qualche funzionario che veniva da fuori. E a prendersi solenni arrabbiature, anche perché nel mio paese le elezioni le hanno sempre vinte i democristiani che al massimo si facevano le scarpe tra loro. Sono orgoglioso e grato ai miei per avermi donato questa visione della politica. Ci si mette il vestito buono e, insieme agli altri, si cerca il progresso non per pochi ma per tutti: Avanti! , verso il sol dell’avvenir.
C’è da dire che babbo era minoranza della minoranza, essendo di una corrente (i Lombardiani) illuminata ma con poco peso specifico; la sua spinta ideale fu intaccata quando il partito si unificò, pur se per breve tempo, con i socialdemocratici di Saragat dediti per lo più a far entrare gente alle Poste dietro promessa di voto. Lasciò, con quella gente aveva poco da spartire.

I miei, come ho già detto, discutevano di tutto quello che succedeva nel paese e nel mondo; quando arrivai ad averne la capacità, dicevo anch’io la mia, spesso a torto. Le grandi conquiste civili, le stragi fasciste, gli scandali del potere, il terrorismo, Berlinguer e la questione morale… non so se è una mia impressione, ma il livello mi sembra sceso di molto.

Troika, bunga bunga, tombini di ghisa… Poropom, poropom, poropompompompompom.

(21. continua)

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