Olena regina d’Abissinia – 11

«Amici, salutiamo calorosamente la delegazione di lavoratori italiani che ci onoriamo di ospitare; riconosciamo l’importanza di questi scambi culturali, la reciproca conoscenza non può che portare a tessere rapporti sempre più proficui e a stimolare e incrementare la collaborazione tra i nostri grandi paesi!»
Okiki Tesfaye, presidente della associazione di amicizia Etiopia-Italia, carica che detiene grazie ad amicizie influenti che gli garantiscono finanziamenti cospicui che gestisce da padre-padrone, saluta gli ospiti, accompagnati dal console italiano.
Alle spalle del podio dell’oratore, sul palco dove solitamente si esibiscono gruppi folcloristici locali, è posto un lungo tavolo dove sono schierati i consiglieri dell’associazione ed il gruppetto di nostra conoscenza. Il console, Marcantonio Poltronieri, fa un breve pistolotto sui legami fraterni, i punti di intesa, l’intreccio di culture, dopodiché lascia la parola al capodelegazione Attilio Trozzo. Il quale si alza lentamente, con in mano i fogli del discorso la cui quantità inquieta gli ascoltatori, attirati sì dall’opportunità di scambi economici e culturali ma soprattutto dal ricco buffet i cui piatti caldi rischiano di freddarsi. Sistemati i fogli sul leggio, Attilio sorride all’uditorio ed inizia il suo discorso, che una giovane traduttrice si incarica di convertire in tigrino.
«Compagni, permettetemi di chiamarvi così: compagni di cammino, di lavoro, compagni nelle fatiche di tutti i giorni… In questo mondo che sembra ogni giorno più piccolo, dove le sfide sono ormai globali, ed i problemi di uno sono i problemi di tutto, è sempre più importante unirsi, fare fronte, lottare contro le disuguaglianze e le ingiustizie!»
Tesfaye lancia uno sguardo interrogativo del tipo “ma chi mi hai portato?” al console, il quale si stringe leggermente nelle spalle, come a dire “e lo so, ma falli parlare, sono innocui”; mentre Luisito sussurra al vicino Memo:
«Il vecchio leone ruggisce ancora »
«Già. Peccato che da noi siano rimaste solo le pecore»

Attilio, sentendo crescere l’attenzione e l’interesse, continua infervorandosi sempre più:
«Sì, lottare! Lottare per i sacrosanti diritti di lavoratori, di cittadini, di uomini e donne! Italia ed Etiopia uniti nel riconoscere la necessità che le risorse e la ricchezza non siano appannaggio di pochi privilegiati, ma tornino al legittimo proprietario, il popolo!»
A questo punto anche i due vicini cominciano ad agitarsi.
«Non vorrei che si facesse prendere un po’ troppo la mano» dice Luisito, preoccupato.
«Devono essere state tutte quelle spezie che ci hanno propinato in questi giorni» ipotizza Memo.
«Il popolo, sì, il popolo» prosegue Attilio ormai in trance, buttati via i fogli preparati e parlando a braccio:
«Quel popolo che, come cantava un’altro grande popolo, quello cileno, “El pueblo unido jamas sera vencido!”»
I tigrini, che in quanto ad entusiasmo non sono secondi a nessuno, si levano in piedi ad applaudire, e qualcuno inizia già a puntare il dito contro Tesfaye, individuato come rappresentante della borghesia affamatrice, quando dal fondo della sala si ode la voce gracchiante di un grammofono.

Se vuoi venir con me a Macallè
qualcosa c’è da far anche per te;
c’è tanta ricca terra qui da coltivar
che pane in abbondanza a tutti potrà dar!
E quando cesseran le ostilità
la vanga questo suol redimerà,
una casetta in mezzo ai fiori
io ti farò col mio lavor
se vuoi venir con me a Macallè!¹

Un gruppo di ragazzotti, sotto al palco, ridacchia rumorosamente; Attilio si ferma, interdetto, cercando di individuare l’origine della musica; Tesfaye balza al microfono e urla paonazzo (per quanto possa esserlo un etiope):
«Buttate fuori quel provocatore!», mentre la canzone continua:

Ti scrivo qui da un piccolo fortino,
mentre lontano fugge l’abissino
doman riprenderemo l’avanzata
verso la mèta ognor desiderata,
ma tu non piangere mio piccolo tesor
non si può infrangere il nostro grande amor!

Tutti si voltano verso l’autore di quella che reputano una bravata, e con stupore invece di scoprire uno degli impuniti ragazzotti vedono un vecchio rugoso, con una uniforme da ascari², sventolante una bandierina del Regio Esercito. Prima che gli uomini della sicurezza lo raggiungano, l’uomo si alza in piedi e con voce stentorea, inimmaginabile in un uomo della sua età, grida:
«Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia! Viva il Duce!» mentre parte la seconda strofa:

Il suolo che l’Italia ha conquistato
in poco tempo è stato rinnovato,
all’ombra del superbo tricolore
più non ci son né oppressi né oppressore!
Le strade nascono con gran rapidità
e insieme marciano progresso e civiltà!

La platea ammutolisce; Attilio, smarrito, cerca di riportare la discussione su binari meno scivolosi:
«Compagni, l’Italia è una grande repubblica, così come l’Etiopia; repubblica non dimentichiamolo nata dalla resistenza al regime nazifascista, e condanniamo fermamente l’avventura coloniale e tutti i colonialismi»
Gli uomini della sicurezza lottano intanto per strappare di mano il grammofono al valoroso ascari, che lo difende fino al finale:

Prepara dunque i corredin
per quattro o cinque marmocchin,
per poi venir con me a Macallè!

E fanno piovere sul malcapitato una gragnuola di manganellate, finché Ambrogio Cantaluppi, rimasto fino ad allora in silenzio, si alza in piedi e tuona:
«Lasciate stare immediatamente quell’uomo!» e per dare maggior peso alle sue parole avanza nella sala e si frappone fra l’uomo che si rotola in terra dolorante e i manganellatori.
«Ma che sta facendo?» chiede Luisito al vicino.
«Non lo so, ma si mette male» profetizza Memo.
E infatti, mentre la sicurezza ragiona sul da farsi, dall’altro lato della sala si sente un distinto:
«Italiani tutti fascisti!»

Ambrogio impallidisce. Orfano di padre partigiano, entrato in fabbrica a quattordici anni, metalmeccanico per quarant’anni alla Breda di Sesto San Giovanni , sindacalista per una vita, tessera del glorioso partito comunista in tasca, raddrizza le grandi spalle e porta il suo metro e ottantacinque per centoventi chili di peso, mani grandi come pale, davanti all’incauto urlatore.
«Se te dì cus’è, negrèt? Ripetilo se hai coraggio»

Sarà stato l’accenno al coraggio, qualità di cui gli abissini non difettano a differenza della prudenza, o forse quel negrèt poco politicamente corretto, ma l’uomo persiste nelle sue accuse; ha appena il tempo di pronunciare “Italia…” che un manrovescio di Ambrogio, non per niente chiamato Katanga ai tempi in cui faceva parte del servizio d’ordine alle manifestazioni sindacali, lo giustizia sul posto. Da quel momento in poi è tutto un mulinare di cazzotti e sedie e persino le marmittone del buffet vengono usate come armi improprie e contundenti. Mentre il console si defila, Attilio, Luisito e Memo scendono a dar man forte all’amico; si difendono con valore ma alla fine, soverchiati dal nemico come le truppe del maggiore Pietro Toselli sull’Amba Alagi³, sono costretti a rinculare fino ai camerini sul retro, dove riescono a barricarsi.
«Alla faccia dell’amicizia» commenta Luisito, tamponandosi il naso con un fazzoletto. «E tutto per salvare questo matto» dice indicando il vecchio ascaro. «Ma si può sapere chi cavolo sei?»
«Viva il Duce!» proclama questi orgoglioso, continuando a sventolare la regia bandiera tricolore.

Vieni a Macallè – 1935

Note
¹ cfr. Vieni a Macallè, canzone coloniale, 1935 (testo Enrico Frati, musica Eros Sciorilli)
² L’àscari era un militare eritreo, a cui in seguito si aggiunsero quelli reclutati nelle altre colonie africane, che combattè a fianco delle truppe coloniali italiane, inquadrato nei Regi Corpi Truppe Coloniali.Organizzati in battaglioni indigeni, diedero grande prova di valore in tutte le battaglie in cui furono impiegati.
³ Sul monte Amba Alagi si combattè nel 1895 una battaglia dove il presidio italiano, composto da 2.300 persone tra nazionali e indigeni, venne assalito da 30.000 soldati del negus Menelik II e completamente annientato. L’episodio fu uno dei più cruenti della guerra d’Abissinia che vide la sconfitta italiana e ne fermò l’espansione coloniale per molti anni.

Cronachette dell’anno nuovo che assomiglia tanto al vecchio (7)

Amiche e amici,

qualche nota positiva nella settimana passata c’è: Sanremo è finito. Ha vinto Marco Mengoni, vittoria annunciata ma direi meritata. Come giudice però non sono molto attendibile: ho sentito solo la sua canzone, e per caso…

Per il resto stendiamo un velo pietoso: le elezioni regionali sono andate come previsto, con la vittoria della destra sia in Lazio che in Lombardia, e se nel primo caso potrei anche accettarlo come ricambio fisiologico, in Lombardia non mi do pace: che meriti riconoscono i lombardi a Fontana per rieleggerlo? La gestione della pandemia è stata penosa, e secondo alcuni criminale; la sanità pubblica è in declino pauroso, basta guardare le attese per ottenere un esame, o le file ai pronto soccorso, mancano i medici di base: davvero questa è l’eccellenza? E’ anche vero che a votare è andato solo il 40% degli aventi diritto, e questo dovrebbe farci ragionare sulla qualità della nostra democrazia e dei nostri rappresentanti. Ma del resto, perché meravigliarsi? Secondo i sondaggi il 70% degli italiani è contrario all’invio di nuove armi in Ucraina, ma il nostro governo ed il parlamento se ne fregano: questa è democrazia? L’unico rimasto con un po’ di sale in zucca sembra essere Berlusconi, che è tutto dire. Infatti i popolari europei vorrebbero buttarlo fuori (solo lui però, non il suo partito: non hanno ancora capito che il partito è suo?).  Ragioniamo seriamente: la nostra Costituzione vieta di risolvere le controversie internazionali con la guerra.  Ma noi continuiamo a mandare armi, dicendo che solo così si costringeranno i russi a negoziare. Ma i russi è da febbraio che erano disposti a negoziare! E’ chiaro che ora è sempre più difficile, ad ogni nuovo invio ed a ogni nuovo annuncio è sempre peggio. Macron ha detto ieri che la guerra sarà ancora lunga. Finora i dati più o meno ufficiali sono di 60.000 morti russi e 270.000 ucraini. Una generazione… quanti ancora ne servono?

Intanto il conto delle vittime del terremoto in Turchia e Siria aumenta di giorno in giorno: ormai i morti hanno superato i 40.000, e non è finita. E’ osceno, lo ripeto, il livello dell’informazione su questo dramma, relegato a quarta-quinta notizia del Tg, perennemente dopo le sparate di Zelenskji. La Russia ha mandato tonnellate di aiuti, Biden sta ancora a cincischiare se togliere o meno le sanzioni alla Siria. Noi abbiamo mandato la protezione civile, e ci affidiamo come al solito alla Caritas.

Sono un po’ depresso, lo ammetto, perché ieri sono andato ad un funerale, ed è già il quarto quest’anno; se si aggiunge anche la scomparsa di Guido Sperandio, un altro amico anche se virtuale (ma che vuol dire poi virtuale? Nei blog si è meno reali perché non ci si frequenta di persona? Nell’epoca del metaverso e dello smart working forse sono più reali questi rapporti di quelli “fisici”…), l’anno non promette bene.

Ma qualche notizia buona c’è: finalmente sul lago di Como si stanno collaudando le paratie! Ricorderete quell’opera che doveva essere faraonica, sul modello del Mose di Venezia, ridotta poi per colpa di un pensionato che stava pisciando il cane e si è accorto, sbirciando tra le staccionate che coprivano i lavori, che si stavano innalzando dei muri che avrebbero impedito di vedere il lago: caso nazionale, processi, lavori sospesi, corte dei conti… insomma dopo 15 anni (quindici!) sembra che, con un progetto molto ridotto e molti milioni buttati inutilmente, le paratie vedranno la luce. Peccato che ormai piove così poco che c’è il problema opposto, ovvero il problema non è la troppa acqua, ma la troppo poca … e il problema è generale, perlomeno al nord: laghi e fiumi sotto i livelli di guardia, montagne con neve scarsa che non garantiscono che a primavera ci sia un giusto approvvigionamento. Questi si gingillano con le armi, quando bisognerebbe pensare ai pozzi, agli invasi, alle dighe, a rifare le condutture che dagli acquedotti portano l’acqua in casa.

Infine il mio personale aggiornamento sull’inflazione: l’indice Sweppes è in aumento, essendo passato il prezzo a 2,59 rispetto all’originario 1,85: +40%! Per non parlare della bolletta del gas che è arrivata a mia suocera, per i mesi di dicembre e gennaio: 965 euro, in due anni si è triplicata. Tra poco qualcuno dovrà decidere tra lo scaldarsi e il mangiare. Ma Gentiloni ieri da Lilli Gruber diceva che grazie alle loro azioni il prezzo del gas è drasticamente diminuito: alla faccia! Si vede che le bollette lui non le paga…

Bene amiche e amici, perdonatemi se vi ho angustiato ma era per farvi sapere innanzitutto che sto bene, e in questo periodo frequento sporadicamente questo spazio a causa di problemi di lavoro e soprattutto di contratto che mi impegnano. Ma dovrebbe andare tutto a posto a breve… nel frattempo qualche puntatina di Olena è pronta (almeno nella mia testa), si tratta di buttarla giù.

A presto!

Olena regina d’Abissinia (10)

Macallè è la capitale della regione del Tigrè, nel nord dell’Etiopia, a 780 chilometri dalla capitale Addis Abeba; si trova ad oltre 2.200 metri sul livello del mare ed è sede, tra le altre cose, di un polo industriale tessile che lavora per marche di tutto il mondo. E’ stata la prima città etiope dove è stato vietato il fumo nei locali pubblici, divieto apprezzato dai quattro commensali che siedono ad un tavolo del ristorante dell’hotel Lalibela nel quale alloggiano, un due stelle che ha visto tempi migliori ed è stato posto più volte sotto sequestro dalla polizia buoncostume locale.

«Compagni, devo dirvelo. E’ da quando siamo arrivati che ce l’ho qui, in gola, ma sento che è arrivato il momento di esternarlo»
Luisito Lenìn prende un pezzo di injera e lo usa come posata per sollevare un pezzo di tsebhi di agnello e portarselo alla bocca. Lo guarda perplesso, e continua:
«Intendiamoci, è una sensazione del tutto personale, non vorrei che fosse interpretata come una critica alla dirigenza del partito che ci fatto l’onore di mandarci qua»
Ambrogio Cantaluppi, più portato all’azione che alla dialettica, seppur democratica, sbotta:
«Luisito, parla chiaro per la miseria. Finiscila con questi giri di parole, vuota il sacco!»
Lenìn, uomo dai lunghi preamboli, abitudine della quale la sua stessa consorte è infastidita in quanto raramente arrivano ad un dunque, poggia l’agnello, si alza in piedi e dichiara:
«E va bene, se volete che sia diretto lo sarò: mi sono rotto i coglioni! Da quando siamo arrivati non abbiamo fatto altro che zappare, piantare alberi, innaffiarli: se volevo fare il giardiniere restavo a casa, che mia moglie è da una vita che mi dice di tagliare la siepe! Mi si sono riempite le mani di vesciche! E poi, se vogliamo essere onesti, questi in cinquant’anni hanno rasato tutte le foreste, adesso hai voglia a piantare alberelli! »
«Fa’ e disfa’ è tutto un laurà» sentenzia Alcide Remigi, detto Memo.
«E va bene, ma non doveva essere un viaggio di istruzione? Qui pare che facciano apposta a tenerci lontano da tutto, a non farci parlare con le persone! Di che hanno paura, che li contaminiamo?» chiede polemicamente Luisito e si risiede, addentando con foga la pietanza speziata. Attilio Trozzo, il capodelegazione, cerca di riportare la discussione su binari più moderati.
«Compagni, un poco di pazienza! Siamo o non siamo il partito dei lavoratori? E allora lavoriamo. Fate conto di essere tornati alle elementari, quando i primi giorni di scuola piantavamo gli alberi; e poi non siete orgogliosi di partecipare alla realizzazione della Grande Muraglia Verde africana? Un’opera destinata a fermare la desertificazione del continente: l’Etiopia ha già messo a dimora 5 miliardi e mezzo, e dico miliardi non bruscolini, di piante, e voi vi lamentate per qualche vescica alle mani? Vergogna!»
«Trozzo, facciamo a capirci» interviene di nuovo Memo. «Ci sei o ci fai? Non siamo mica boy scouts. Siamo venuti a studiare le istituzioni, prendere contatto con le associazioni sindacali e i partiti di sinistra, incontrare le rappresentanze degli studenti e dei lavoratori, confrontarci con la società civile. Finora non abbiamo visto un’anima viva, a parte le donne che zappettano davanti a noi, ma più che altro le schiene e i sederi, perché non alzano mai la testa. Tra l’altro le facciamo pure rallentare perché non siamo capaci. Allora, si può sapere che c’è sotto?»
«Sì, che c’è sotto?» insorge ancora Ambrogio «E poi perché proprio a Macallè dovevano mandarci? A parte che evoca brutti ricordi» dice il leader del sindacato mimi di strada e falsi invalidi in carrozzella, alludendo alle battaglie combattute e perse nel 1895 dal regio esercito contro l’esercito di Menelik II «ma qui non è per niente sicuro. Questi tigrini si sono fatti la guerra con il governo centrale per due anni, adesso c’è la tregua ma non è detto che non riprendano ad ammazzarsi, e io non vorrei trovarmici in mezzo. Ma chi è il deficiente che ha scelto proprio questo posto?»
«Esatto, un deficiente» incalza Memo «Lo dicevo io che era meglio andare a Cuba! Insomma, questa è gente litigiosa, e non poco. E se qui non si sta tranquilli non è che dalle altre parti sia tanto meglio: verso il Sudan è meglio non avvicinarsi perché sono ai ferri corti per la diga che gli etiopi vogliono costruire sul Nilo Azzurro, con l’Eritrea non ne parliamo che sono stati in guerra per vent’anni, con la Somalia idem, insomma ‘sti abissini sono dei gran rompicoglioni!»
«Senza contare» ricorda Luisito, con una punta di invidia «che ciulano come matti. In trent’anni la popolazione è raddoppiata!»
«Compagni, compagni, e che cazzo! Va bene criticare, ma il popolo lavoratore ha pur diritto di ciulare quanto vuole» proclama Attilio Trozzo, enfaticamente. «E poi, se mi aveste fatto parlare, vi avrei dato la notizia che sono sicuro vi rasserenerà»
«Ce ne andiamo?» chiede Ambrogio, provocatoriamente.
«Al contrario. Domani sera saremo ospiti dell’associazione di amicizia Italia-Etiopia: si terrà una festa da ballo e conosceremo autorità e delegati. Avete visto, uomini di poca fede? E mi raccomando» conclude Trozzo abbassando la voce e avvicinandosi ai suoi commensali «cerchiamo di non farci riconoscere, come al solito»

Cronachette dell’anno nuovo che assomiglia tanto al vecchio (6)

Amiche e amici,

questa settimana tutte le attenzioni sono rivolte al festival di Sanremo. Io mi pregio di non averne visto nemmeno una serata, anche se è impossibile rimanerne estranei a meno di rinchiudersi in una grotta. Zelenskji sì Zelenskji no, e la Costituzione di Benigni con presenza straordinaria del presidente della Repubblica, polemiche e dichiarazioni di politici, talk show. Lasciatemelo dire: e chi se ne frega! Una volta mi piaceva seguire la gara canora, ma bisogna tornare indietro di una quarantina d’anni. Eravamo più sobri, allora: di questo passo dovrò davvero cercarmi una grotta per star lontano ancora di più da questo delirio. Tra l’altro ogni serata finisce all’alba, ma in questo paese la gente non lavora il giorno dopo?

Eppure c’è stato un terremoto disastroso in Turchia e Siria, con più di 20.000 morti accertati, finora: ed è osceno che invece di fare continui appelli alla solidarietà nazionale e internazionale, discutere di rivedere almeno le sanzioni che strangolano la Siria (perché? Chi ha deciso, anche lì, che abbiamo nemici e amici?) e impediscono persino di soccorrere degnamente le popolazioni martoriate si da ancora spazio al forsennato ucraino in maglietta verde che ovunque vada chiede più armi, più armi, più armi. La guerra in Siria c’è da undici anni, milioni di profughi, i curdi che hanno combattuto contro l’Isis bombardati tutti i giorni dai turchi, a chi interessa? Non è osceno un parlamento europeo, dove si annidano stuoli di corrotti e non è una mia opinione, osanni quel tizio e non faccia niente, assolutamente niente, per promuovere la pace? Anzi, di questo passo porteranno in guerra tutti gli europei, contro il bene dei propri rappresentati. E’ un fallimento epocale, un tradimento degli ideali e dei cittadini: chiedere le dimissioni è inutile, è evidente che ormai questa Europa non ha più senso. Non è riformabile, altro che dargli più poteri. Bisogna togliergli anche quelli che già ha.

Come peraltro alle regioni: questo fine settimana si voterà per rinnovare i consigli regionali di Lombardia e Lazio. Questi organi amministrativi diventati satrapie, che ora la destra al governo vorrebbe perfino rafforzare (Bonaccini, che si candida per la segreteria PD, da presidente della Regione Emilia-Romagna ha appoggiato a suo tempo la richiesta del centro-destra per l’autonomia differenziata: magari qualcuno che parteciperà alle primarie PD _ io no, ho già dato a suo tempo e me ne sono abbondantemente pentito _ ne dovrebbe tener conto), vanno smantellati: se la Meloni, leader di un partito che ha nel suo DNA il centralismo, abolisse le regioni del tutto la voterei anch’io al prossimo giro. Ma non succederà, inutile farsi illusioni.

Lo so, direte che sono il solito brontolone. Il fatto è che ieri il commercialista mi ha mandato una mail dicendo che dal 1 gennaio di quest’anno le sue tariffe verranno adeguate all’aumento Istat certificato a dicembre: il 10,23% ! E si è già contenuto, perché il mio personalissimo indice di inflazione è molto più alto, e faccio solo due esempi dalla spesa solita in Coop: il latte marchio Coop è passato da 0,85 a 1,40 al litro: aumento del 64,7%! E prendiamo pure una bevanda se vogliamo voluttuaria: la Sweppes è passata da 1,85 a 2,47: +33,5%! I prezzi dei generi alimentari insomma sono aumentati ben più del 10% stabilito dall’Istat. Ma, al contrario, il mio stipendio è aumentato dello 0%, quindi diminuito in valore reale di un bel po’. E come me alla stragrande maggioranza degli italiani. Canta che ti passa, si diceva una volta, per fortuna c’è Sanremo…

Così, per tirarmi su di morale (si fa per dire), ieri sera sono andato ad un evento organizzato dalla Caritas, ovvero la proiezione del documentario “Trieste di notte” sulla rotta balcanica, storie di migranti che partono dall’Afghanistan, dal Pakistan e da altri paesi ancora più lontani, fanno centinaia e centinaia di chilometri in condizioni spesso disumane, con il miraggio di arrivare in Italia: sì, l’Italia vista come l’Eldorado, terra di opportunità, faro di libertà e di civiltà. Vedere questi ragazzi di 18, 20 anni, passare anni e anni della loro vita in questo viaggio della speranza che si trasforma spesso in disperazione, strazia il cuore. L’attuale governo sta ripristinando la prassi di rimandare indietro in Slovenia anche quelli che chiedono la protezione internazionale: questo vuol dire che dalla Slovenia li rispedirebbero in Croazia (dove la ferocia della polizia varrebbe questa sì un embargo, e fa vergognare di essere europei _ e anche questo non lo dico io, basta guardare una puntata di Report di qualche settimana fa _) e da lì in Bosnia, da cui riproverebbero a tornare qua, in un loop infinito. Ad un certo punto un ragazzo di questi arriva a dire: se dovete illuderci e farci soffrire, è meglio che sospendete la protezione internazionale, almeno non ci proviamo nemmeno. A questo siamo arrivati? Restiamo umani, per favore.

A presto!

Cronachette dell’anno nuovo che assomiglia tanto al vecchio (5)

Amiche e amici,

martedì sono tornato in ufficio, dopo ben tre anni. Purtroppo non per restarci, ma solo per incontrare dei colleghi di Roma che erano in trasferta; per entrare non ho potuto usare il mio vecchio badge, perché è scaduto, e sono dovuto entrare come visitatore; tra l’altro non mi ricordavo nemmeno come si usava, il badge, infatti continuavo a strisciarlo ma hanno cambiato il lettore e adesso bisogna solo appoggiarlo.

E’ con una certa emozione che li ho rivisti di persona e abbracciati; uno di loro, più giovane di me, a marzo andrà in pensione, sfruttando uno scivolo di ben cinque anni (che bella vita i bancari); a me se va bene ne mancano ancora quattro, sempre se ci arrivo.

Mi aspettavo di trovare l’edificio vuoto, e invece era pieno zeppo; mi hanno detto che con le varie ristrutturazioni diverse sedi sono state chiuse ed i dipendenti sono stati concentrati; c’erano anche diversi consulenti, e a me hanno sempre detto che non potevo rientrare perché ero un consulente!

Ma non porto loro rancore; certo che ho provato quasi tenerezza nell’abbracciare colleghi con i quali abbiamo passato tanti anni insieme. Tantissimi giovani, tante facce mai viste, dalle occhiate che mi lanciavano capivo che stavano pensando: ma chi sarà ‘sto vecchietto? E poi, subito dopo: ma mica mi toccherà lavorare fino alla sua età?

Tutto sommato glielo auguro, vuol dire che il lavoro non manca e che si sono conservati in salute; peraltro continua il corteggiamento per farmi cambiare casacca, ormai ho quasi ceduto. Mi assicurano un contratto fino a 67 anni, contenti loro, per me è difficile dire di no.  A meno di centrare il superenalotto, che è arrivato a livelli elevatissimi: però dovrei almeno giocarlo, per vincere, invece sono più le volte che mi dimentico di quelle che lo faccio. Per un certo periodo ho giocato regolarmente, e sempre gli stessi numeri; poi ho iniziato a diradare le giocate e poi ho buttato la schedina, mi sarebbe dispiaciuto scoprire che avevo vinto proprio quando non avevo giocato.

 Al bar e in mensa c’è ancora qualcuna delle “vecchie” bariste, inservienti e cassiere: le ho trovate più tirate, me le ricordavo più rilassate e sorridenti, il periodo del Covid per loro è stato brutto, la prospettiva di perdere il lavoro, come è successo a tanti del settore,  deve averle indurite.

Ovviamente ho ripreso i mezzi: il treno, la metro… i biglietti sono aumentati; il mio edicolante è andato in pensione, perciò non ho potuto comprare il giornale e leggermelo tutto durante il tragitto. Per mantenere una parvenza di abitudine l’ho comprato al ritorno, ma non è la stessa cosa…

Nel mio quartiere le edicole sono ormai sparite: i giornali online e la concorrenza dei supermercati le ha uccise. Del resto chi legge ancora i giornali, se non qualche vecchio bronto(lo)sauro?

La sera sono tornato a casa stanco, ma felice. Mi sembrava di aver lavorato per davvero, al contrario di quando sono a casa anche se faccio le stesse cose. Ed ora, quando ci rivedremo ancora, quando ci toccheremo, quando ci scambieremo batteri e magari virus?

E’ con un altro spirito che ho ascoltato le solite panzane del TG, la propaganda che cerca di convincerci della giustezza e inevitabilità della guerra (ma non siamo parte in causa, si premurano di rassicurarci: è un anno che continuano a mandare armi ad uno dei contendenti e non siamo parte in causa, ma a chi credono di prendere in giro?), il battage su Sanremo con proclama del fido alleato in maglietta verde (che non vedrò, e ogni persona ragionevole in questo paese e direi pianeta dovrebbe astenersene), la minaccia anarchica (è in un certo senso consolante scoprire che esistono ancora degli anarchici), il giubilo perché l’inflazione è salita meno del mese precedente (che avranno da essere contenti? Siamo il paese con l’inflazione più alta in Europa e quello dove il salario è sceso più di tutti gli altri, invece di aumentare), il tasso della BCE che aumenta ancora, un bel regalo davvero a chi deve comprare casa e accendere un mutuo.

Nostalgia e tristezza, consapevolezza e sconforto: amiche e amici, forse è meglio che me ne rimanga a casa ed in ufficio non ci vada proprio più: almeno qua tra un programma e l’altro posso scrivere due cavolate, e brontolare tutto il giorno tra me e me. A presto!

Business woman take cafeteria lunch smiling choose from self-service buffet