«Amici, salutiamo calorosamente la delegazione di lavoratori italiani che ci onoriamo di ospitare; riconosciamo l’importanza di questi scambi culturali, la reciproca conoscenza non può che portare a tessere rapporti sempre più proficui e a stimolare e incrementare la collaborazione tra i nostri grandi paesi!»
Okiki Tesfaye, presidente della associazione di amicizia Etiopia-Italia, carica che detiene grazie ad amicizie influenti che gli garantiscono finanziamenti cospicui che gestisce da padre-padrone, saluta gli ospiti, accompagnati dal console italiano.
Alle spalle del podio dell’oratore, sul palco dove solitamente si esibiscono gruppi folcloristici locali, è posto un lungo tavolo dove sono schierati i consiglieri dell’associazione ed il gruppetto di nostra conoscenza. Il console, Marcantonio Poltronieri, fa un breve pistolotto sui legami fraterni, i punti di intesa, l’intreccio di culture, dopodiché lascia la parola al capodelegazione Attilio Trozzo. Il quale si alza lentamente, con in mano i fogli del discorso la cui quantità inquieta gli ascoltatori, attirati sì dall’opportunità di scambi economici e culturali ma soprattutto dal ricco buffet i cui piatti caldi rischiano di freddarsi. Sistemati i fogli sul leggio, Attilio sorride all’uditorio ed inizia il suo discorso, che una giovane traduttrice si incarica di convertire in tigrino.
«Compagni, permettetemi di chiamarvi così: compagni di cammino, di lavoro, compagni nelle fatiche di tutti i giorni… In questo mondo che sembra ogni giorno più piccolo, dove le sfide sono ormai globali, ed i problemi di uno sono i problemi di tutto, è sempre più importante unirsi, fare fronte, lottare contro le disuguaglianze e le ingiustizie!»
Tesfaye lancia uno sguardo interrogativo del tipo “ma chi mi hai portato?” al console, il quale si stringe leggermente nelle spalle, come a dire “e lo so, ma falli parlare, sono innocui”; mentre Luisito sussurra al vicino Memo:
«Il vecchio leone ruggisce ancora »
«Già. Peccato che da noi siano rimaste solo le pecore»
Attilio, sentendo crescere l’attenzione e l’interesse, continua infervorandosi sempre più:
«Sì, lottare! Lottare per i sacrosanti diritti di lavoratori, di cittadini, di uomini e donne! Italia ed Etiopia uniti nel riconoscere la necessità che le risorse e la ricchezza non siano appannaggio di pochi privilegiati, ma tornino al legittimo proprietario, il popolo!»
A questo punto anche i due vicini cominciano ad agitarsi.
«Non vorrei che si facesse prendere un po’ troppo la mano» dice Luisito, preoccupato.
«Devono essere state tutte quelle spezie che ci hanno propinato in questi giorni» ipotizza Memo.
«Il popolo, sì, il popolo» prosegue Attilio ormai in trance, buttati via i fogli preparati e parlando a braccio:
«Quel popolo che, come cantava un’altro grande popolo, quello cileno, “El pueblo unido jamas sera vencido!”»
I tigrini, che in quanto ad entusiasmo non sono secondi a nessuno, si levano in piedi ad applaudire, e qualcuno inizia già a puntare il dito contro Tesfaye, individuato come rappresentante della borghesia affamatrice, quando dal fondo della sala si ode la voce gracchiante di un grammofono.
Se vuoi venir con me a Macallè
qualcosa c’è da far anche per te;
c’è tanta ricca terra qui da coltivar
che pane in abbondanza a tutti potrà dar!
E quando cesseran le ostilità
la vanga questo suol redimerà,
una casetta in mezzo ai fiori
io ti farò col mio lavor
se vuoi venir con me a Macallè!¹
Un gruppo di ragazzotti, sotto al palco, ridacchia rumorosamente; Attilio si ferma, interdetto, cercando di individuare l’origine della musica; Tesfaye balza al microfono e urla paonazzo (per quanto possa esserlo un etiope):
«Buttate fuori quel provocatore!», mentre la canzone continua:
Ti scrivo qui da un piccolo fortino,
mentre lontano fugge l’abissino
doman riprenderemo l’avanzata
verso la mèta ognor desiderata,
ma tu non piangere mio piccolo tesor
non si può infrangere il nostro grande amor!
Tutti si voltano verso l’autore di quella che reputano una bravata, e con stupore invece di scoprire uno degli impuniti ragazzotti vedono un vecchio rugoso, con una uniforme da ascari², sventolante una bandierina del Regio Esercito. Prima che gli uomini della sicurezza lo raggiungano, l’uomo si alza in piedi e con voce stentorea, inimmaginabile in un uomo della sua età, grida:
«Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia! Viva il Duce!» mentre parte la seconda strofa:
Il suolo che l’Italia ha conquistato
in poco tempo è stato rinnovato,
all’ombra del superbo tricolore
più non ci son né oppressi né oppressore!
Le strade nascono con gran rapidità
e insieme marciano progresso e civiltà!
La platea ammutolisce; Attilio, smarrito, cerca di riportare la discussione su binari meno scivolosi:
«Compagni, l’Italia è una grande repubblica, così come l’Etiopia; repubblica non dimentichiamolo nata dalla resistenza al regime nazifascista, e condanniamo fermamente l’avventura coloniale e tutti i colonialismi»
Gli uomini della sicurezza lottano intanto per strappare di mano il grammofono al valoroso ascari, che lo difende fino al finale:
Prepara dunque i corredin
per quattro o cinque marmocchin,
per poi venir con me a Macallè!
E fanno piovere sul malcapitato una gragnuola di manganellate, finché Ambrogio Cantaluppi, rimasto fino ad allora in silenzio, si alza in piedi e tuona:
«Lasciate stare immediatamente quell’uomo!» e per dare maggior peso alle sue parole avanza nella sala e si frappone fra l’uomo che si rotola in terra dolorante e i manganellatori.
«Ma che sta facendo?» chiede Luisito al vicino.
«Non lo so, ma si mette male» profetizza Memo.
E infatti, mentre la sicurezza ragiona sul da farsi, dall’altro lato della sala si sente un distinto:
«Italiani tutti fascisti!»
Ambrogio impallidisce. Orfano di padre partigiano, entrato in fabbrica a quattordici anni, metalmeccanico per quarant’anni alla Breda di Sesto San Giovanni , sindacalista per una vita, tessera del glorioso partito comunista in tasca, raddrizza le grandi spalle e porta il suo metro e ottantacinque per centoventi chili di peso, mani grandi come pale, davanti all’incauto urlatore.
«Se te dì cus’è, negrèt? Ripetilo se hai coraggio»
Sarà stato l’accenno al coraggio, qualità di cui gli abissini non difettano a differenza della prudenza, o forse quel negrèt poco politicamente corretto, ma l’uomo persiste nelle sue accuse; ha appena il tempo di pronunciare “Italia…” che un manrovescio di Ambrogio, non per niente chiamato Katanga ai tempi in cui faceva parte del servizio d’ordine alle manifestazioni sindacali, lo giustizia sul posto. Da quel momento in poi è tutto un mulinare di cazzotti e sedie e persino le marmittone del buffet vengono usate come armi improprie e contundenti. Mentre il console si defila, Attilio, Luisito e Memo scendono a dar man forte all’amico; si difendono con valore ma alla fine, soverchiati dal nemico come le truppe del maggiore Pietro Toselli sull’Amba Alagi³, sono costretti a rinculare fino ai camerini sul retro, dove riescono a barricarsi.
«Alla faccia dell’amicizia» commenta Luisito, tamponandosi il naso con un fazzoletto. «E tutto per salvare questo matto» dice indicando il vecchio ascaro. «Ma si può sapere chi cavolo sei?»
«Viva il Duce!» proclama questi orgoglioso, continuando a sventolare la regia bandiera tricolore.
Note
¹ cfr. Vieni a Macallè, canzone coloniale, 1935 (testo Enrico Frati, musica Eros Sciorilli)
² L’àscari era un militare eritreo, a cui in seguito si aggiunsero quelli reclutati nelle altre colonie africane, che combattè a fianco delle truppe coloniali italiane, inquadrato nei Regi Corpi Truppe Coloniali.Organizzati in battaglioni indigeni, diedero grande prova di valore in tutte le battaglie in cui furono impiegati.
³ Sul monte Amba Alagi si combattè nel 1895 una battaglia dove il presidio italiano, composto da 2.300 persone tra nazionali e indigeni, venne assalito da 30.000 soldati del negus Menelik II e completamente annientato. L’episodio fu uno dei più cruenti della guerra d’Abissinia che vide la sconfitta italiana e ne fermò l’espansione coloniale per molti anni.