Lo sai che i papaveri

Quando sarò vecchio i nipotini potrebbero chiedermi: ma nonno, che storie ci racconti? Bè, piccolini, quelle che so, accontentatevi. Perché la mia è una generazione di mezzo: non abbiamo vissuto storie epiche e a volte tragiche come i nostri genitori, forgiati dalla guerra, e non siamo stati nemmeno dei sessantottini: l’anagrafe ci ha penalizzato.

Quindi non ci avreste trovati radunati vocianti sotto i pochi lampioni dei vicoli per farsi spidocchiare dalle madri sedute in cerchio, facendo friggere gli animaletti su un pentolino riscaldato da una candela, come succedeva a mio padre; o non avreste avuto la casa invasa dai soldati polacchi in procinto di attaccare la Linea Gotica, come mia madre; e non ci avreste nemmeno trovati arrampicati di notte sugli alberi da frutta per cercare di alleviare la fame.

Noi di fame per fortuna non ne avevamo; però questi racconti ardimentosi ci avevano permeati, e sentivamo in qualche modo di doverne esser degni. Siccome rubare la frutta di notte dagli alberi dei contadini non si poteva, soprattutto perché di notte gli stessi che ai loro tempi avevano fatto razzie non ci facevano uscire, dovevamo osare ancora di più: in pieno giorno, a rischio di essere visti.

Ci muoveva una pulsione, come dire, estetica: non era importante l’oggetto della scorribanda, ma l’atto in se stesso. Rivolgemmo allora il nostro interesse ai fiori, di cui sapevamo nulla se non che fossero colorati e a volte emanassero odori.

Saprete, credo, che i papaveri prediligono i campi di grano, dove il loro colore rosso acceso spicca tra il verde-giallo delle spighe non ancora mature; il proprietario del campo in genere non apprezza che qualcuno pur mosso da passione floreale vada a passeggio sulle future pagnotte.

Perciò quel giorno partimmo abbastanza guardinghi: in quel campo, in contrada Rotelli, c’era un contadino che sparava a sale. Non sapevamo quanto la sua triste fama fosse meritata; avevamo deciso di affidarci, per l’impresa, alla guida del nostro compagno G. , che sapeva il fatto suo. Arrivati sul posto, dopo una pedalata in discesa, nascondemmo le bici, ci sparpagliammo per il campo e iniziammo la raccolta. G. si era offerto di guardarci le spalle, e di avvisarci se all’orizzonte fosse comparso il giustiziere, o almeno il suo cane. Eravamo sparsi per il campo, stando attenti a non lasciare scie come gli odierni cerchi alieni, con le braccia già colme di bottino, quando da lontano udimmo la vedetta dare l’allarme, e sbracciarsi: “arriva, arriva, via, correte!” Ci precipitammo verso il luogo dove giacevano i mezzi mimetizzati; ma poiché scappare in bicicletta in salita con un mazzo di fiori in mano non era agevolissimo, G. ci consigliò di lasciarli nascosti, e tornare più tardi a riprenderli. Ci sembrò una buona idea.

Dopo un centinaio di metri, sentimmo un urlo: “ah, m’ha sparato!”. Era G.! Era rimasto indietro e si era sacrificato per tutti. Con la foga della pedalata, il rumore dello schioppo ci era sfuggito; confesso che fummo tentati di abbandonare l’amico al suo destino (mors tua, vita mea) ma l’onore ebbe il sopravvento. Tornammo indietro, pronti alla pugna o a scappare più veloci di prima: ma sul posto del nostro amico non c’era più traccia. Un brivido freddo ci attraversò la schiena: era stato preso prigioniero.

Non avevamo cavalleria ne droni per tentare il salvataggio; dopo un breve conciliabolo stabilimmo di ritirarci: funesti presagi si addensavano sul nostro capo.

Appena arrivato a casa, raccontai tutto a mia madre. Immaginavo il mio amico lacero e ferito immobilizzato in una cantina buia: l’unica era rivolgersi alle autorità. Mia madre mi costrinse ad accompagnarla dalla madre dell’eroe. La signora, una donna austera e sobriamente riservata, venne alla porta; venni invitato ad enunciare sommariamente i fatti, ed alla fine del riassunto offrimmo tutto il sostegno necessario per intraprendere i passi necessari alla liberazione.

Fu prima con sorpresa, poi con sgomento, che vidi l’angolo destro della bocca della madre del mio amico sollevarsi. Una smorfia, un ghigno a stento trattenuto. Lì per lì pensai che stesse per diventare pazza, perciò feci un po’ fatica a decifrare le sue parole. Ci ringraziò della premura, ma doveva esserci senz’altro un equivoco: suo figlio non era mai stato così bene, anzi era tornato a casa con un magnifico mazzo di fiori, le aveva fatto proprio una bella sorpresa.

Per un attimo vidi l’occhio di mia madre brillare di una luce poco benevola nei miei confronti; strattonandomi via riuscì ad evitare che, quando fossi riuscito a richiudere la bocca rimasta spalancata, potessi coprirmi ancor più di ridicolo protestando di essere sicuro di aver sentito uno sparo, e il sangue, e di aver portar via G. ferito da una squadraccia di coltivatori diretti vestiti con cappucci del Ku Klux Klan.

In genere non sono uno che porta rancore, tuttavia non posso negare che il compagno G. non rientrò più nella lista dei miei top ten friends; da allora evitai accuratamente di incrociare anche sua madre.

Anche per i papaveri, tutto sommato, non sento più una grande attrazione.

(26. continua)

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4 pensieri su “Lo sai che i papaveri

    • Grazie Isabella, ogni tanto mi tornano alla mente dei vecchi episodi ed ho il dubbio persino io che siano veri… e’ passata un’era geologica! Allora chiedo conferma ai testimoni, che mi confortano, meno male, non ho sognato! Evviva i papaveri! Ciao, Giorgio

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