Tre stelle per Olena – 33

Palmira, l’anziana cuoca di Villa Rana, sorride e riprende il suo racconto.
«Così cominciammo a frequentarci… quando finivo il lavoro Torello mi aspettava fuori dal paese, stando attento a non farsi vedere; mi accompagnava fino allo stradone di casa, parlavamo del più e del meno, e ci salutavamo dandoci la mano. Non facevamo niente di male, ma quando ci incrociavamo in paese facevamo finta di non conoscerci, per non alimentare le chiacchiere.»
«Perché tanti misteri?» chiede Amaru. «Non potevate semplicemente dire che stavate insieme?»
Palmira scuote la testa, comprendendo le perplessità del maori.
«Eh, magari, non è mica come adesso, erano altri tempi caro mio… innanzitutto io ero una ragazza di campagna, e lui di paese: adesso fa ridere, ma allora c’era una bella differenza. Lui stava studiando, e io ero una contadina. Ma soprattutto avremmo dovuto affrontare i nostri genitori: allora si diventava maggiorenni a 21 anni, ed erano loro ad avere l’ultima parola. Certo, iniziavamo a fantasticare, a fare qualche progetto, avevamo tempo, del resto io avevo solo 16 anni, ma poi successe il fattaccio»
«Il fattaccio?» chiede Amaru, interessato «Che fattaccio?»
L’anziana cuoca sospira, e guarda fuori dalla finestra.
«Una sera stavamo tornando a casa, la signora si era dovuta trattenere più del solito in farmacia, si era fatto tardi e stava facendo scuro, perciò camminavamo a passo veloce. Arrivati all’abbeveratoio, che si trovava più o meno a metà strada, ci accorgemmo di tre persone che stavano arrivando in bicicletta, e ci facemmo da parte per farli passare, ma non avevano intenzione di passare. Erano tre ragazzi di un paese vicino, poco più grandi di Torello; si fermarono e cominciarono a prenderci in giro, a sghignazzare facendo battute pesanti; Torello mi si mise davanti, dicendo di lasciarci in pace, ma quelli per tutta risposta cominciarono a provocarlo e spintonarlo. Lui non reagiva, cercava di calmarli, finché uno non mi si avvicinò e cominciò a mettermi le mani addosso. Allora Torello non ci vide più, gli saltò addosso e cominciò a picchiarlo, ma gli altri due intervennero per dare manforte al loro compare e gli bloccarono le braccia. Io ero rimasta paralizzata, finché Torello mi urlò di scappare, e allora mi misi a correre verso casa. Sentii un grido, e mi girai d’istinto: uno dei tre aveva preso un ramo trovato in terra e l’aveva colpito alla testa. Lo vidi cadere insanguinato e mi misi a correre più forte di prima, ma non ce la feci: mi rincorsero, caddi. Mi tapparono la bocca, mi trascinarono dietro una siepe, e fecero il loro comodo.»
«La violentarono?» chiede Amaru, sconvolto.
«Avevo solo 16 anni, ed ero vergine…» ricorda Palmira, stringendosi il grembo, quasi a proteggersi ancora dall’orrore. «Se ne andarono ridendo, e minacciando che se avessi parlato avrebbero ammazzato Torello e la mia famiglia. Avevo dolore, vergogna, sanguinavo… tornai indietro verso Torello, che si stava riprendendo, e lo aiutai ad alzarsi. Mi guardò, e capì… ci abbracciammo piangendo. Mi lavai all’abbeveratoio, non so come feci ad arrivare a casa. Non dissi niente a nessuno… il giorno dopo tornai in paese, avevo il terrore di rincontrare quei tre. La sera speravo di rivedere Torello, ma non lo trovai ad aspettarmi. Pensai che fosse ancora dolorante, ma quando non lo rividi nemmeno il giorno successivo mi preoccupai… Il giorno dopo il paese era in subbuglio, sentii la signora raccontare ad una sua amica che nel paese vicino, in un fienile, avevano trovato i corpi di tre ragazzi del posto, sgozzati come animali… si pensava a qualche vendetta politica, quei tre erano figli di noti fascisti. Il cuore prese a battermi a mille, corsi in piazza e cercai Nicola, l’amico più stretto di Torello, e gli chiesi se l’avesse visto. Mi guardò con tristezza, come se sapesse qualcosa di quello che mi era successo, e poi mi chiese “Non l’hai saputo? Torello è partito. Ti avrei cercato io tra poco… mi ha detto di darti questo”. E mi diede proprio quel ciondolo, quello che tieni in mano»
Amaru guarda i due pezzi del ciondolo riunito, commosso.
«E’ stato lui a far fuori quei bastardi? Ma dove è andato, si era nascosto, era scappato?»
«Era quello che avrei voluto sapere anch’io, ma Nicola lo ignorava, Torello gli aveva detto che si sarebbe fatto vivo lui. Così rimasi sola, con il mio segreto, ma non potei tenerlo segreto per molto»
«Perché? Chi l’ha scoperto?»
Palmira solleva le spalle, e mette la sua mano destra sopra quella del gigante.
«Ero rimasta incinta, Amaru. Aspettavo tua madre»

Olena à Paris – 41

«Non mi sembra una buona idea, mister» dice l’uomo al telefono.
«A me sembra ottima, invece. Una riunione di lavoro fuori orario, senza impiegati e segretarie tra i piedi. Cosa potrebbe succedere? La donna è in mano nostra, i tuoi uomini saranno pronti qua fuori, ed abbiamo gli altri due ostaggi a Saint Sulpice. Cosa non ti quadra?»
«Lei sa benissimo che se anche la signora firmerà la vendita, senza testimoni e senza notaio potrà impugnarla in ogni momento. Senza contare che appena uscita di qui andrà direttamente a denunciarla»
«Per le, diciamo, formalità burocratiche, non devi preoccuparti, a quello penso io. Il resto invece è compito tuo…»
«Cioè?»
«La signora avrà un terribile incidente d’auto, tipo Lady Diana, hai presente? La colpa naturalmente sarà dell’autista ubriaco. Che sfortuna, la donna era depressa da tempo, provata dalla morte del marito, non sopportava più la responsabilità e proprio per questo aveva appena affidato l’azienda nella mani della Talnone, con cui aveva rapporti di stima reciproca. Proprio stasera aveva deciso di festeggiare insieme a mia moglie, una disgrazia…»
«Sua moglie? Questo le costerà di più, non era nei patti.»
«Ho mai fatto problemi di soldi? E non c’era nessun bisogno di ammazzare Calderon, sai bene che avrei pagato, come sempre»
«Giusto per essere sicuri, mister, giusto per essere sicuri. Proprio un bel film, non c’è che dire. Posso fare solo un piccolo appunto?»
«Appunto? Di che tipo?»
«Ha pensato anche alla parte per la contessa?» chiede Carlos, ironicamente.
«Ah, già, la tua amica… mi sembra che abbiate un vecchio conto in sospeso, dico bene? Sono fatti tuoi, l’unica cosa che ti chiedo è di non sporcare di sangue gli uffici, gentilmente. Ah, usate l’ascensore riservato per salire, non ci sono telecamere lì. Il codice è 15081944, la liberazione di Parigi, merde»

Per l’ultima puntata di Lacrime e Laterizio, i koala ed il piccolo Chico si sono agghindati e si sono muniti, con la complicità delle cuoche di Villa Rana, di una buona scorta di riso da tirare al televisore al momento della uscita dalla chiesa della coppia di sposi, e si preparano a lottare per aggiudicarsi il bouquet che la sposa, secondo tradizione, lancerà alle sue spalle. Miguel, che ai matrimoni si commuove sempre, tiene a portata di mano un pacchetto di Kleenex, e si rigira tra le dita l’anello che aveva regalato alla sua ex-fidanzata, il transessuale cubano Paio Pignola¹, e che questi gli aveva restituito insieme ad una congrua dose di schiaffi alla scoperta che l’innamorato aveva avuto un figlio dall’attrice di telenovelas Conchita, la donna barbuta. La quale, nelle vesti di Rosa, giovane ingenua sedotta dal gagliardo capomastro Ramon, accompagnata dal suono della marcia nuziale di Mendelsshon, percorre ora la navata centrale della basilica minore della Purissima Concezione di Maria di Monterrey, meglio nota come Virgen Chiquita, al braccio di suo padre, per raggiungere l’altare dove l’aspetta l’anziano Don Carlos, suo promesso sposo.
ROSA (tra sé) Madre de Dios, aiutami tu.
PADRE PINEDA Fratelli e sorelle, siamo qui riuniti per celebrare le nozze di questi due giovani… ehm, di questa giovane e questo… ehm, di questi due innamorati!
DON CARLOS (sottovoce) Come sei bella, Rosa, non vedo l’ora…
DONNA TERESA (al marito) Guarda come sta sbavando quel caprone. Se tua figlia ci sa fare, quello schiatta stanotte stessa. Volesse la Vergine Misericordiosa! (si fa il segno della croce)
PADRE PINEDA Volete voi, Don Carlos Almeyda y Azulgrana, prendere in sposa la qui presente Rosa Granjero, e promettete di amarla, onorarla e rispettarla, finché morte non vi separi?
DON CARLOS Lo voglio! (sottovoce a Rosa) Eccome, se lo voglio…
DONNA TERESA (tra sé) Spara le ultime cartucce, mummia, che tra poco sarò la madre della vedova Almeyda e Azulgrana…
PADRE PINEDA (accelerando) Volete voi, Rosa Granjero, prendere in sposo il qui presente Don Carlos eccetera eccetera, e promettete di amarlo onorarlo eccetera, finché morte non vi separi?
ROSA (si guarda intorno sgomenta)
PADRE PINEDA Figliola, hai capito la domanda? Vuoi tu eccetera eccetera? Non è difficile, su, che fa caldo e ci aspetta il rinfresco.
ROSA Ecco, padre, io…
DONNA TERESA (al marito) Che sta combinando quella disgraziata? Quant’è vero Dio, se fa la matta la ammazzo con le mie mani.
DON CARLOS Rosa, Rosetta, hai sentito quello che ti ha chiesto Padre Pineda? Capisco, sei emozionata, e chi non lo sarebbe nel diventare la nuova baronessa Almeyda y Azulgrana. Ora fai così, respira a fondo, e poi rispondi alla domanda.
ROSA Don Carlos, devo dirvi una cosa…
Mentre sulla faccia di Don Carlos si dipinge una smorfia di disappunto e Donna Teresa si alza in piedi pronta a balzare sulla figlia, dal sagrato arriva il rumore di una marmitta scoppiettante di una vecchia Gilera, seguito dal suono prolungato del clacson. Un sorriso illumina il volto di Rosa, con le due mani alza la gonna dell’abito da sposa, scalcia via le scarpette e corre scalza verso l’uscita.
DONNA TERESA Torna qua, assassina! Don Carlos, sposate me al posto suo! Chi se ne frega se sono sposata! Rosa! Rosa!!!
Ma Rosa è già uscita ed è arrivata alla moto; il guidatore scende, apre il cavalletto, si toglie il casco e rivolge alla mancata sposa un gran sorriso.
ROSA Cominciavo a pensare che non saresti venuta.
SUOR MATILDA Non mi partiva la moto, ho dovuto convincere le altre suore a spingere.
ROSA E adesso?
SUOR MATILDA E adesso baciami, scioccona.
Gli invitati, sulla scalinata della chiesa, restano basiti a guardare la scena; infine le due infilano i caschi e si preparano a partire, seguite dalle urla disperate di una madre dal cuore spezzato.
DONNA TERESA Rosa! Lesbicaccia, torna qua! Rosa! Io ti maledico!
E, prima di svenire, l’ultima cosa che vede della figlia è il dito medio alzato in segno di affettuoso saluto.

“Io ti maledico, io ti maledico!” urlano i koala, rincorrendosi con il dito medio alzato e lanciandosi pugni di riso mentre Miguel, intenerito dalla vista della madre di suo figlio che scappa con una suora, si soffia il naso rumorosamente.

Olena à Paris – 38

ROSA Madre, ho commesso un terribile errore.
DONNA TERESA Tutti commettono errori, figlia mia, io ho sposato tuo padre! Che cosa hai combinato di così terribile?
ROSA Ho detto sì a Don Carlos!
DONNA TERESA E me lo chiami errore questo? L’avessi fatto io questo errore!
ROSA Ma madre!
DONNA TERESA Dovresti baciarti i gomiti, altroché! Un marito ricco che ti farà fare la signora, e poi nessuno ti impedisce di farti un amante giovane, basta far passare qualche settimana…
ROSA Ma madre!!
DONNA TERESA E se sei fortunata, non come la sottoscritta, il vecchio tirerà le cuoia presto, allora sì che avrai fatto bingo!
ROSA Ma madre!!!
DONNA TERESA Ma madre, ma madre, sai dire solo questo? Stai bene a sentire, e mettitelo bene in testa. Vieni qua, davanti allo specchio, guardati! Pensi che quelle poppe staranno su ancora per molto? Quello è tutto il capitale che hai, devi metterlo a frutto, non buttarlo via come ho fatto io.
ROSA Madre, ho deciso. Vado da don Carlos e ritiro la promessa.
DONNA TERESA Ci vai in carrozzella?
ROSA Perché in carrozzella, madre?
DONNA TERESA Perché se provi ad avvicinarti a quella porta ti spezzo le gambe! (Ha un mancamento) O Dio, il cuore, mi farai crepare, disgraziata. (Si siede, Rosa ne approfitta e scappa) Dove vai, torna qui, figlia degenere! Ma è colpa mia, venti anni fa invece di farmi mettere incinta dovevo tagliarglielo, a tuo padre! Rosa! Rosa! Torna qui!!

I koala, stretti attorno al piccolo Chico, commentano la puntata di Lacrime e Laterizio con diversi “Ma madre! Ma madre!” chiedendosi come abbia fatto la signora che voleva rubare il loro fratellino senza pelo ad uscire dal camion surgelati nel quale l’avevano rinchiusa. E’ con viva curiosità che la guardano uscire di casa e dirigersi decisa verso il palazzo di don Carlos, finché qualcosa di inatteso la ferma e la costringe a nascondersi dietro una colonna del porticato.

ROSA (tra sé) Ramon! Cielo, mi batte il cuore, che voglia di volare da lui. No, no, devo resistere, prima devo chiarire le cose con don Carlos. Ma chi è quella donna che è con lui, e quei bambini, e perché il mio amore spinge un passeggino? Sarà una parente? La sorella, magari. Ha un aspetto simpatico, sento che diventeremo amiche…
PRIMO BAMBINO Papà, dopo andiamo al fiume a pescare? Io mi rompo ad andare a spasso.
RAMON Francisco, abbi pazienza, ci andremo domani a pesca. Adesso dobbiamo andare alla messa, e poi abbiamo promesso a nonna Hortensia di passare da lei per pranzo.
SECONDO BAMBINO Io non ci voglio andare da nonna Hortensia. Mi dà i pizzicotti sulle guance.
RAMON Lo fa perché ti vuole bene, è un gesto affettuoso.
TERZO BAMBINO La nonna puzza di cipolla, nemmeno io ci voglio andare!
DONNA Agapito, ti ho già detto di non dire quelle cose, la nonna non puzza di cipolla!
TERZO BAMBINO Sì che puzza di cipolla! Papà dice che sotto la sottana puzza di cipolla!
DONNA Ramon! Vergognati, belle cose che insegni ai tuoi figli!
RAMON Ma dai Fernanda, si scherza. Lo sai che a tua madre voglio bene, in fondo, povera bestia.
DONNA Si, scherza, scherza, dopo facciamo i conti, voglio vedere quando stasera verrai a chiedermi la “cipolla”…
RAMON Ah, ah, vieni qua, cipollina mia…
ROSA (impietrita) Ramon? Cipollina? Come ho potuto essere così stupida? Mia madre aveva ragione… e anche Suor Matilda… e perfino Carmelita, quella ladra! Sono disonorata, che ne sarà di me?

“Cipolla, cipolla!” gridano i koala, annusandosi l’un altro e tentando di passare alle vie di fatto. Chico, con le lacrime agli occhi, guarda sua madre tornare mestamente verso casa, sulla soglia della quale la aspetta sua madre, con in mano un nodoso randello.

DONNA TERESA Hai anche la faccia tosta di tornare a casa? Questo non è un albergo, fatti ospitare dal tuo manovale!
ROSA Capomastro, madre, capomastro. E comunque non posso, è sposato.
DONNA TERESA (scoppia in una gran risata) Sposato! Che fortuna! Così finalmente te lo toglierai dalla testa, quello spiantato! (improvvisamente preoccupata, abbassa la voce) Guardami bene in faccia e dimmi una cosa.
ROSA Si, madre, che cosa?
DONNA TERESA Gliel’hai data?
ROSA Ma madre!
DONNA TERESA E basta con questo ma madre! Gliel’hai data o no?
ROSA Si.
DONNA TERESA Lo sapevo, stupida che non sei altro! Ora ascoltami bene, don Carlos non deve sapere niente, hai capito, che non ti venga in mente di confessare. In queste faccende la sincerità non è ammessa!
ROSA Ma madre, se ne accorgerà!
DONNA TERESA Non dire stupidaggini, perché mai deve accorgersene. Pensi che tuo padre se ne sia accorto?
ROSA Perché, tu…?
DONNA TERESA Lascia stare quello che ho fatto io. Qui si sta parlando di te e del tuo futuro. Su, entra, dai, fatti abbracciare.

E i koala, muniti di rami strappati agli alberi circostanti, si rincorrono bastonandosi e urlando “ma madre!” e “in testa no!” con il piccolo Chico che applaude e ride beato, appeso a testa in giù.

Olena à Paris – 26

Nel salone delle feste di Monterrey l’orchestra Los Melograños ha appena attaccato il classico South of the Border, o Stella d’Argento, ed i ballerini iniziano ad affollare la pista.
DONNA TERESA: Non fare quella faccia, che sembra che stai andando a un funerale. Ecco Don Carlos, sorridi, sorridi!
ROSA: Non ce la faccio, madre!
DONNA TERESA: (le da una gomitata nelle costole) E sorridi, ingrata.
DON CARLOS: Donna Teresa, i miei omaggi. Siete un incanto! Degna madre di una bellezza come la mia prossima sposa… come state, Rosa?
ROSA: Serva vostra, Don Carlos… per la verità ho un leggero mal di testa, e voi come state?
DON CARLOS: Mai stato così bene, figliola mia. Siete pronta per il grande annuncio?
ROSA: Ecco, io… (donna Teresa le pesta un piede) Ahi!
DON CARLOS: Cos’è stato, vi sentite male?
ROSA: Niente, la mia emicrania… (entra Ramon, Rosa tra sé) Cielo! Ramon è qui! Signore del cielo… ma che sta facendo? Balla con mia cugina Carmelita, quella smorfiosa? E guarda come la stringe… Ah, traditore!
DON CARLOS: Se non vi sentite bene, magari vorrete tornare a casa, posso farvi accompagnare con la mia carrozza…
DONNA TERESA: No! Ehm, cioè, sono cose di poco conto, adesso mia figlia si darà una rinfrescata al viso e sarà pronta per riprendere il ballo. Con permesso… (trascina Rosa in bagno)
Che stai facendo? Guarda che con me i tuoi trucchetti non attaccano… te la faccio venire io l’emicrania, a forza di bastonate se non ti sbrighi a tornare dentro e fare il tuo dovere!
ROSA: Come volete, madre. (Tornano in sala e Rosa vede Ramon ancora avvinghiato a Carmelita) Ah, vigliacco!
DON CARLOS: Vi sentite meglio, Rosa?
ROSA: Benissimo, don Carlos, anzi mi è venuta voglia di ballare.
DON CARLOS: Andiamo, dunque. Mi permettete questo ballo?
(i due vanno verso al centro della pista ed iniziano a ballare, quando si avvicinano a Ramon e Carmelita Rosa fa uno sgambetto alla cugina e la fa cadere)
ROSA: (fissando Ramon) Oh, come mi dispiace!
CARMELITA: L’hai fatto apposta!
ROSA: (sottovoce) Ladra e baldracca!
DON CARLOS: Orchestra, si fermi la musica! (l’orchestra tace) Rosa, te lo chiedo qui, davanti a tutti: (si inginocchia) vuoi sposarmi e rendermi un uomo felice?
ROSA: (guarda Ramon e Carmelita e risponde con rabbia) Si!
RAMON: Ah, traditrice!
CARMELITA: Bene, così Ramon sarà mio!
DONNA TERESA: Era ora, vecchio caprone, così si fa, figlia mia!
ROSA: Cielo, che ho fatto? Aiutami tu…

“Cielo, cielo” ripetono i koala e il piccolo Chico, partecipando al dramma della protagonista della telenovela. Dal balcone del grande soggiorno Gilda osserva i marsupiali, con un sorriso materno.

«James caro, dovremmo organizzare qualcosa, che ne pensi? Una veglia funebre, un momento di rimembranze, potremmo coinvolgere qualche suo amico di infanzia… oddio, questo mi pare parecchio difficile… non so, qualcuno che possa portare qualche testimonianza, ad esempio quei pensionati della bocciofila… I figli sono morti tutti da un pezzo, bisognerà rintracciare qualche nipote. Te ne puoi occupare tu, James?»
«Senz’altro signora» risponde il maggiordomo, compìto.
«E per il funerale? Ai fiori ci pensa Miguel, ma mi piacerebbe tanto un corteo come quelli che si svolgono in Louisiana, con gente variopinta che suona, canta e balla… pensi sia possibile ingaggiare una cinquantina di comparse, James?»
«Non ravviso problemi signora. Ricorderà che le ho parlato di quel mio amico che suonava nell’orchestra di Hengel Gualdi¹, ebbene con lui ci siamo recati diverse volte a New Orlens, in Bourbon Street, per il Mardi Gras, ed ho mantenuto dei buoni contatti; mi attivo immediatamente per ingaggiare una brassband² e qualche decina di avventizi, col suo permesso» dice James, accingendosi a lasciare la stanza.
«Ottimo, tutto a posto allora, eppure ho la sensazione che stiamo dimenticando qualcosa… James?» chiama Gilda, improvvisamente resasi conto di una falla del piano.
«Signora?» chiede James, fermandosi sulla soglia.
«E la salma, James? Che diamine di fine ha fatto la salma?»

¹ cfr. “Ferragosto con Olena”, 2019
² Banda di ottoni

Olena à Paris – 5

«Che ne pensi della faccenda, James?»
Gilda e James, tornati dalla trasferta parigina, osservano dal balcone della sala il giardiniere Miguel che, abbigliato da Elettra Lamborghini, sta dando lezioni di twerking¹ al piccolo Chico ed ai koala ospiti del parco.
James inarca il sopracciglio destro ed emette il suo verdetto:
«Non mi sembra che Miguel abbia la conformazione fisica adeguata, signora. Manca di peso specifico, se mi spiego»
«Ti riferisci al fondoschiena, James? Concordo. Tuttavia non era del sedere di Miguel che volevo parlarti, ma della proposta di Biscuit» precisa la Calva Tettuta, interrotta però nel suo ragionamento da un vociare proveniente dal cancello della villa.
«Chi sono quegli individui, James?» chiede incuriosita, aguzzando la vista.
«Credo si tratti di una delegazione sindacale, signora. Stamane si è tenuta un’assemblea delle maestranze»
«Operai? Che bizzarria. Eppure mi sembra di aver concesso fino a tre soste di cinque minuti per andare in bagno, e in ogni pacco natalizio ho fatto mettere 10 confezioni in scadenza di Rabbi, i ravioli alla ricotta salata e cardi gobbi. Ad ogni buon conto, saresti così gentile da andare in camera e prendere dall’armadietto della buonanima di Evaristo il suo sovrapposto Franchi² per la caccia alle beccacce?»
«Naturalmente, signora. Lo desidera carico?» si informa il maggiordomo, lievemente preoccupato.
«No grazie, James, risparmiamo le munizioni, per adesso. Vedremo in seguito se ci sono gli estremi per la legittima difesa.»

Come anticipato da James, in effetti in mattinata si era tenuta una movimentata assemblea dei lavoratori dello stabilimento brianzolo di Ciapanò, di cui riportiamo un succinto resoconto:

«Compagni, un attimo di attenzione. Silenzio, compagni. Compagni, e basta, cazzo!»
Aurelio Trozzo, delegato sindacale appartenente al COBALAPARI, Comitato di base dei lavoratori di pasta e ripieno, batte il martelletto sul tavolo per richiamare l’assemblea alla calma.
Quando finalmente il vociare diminuisce Trozzo può introdurre l’argomento all’ordine del giorno:
«Compagni, siamo riuniti per discutere della grave situazione di crisi che si è venuta a creare nella fabbrica. Come sapete, la proprietà ha chiesto di poter accedere alla cassa integrazione a zero ore per i reparti bloccati dalla mancanza di materia prima. Resterebbero attive, per ora, le linee vegetariane e la pasta sfoglia»
La sala inizia a rumoreggiare, preoccupata ed arrabbiata.
«Ma lascio la parola al segretario generale Carrettoni, che ci illustrerà la situazione»
Armando Carrettoni, basco in testa e sciarpa rossa al collo, prende il microfono e si alza in piedi.
«Compagni! Ancora una volta i capitalisti mostrano la loro faccia e abbandonati infine i toni paternalistici e le pacche sulle spalle ricorrono alla solita vecchia tattica: dividere i lavoratori tra buoni e cattivi, di serie A e di serie B, socializzare le perdite dopo aver incassato per anni sulla nostra pelle i guadagni, e che guadagni! Ma noi non cascheremo nella loro trappola!»
«Bravo! Bene!» rispondono gli operai entusiasti.
«O tutti o nessuno, diremo alla proprietà, non ci stiamo a pagare per i loro sbagli di programmazione o peggio…»
«Che vuoi dire? Parla chiaro!» lo incitano gli operai.
«Voglio dire, compagno, che è strano che da un momento all’altro una fabbrica fiorente sia sull’orlo della crisi. Viene quasi da pensare che qualcuno “voglia” che ci sia la crisi, abbiamo visto troppe volte questo giochetto!»
«Chi, chi? E perché?»
«E’ chiaro chi: la proprietà! Per ristrutturare licenziando, e poi vendere al migliore offerente! E allora io propongo, compagni, di rispondere duramente: sciopero ad oltranza!»
«Si! Sciopero, sciopero!» urlano i più infervorati, mentre qualcuno si guarda in faccia smarrito, pensando al mutuo in scadenza. Carrettoni si guarda in giro soddisfatto, e sta per concludere l’intervento, quando dal fondo della sala si alza un omone che, con una voce di basso profondo, dice solo:

«Io non ci credo»

Tutti si girano verso l’uomo che, quasi trascinando i piedi, avanza verso il tavolo degli oratori.
«Compagno Cazzaniga, non sei d’accordo con l’analisi del segretario?» chiede Trozzo, il moderatore.
«Ma che compagno e compagno. Aurelio, chiamami Luison, come fai sempre» poi si volta verso la platea e comincia a parlare:
«Lavoro in questa fabbrica da quando il povero signor Evaristo l’ha aperta… qualcuno di voi l’ho visto entrare che aveva i calzoncini corti»
«Sei vecchio, Luison!» urla uno screanzato dall’ultima fila, avendo cura di nascondersi dietro quello davanti. Luison guarda verso la direzione da cui è arrivato il grido, e serra la mascella.
«Con te dopo facciamo i conti a casa» dice all’autore, suo figlio. «Ma è vero, si, sono vecchio! E ne ho viste succedere tante. Ma nessuno mi convincerà che la signora Gilda ha architettato questo per vendere la fabbrica. Avrebbe potuto farlo quando voleva, perché adesso? E invece ha continuato a investire, a lanciare prodotti nuovi, e anche le nostre condizioni sono migliorate: l’asilo nido, le gratifiche, le borse di studio… e allora io dico no, che è tutto il contrario: c’è qualcuno che vuole fare del male a questa ditta, ma non è di certo la signora Gilda! E dico anche che scioperare in questo momento sarebbe una cosa assurda: chiudere anche i reparti che funzionano, invece di usarli per sostenere quelli che vanno male, è darsi la zappa sui piedi!»
Ma l’ala massimalista non gradisce il ragionamento dell’anziano operaio:
«Parli così perché stai per andare in pensione, ma a noi non ci pensi?»
«Venduto ai padroni!»
«Che ti hanno promesso, Luison?»
Su quest’ultima accusa però Luison non ci vede più, e individuato l’autore nel cognato Erminio col quale ha una vecchia ruggine per questioni di confini gli si avventa contro, scatenando una rissa che il servizio d’ordine fatica a sedare; e dopo qualche testa rotta ed occhio nero si stabilisce di andare in delegazione fino a Villa Rana per trattare direttamente con la proprietaria.

La Calva Tettuta, vestita da Che Guevara ma senza barba, si avvicina ai cancelli, seguita da James che indossa loden e scarpe Clark con riluttanza.
«Compagni!» grida la Calva Tettuta, scavalcando Carrettoni a sinistra. «La plutocrazia internazionale congiura contro di noi. L’eccellenza italiana, tutto merito di chi, come voi, si alza alle sei del mattino per produrre prodotti che tutti ci invidiano, dà fastidio a lor signori!»
«Brava! La plutocrazia!» urla un operaio, che chiede poi al vicino, sottovoce: «Che cazz’è ‘sta plutocrazia?»
«E l’Europa, che dovrebbe tutelarci, che fa?» chiede retoricamente Gilda.
«Già, che fa?» chiede un altro operaio, confuso.
«Ve lo dico io cosa fa: se ne impippa! Anzi, vi dico che c’è qualcuno che ogni volta che una fabbrica italiana chiude brinda a champagne!» urla la Calva Tettuta, provocando un brivido di sdegno nella folla. «Ma noi non molleremo!»
«No! mai!» urlano gli operai.
«E sapete che vi dico, compagni, amici, fratelli?» continua la vedova Rana, forse esagerando con l’enfasi populista tanto che James è costretto a tossicchiare per riportarla su toni più appropriati.
«Vi dico che se qualcuno pensa di fermarci si sbaglia di grosso! In questo preciso momento stiamo prendendo contatti con grossi fornitori, e la situazione si sbloccherà presto! Voi avete fiducia in me?»
chiede Gilda, sventolando una bandiera giallorossa.
«Siii!!!» urla in coro la folla.
«Allora tornate sereni a casa, e quando abbraccerete i vostri figli dategli un bacio in fronte da parte mia, e ditegli: “questo ve lo manda la Padrona”. E ora andate!»

La manifestazione si scioglie pacificamente, e qualche lacrima inumidisce gli occhi di quei duri lavoratori. Come spesso accade, pur non essendo cambiato niente rispetto al mattino, il futuro non è più così nero come sembrava.

Nel ritorno alla villa i due si fermano davanti alla cucina, attirati dall’assembramento di koala che sta assistendo alla nuova puntata di Lacrime e Laterizio.

ROSA (cuce e sospira)
CARMELITA Che hai, cara cugina? Ti vedo pensierosa.
ROSA No, niente, solo un po’ di mal di testa.
CARMELITA Non vorrai ammalarti proprio adesso, vero? Sabato c’è il ballo!
ROSA Già, il ballo… (povera me). Hai visto le mie forbici, Carmelita? Le avevo appoggiate qua, sul tavolino.
CARMELITA No, Rosa, io ho le mie, vedi? Ma senti, hai già deciso che vestito metterai? Sarà un gran giorno… verrà annunciato il tuo fidanzamento con DON CARLOS…
ROSA (si punge) Ahi! Per favore, Carmelita!
CARMELITA Sei nervosa, Rosa? E’ normale, tutti gli occhi saranno puntati su di te e DON CARLOS.
ROSA (si ripunge) Ahi! Eh, vorrei vedere te, cugina Carmelita.
CARMELITA Magari, cara cugina! Ma non ho ancora questa fortuna. Tu invece fra poco sarai sposata con DON CARLOS!
ROSA (si ripunge) Ahi! Carmelita, la vuoi smettere! E poi, non sono le mie forbici quelle che spuntano dalla tasca del tuo grembiule?
CARMELITA Cosa? Oh, ma guarda! Chissà come sono finite qua.
ROSA Già, chissà? (lo so io, ladra rompiscatole)

“Ahi! Ahi!” gridano i koala, pungendosi allegri l’un l’altro e sgranocchiando foglie di eucalipto.

Gilda li osserva divertita, poi commossa rivolge un pensiero agli operai:
«Che brava gente. James, devi ricordarmi di dire ad Haruki di aggiungere nei pacchi natalizi anche i sughi in scadenza»
«Estremamente generoso da parte sua, signora» dice James, senza accenno di ironia.
«Sai che c’è, James? Oggi mi sento rivoluzionaria. Stavo pensando che se a casa nostra quei cornuti di fornitori, e scusa la parola fornitori, non ci vogliono più dare la carne, andremo a prendercela da qualche altra parte.»
«Mi sembra un’ottima idea, signora. Aveva già un’idea?»

«Argentina, James, Argentina. Olè.»

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¹ Ballo castigato che consiste nello scuotere le anche in posizione accovacciata in modo da far tremolare le chiappe.
² La Franchi è una storica fabbrica di armi che produce fucili molto apprezzati dagli appassionati del settore.

 

Olena à Paris – 2

Tre mesi prima.

Gilda Quacquarini osserva compiaciuta dal balcone della grande sala di villa Rana, di cui è unica proprietaria dopo la prematura dipartita del non molto rimpianto marito Evaristo, le attività che fervono nel giardino sottostante. Si ripara dal rigore dell’inverno con un colorato piumino Emilio Pucci con stampa Vallauris ispirata alle opere in ceramica di Pablo Picasso e dei pantaloni con pannelli a contrasto della stilista ucraina Natasha Zinko, in testa un simpatico Beanie¹ giamaicano a coprire uno dei due motivi per i quali è nota come la Calva Tettuta.
In lontananza, su una collinetta di neve artificiale, la ultracentenaria Eusebia detta Pina, nonna del defunto, si addestra al tiro alla carabina imbracciando una agile Anshütz 1727-F, con la quale conta di partecipare alle Olimpiadi Invernali Seniores di Pechino del 2022 nella specialità del biathlon, sotto l’occhio esperto di Olena, la ex spia del Kgb che le ha fatto da badante per due anni ed è ora la guardia del corpo di tutta la famiglia.
Attorno alla collinetta, su una pista anch’essa artificiale, Svengard il vichingo, l’amante di Gilda, e Adalgiso, il personal trainer tedesco ingaggiato come toy boy da Nonna Pina, si esercitano nello sci nordico coperti dal solo perizoma.

Gilda poggia la tazza della tisana al sardopardio, diuretica e disinfiammatoria, sul vassoio in argento che le porge il maggiordomo, che reprime a stento l’invidia per l’abbigliamento della vedova Rana.
«James caro, non è un portento il piccolo Chico? Guardalo là, ancora non sa camminare e già si arrampica dietro ai koala. Che amore!» cinguetta Gilda.
«Effettivamente, signora, Miguelito è molto dotato, credo sia anche merito dei piedini prensili»
«La peluria è sparita quasi del tutto, hai visto James? E’ una fortuna, all’inizio il veterinario faceva fatica a distinguerlo da quei simpatici animaletti australiani»
«A proposito signora, se posso permettermi, quello di adottare un’intera famiglia di koala e di far piantare un boschetto di eucalipti nel parco è stato un gesto di grande sensibilità ecologica da parte vostra»
«Schiocchezze, James, l’avrebbe fatto chiunque al posto mio, se avesse avuto un parco grande undici ettari. Non potevo certo restare insensibile alla tragedia di questi piccoli marsupiali, che tra l’altro hanno un alito freschissimo. L’associazione voleva mandarmi anche dei dromedari selvatici ma ho dovuto rifiutare, ho saputo che si riproducono come cinghiali ed in breve avrebbero riempito il parco, senza contare che avrei dovuto far portare tonnellate di sabbia del deserto e allestire un’oasi con palme e datteri. Oh, ma guarda!» si interrompe la Calva Tettuta, indicando il ramo di un eucalipto.
«Chico si agita, ha riconosciuto la voce della sua mamma…»

La televisione a 68 pollici installata a piano terra, nella saletta di fianco alle cucine, trasmette infatti la prima puntata di “Lacrime e laterizio”, la telenovela messicana giunta in patria alla ottocentoventitreesima puntata e di cui Conchita, la donna barbuta, è la protagonista nella parte di Rosa, una giovane ingenua, e che per questo ha abbandonato il figlio all’involontario padre Miguel, il giardiniere tuttofare.
«Mamma!» gracchia Chico, gattonando fin sotto la tele, seguito dai koala curiosi.

ROSA No, Ramon, non posso. Non devo, non voglio! Io sono promessa a Don Carlos!
RAMON Don Carlos è vecchio, non può darti la felicità. Rosa, devi essere mia, il mio cuore arde di passione.
ROSA Temerario! Sento che quello che facciamo è sbagliato. No, non avvicinarti, Ramon…
RAMON Dimmelo in faccia che non mi ami e io uscirò per sempre dalla tua vita.
ROSA Io non… no, non posso!
RAMON Lo vedi? La voce del cuore. E adesso baciami.
ROSA Oh, Ramon!
RAMON Oh, Rosa.
ROSA Oh, Ramon!!
RAMON Oh, Rosa. Come si slaccia questa camicetta?²

Lo squillo dell’interfono richiama Gilda alla realtà.
«Pronto, qui casa Rana» risponde professionalmente James.
«James, non eravamo d’accordo che all’interfono non c’è bisogno di rispondere così formalmente? E’ casa nostra, dopo tutto» lo riprende Gilda.
«Chiedo venia, signora, è l’abitudine»
«Non possiamo lavorarci su questo vizietto, James? Comunque, chi è in linea?»
«E’ il direttore della produzione, signora, il dottor Haruki Laganà, sembra preoccupato»
«Preoccupato o corrucciato, James? Giusto per impostare la voce adatta alla risposta»
«Preoccupato, signora»
«Benissimo, James.»
Gilda prende dalle mani di James la cornetta e, in tono partecipe, si rivolge al sottoposto: «Haruki, caro, che succede?»
«Signora, mi dispiace allarmarla, ma qui sta succedendo qualcosa di strano!»
«Di strano dici, Haruki? A che ti riferisci? Non sarà ancora per la storia dell’impasto di carne non kosher in Israele?»
«No signora, il problema non è della carne kosher, il problema è di tutta la carne! I fornitori stanno consegnando col contagocce e la produzione è quasi bloccata! I nostri clienti chiamano inferociti, non riusciamo a rifornirli e minacciano di rivolgersi alla concorrenza»
«Ma com’è possibile? Sono andati in ferie tutti insieme? Non abbiamo scorte in magazzino?»
«Signora, i nostri prodotti sono freschi, non possiamo immagazzinarli per troppo tempo… e lo stesso è per i nostri fornitori: noi pretendiamo solo materie di prima scelta, non vogliamo prodotti congelati…»
«Ma i fornitori che dicono? Hai provato a contattarli?»
«Certo signora, hanno tutti dei problemi… chi ha avuto la visita dei Nas, chi ha gli operai in sciopero… al Rovellati si sono rotte le celle frigorifere, ed ha dovuto buttare via tutto…»
«Coincidenze, Haruki, non facciamoci prendere dal panico… cerchiamo altri fornitori, magari ci costerà un po’ di più, ma se è per coprire un’emergenza temporanea…»
«E questo è ancora più strano, signora: ne ho contattati diversi, e di solito sono ben contenti di avere un nuovo cliente ma questi… niente! Non hanno disponibilità, dicono che la produzione è già stata comprata tutta, e con prezzi fuori mercato!»
«Fuori mercato? Va bene Haruki, grazie. Stai tranquillo, intanto vai avanti con la linea vegana, che per quella bastano un po’ di carciofi»

Gilda riattacca lentamente la cornetta dell’interfono, poi pensierosa si rivolge al maggiordomo:
«James?»
«Signora?»
«Sembra che qualcuno ci abbia dichiarato guerra»
«Disdicevole, signora»
«Tu sai quel che c’è da fare, non è vero?»
«Naturalmente, signora. Posso suggerire un Orang Utan Coffee del Borneo?»

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¹ Il beanie è un cuffia di lana, ne più ne meno, solo che chiamarla cuffia di lana non è chic.
² Ad uno spettatore competente la recitazione di Conchita sembrerebbe un pelino enfatica e quella del suo partner eccessivamente piatta: ma ai messicani piace così.

Ferragosto con Olena (XIII)

«Uè Oscar, l’hai sentito il tuo coscritto? “Alla bella età che ho, ho deciso per senso di responsabilità di andare in Europa dove manca il pensiero profondo sul futuro del mondo“… hai capito Silvietto? Pare ieri che suonavamo insieme sulle navi da crociera… Pensiero profondo, mica nespole!» Armando, da sempre ammiratore dell’epicureo Cavaliere, stuzzica così l’amico.
Oscar scuote la testa. «Il pensiero sul futuro del mondo è uguale a quello sul passato del mondo… continuare a farsi i cazzi propri mettendolo in quel posto ai poveracci»¹ risponde lapidario.
«Sei sempre il solito comunista!» ride Armando «Non so come fanno a farti suonare in tutti quei matrimoni»
«Perché sono il migliore!» proclama l’organista. «E perché allungo sempre un cinquantino al sacrista…» e così dicendo strizza l’occhio ed alza il bicchiere al cielo.

Nell’antica osteria “Da Nino”, a due passi dalla Rocca dei Papi di Montefiascone, nessuno fa caso al gruppetto di anziani avventori che occupa il vecchio tavolo col piano di formica vicino alla finestra.
L’oste ha appena portato la terza bottiglia di Est! Est!! Est!!! alla quale i nostri amici si apprestano a tirare il collo, accompagnandola con un piatto di olive verdi, un tagliere di formaggio pecorino di varie stagionature ed un salame lardellato che Armando Grasparossa affetta senza parsimonia.
Oscar si appresta a riempire il bicchiere di Agostino, ma questi lo ferma, coprendo il bicchiere con la mano.
«No, per me basta, che c’ho la glicemia alta… se poi lo sa Mariuccia mi mette a stecchetto per tre mesi» chiede comprensione l’antico batterista.
«E no caro, lo sai qual è la regola: chi mangia mangia ma le bevute devono essere pari» lo incalza Oscar.
«E va bene» si arrende lo stornellatore «ma dopo basta veramente eh? Che se no mi dovrete riportare a casa a braccia»
Il Santone guarda i commensali con tenerezza, poi gli sfugge un sospiro:
«Amici miei, siamo diventati vecchi…»
«Parla per te!» lo rintuzza Armando. «Per tua informazione, io ancora sono sulla piazza, non so se mi spiego» e accompagna l’affermazione con un eloquente gesto di punzonatura.
«Si, il problema è che non ti ricordi più che ci fai, sulla piazza…e nemmeno che piazza è» lo canzona Oscar. «Mi hanno detto che ti sei pure ridotto a suonare con le basi registrate. Ma non ti vergogni?» continua l’organista da cerimonie.
«Oh, oh, calmino eh! Si fa presto a dire basi registrate… ma lo sai quanto costa adesso portarsi dietro dei buoni musicisti? Ma tu che ne sai, tu fai i funerali, lì non si lamenta nessuno…» risponde Armando, e continua: «Con quello che ti danno oggi non ci si sta dentro… allora io prendo degli scalzacani, basta che facciano finta di suonare e vadano a tempo, una cantante bona e la metto lì scosciata, chi ci fa caso se ci sono le basi o no… ogni tanto faccio qualche nota con la fisarmonica, giusto per non addormentarmi. Ma che ti credi, che è come quando andavamo in giro noi per le sale da ballo? Il mondo è cambiato, caro mio…»
«Pure troppo è cambiato per i miei gusti…» dice Agostino, e gli amici annuiscono con amarezza.
Poi Agostino si schiarisce la voce, e butta sul tavolo la domanda che aleggiava nell’aria:
«E adesso, Virginio, che si fa?»

Virginio Tempesti, il Santone, alza lo sguardo sui vecchi amici, annuisce ed inizia lentamente a parlare.
«Vi ricordate quando ci siamo visti l’ultima volta?»
«Si, purtroppo» risponde amaro Oscar. «E’ stato al funerale della povera Giovanna»
Un silenzio pieno di ricordi cala sul tavolo. Infine Virginio si schiarisce la voce e riprende:
«Già, Giovanna… che voce che aveva Giovanna, ve la ricordate? Calda, profonda… ed era sempre allegra… fino a quel maledetto giorno.»
«Già, quel maledetto giorno dell’incidente…» dice Agostino.
«Si, una tragedia…» conferma Oscar.

«Incidente…» sorride con una smorfia Virginio guardando fuori dalla finestra, ed inizia il suo racconto.
«Lo rivedo come fosse oggi, era il 15 luglio del ’72… faceva caldo. Quel giorno eravamo in campagna, stavamo provando un nuovo pezzo… ad un certo punto nel cortile entra una macchina, scendono in quattro. Bussano, vado ad aprire, e mi becco subito un pugno in faccia che mi fa cadere a terra. Cerco di rialzarmi, ma mi tempestano di calci e pugni. Giovanna corre ad aiutarmi, e la bloccano subito prendendola per i capelli…» continua Virginio, tra lo sguardo inorridito dei suoi amici.
«Ma ci avevi detto che era stato un incidente d’auto…» protesta Armando, incredulo. Virginio continua, come se non avesse sentito.
«Ci tennero tutta la notte… continuavano a chiedere la stessa cosa… ed a picchiare, picchiare…. Poi presero lei e…» Virginio si ferma, serrando la mascella.
«Santo Dio, Johnny, ma perché non ci hai mai detto niente? Ma chi erano, che volevano da voi?» chiede Agostino, che ancora non riesce a credere a quello che sente.
«Cercavano un bottino, bottino di guerra dicevano… dicevano che mio padre aveva preso qualcosa che non gli apparteneva, e lo volevano da me… riuscii a capire che si trattava di casse sottratte da un camion di tedeschi in ritirata, che conteneva monete d’oro e oggetti d’arte saccheggiati nella fuga. Ma io non sapevo niente, cosa potevo dire? Mio padre era sparito dopo la guerra, che ne sapevo io? Ma loro non ci credevano…» Virginio si ferma, riprende fiato.
«Giovanna era incinta, sapete? Quattro mesi… Perse il bambino…e la ragione. Ancora oggi non so perché non ci ammazzarono… ma dissero che se avessi parlato sarebbero tornati a finire il lavoro.»
«Ci hai sempre detto che era stato un incidente d’auto con un russo che era scappato…»
«Il Russo c’era… era il capo… ma non trovò quello che cercava. Giovanna si richiuse in se stessa, e dopo qualche mese dovetti farla ricoverare… ormai era persa in un altro mondo, non riconosceva nessuno, solo quando suonavo il sax sembrava che tornasse con noi… ma era solo un’impressione. Sedici anni è stata rinchiusa… alla fine si è ammalata di tumore, ed è morta senza poter mai più cantare» Le lacrime scorrono sul viso solcato da rughe di Virginio, che le asciuga col dorso della mano e prosegue.
«Smisi di suonare, di mangiare, di tutto. Stavo per farla finita… quando un giorno entrai in una chiesa, e sentii un coro di monache… assurdo, vero? Un coro di monache… chiesi se potevo fermarmi lì qualche giorno, a dare una mano nell’orto, in officina… e ci sono rimasto venti anni. Il Santone, mi chiamano… ma io non ho niente da insegnare a nessuno, non so niente, solo il dolore… non ho niente da dire, posso solo compatire…»

I tre vecchi amici, commossi, mettono le mani sopra quelle di Virginio, poggiate sul tavolo. Poi è ancora Agostino che si incarica di rompere il silenzio:
«Virginio, perché ci hai chiamati? Se il Russo ha l’età di tuo padre sarà sottoterra da un bel pezzo. Che possiamo fare per te?» chiede con tutta la delicatezza possibile.
«Chi l’ha detto che ha l’età di mio padre?» chiede sorpreso Virginio.
«Mah, ci era sembrato di capire…» dice Oscar, scambiandosi un’occhiata con gli altri.
«Niente affatto!» chiarisce Virginio. «Il Russo che è venuto a casa mia era il figlio di quello che aveva trovato il tesoro con mio padre… e voleva la sua quota di eredità!» rivela con rabbia, e continua:
«Vi ho chiamato perché adesso ho questa…» e così facendo estrae dalla sacca che porta sempre a tracolla la Corona di Galla Placidia.
«Ma che vuol dire? E dove l’hai presa questa?» chiede Armando, che a questo punto non capisce più niente.
«Questa» spiega Virginio «è il motivo per cui mia moglie è impazzita»
«Ma… ce l’avevi davvero tu?» chiede sbigottito il fisarmonicista.
«Certo che no, pensi che avrei fatto ammazzare mia moglie?» e continua: «Il mese scorso mi è arrivata una lettera, da un notaio di Basilea, in Svizzera… diceva che c’era un lascito a mio favore, e dovevo andare a ritirarlo. Mi ha consegnato le chiavi di una cassetta di sicurezza… dentro c’era quello che era rimasto del tesoro, ed una lettera di mio padre»
«Una lettera? E che diceva?» incalza Armando.
«Mio padre faceva parte di un reparto di partigiani… con loro c’era anche un russo. Erano in quattro in perlustrazione e si imbatterono in un gruppo di soldati intorno ad un camion impantanato… attaccarono di sorpresa e li uccisero tutti. Trovarono delle casse, le aprirono e videro che contenevano un tesoro! Le nascosero alla bell’e meglio in una grotta lì intorno, con l’intenzione di recuperarle con calma… ma, pochi giorni dopo, il loro reparto venne attaccato e si sbandò: degli altri seppe solo che due erano morti, ed il russo disperso. Finché, a guerra finita, un giorno non se lo ritrovò davanti casa a reclamare la sua parte.»
«Ma allora ha già avuto quello che gli spettava!» esclama Oscar. Virginio annuisce lentamente:
«Si, ha avuto proprio quello che gli spettava… una palla in testa. E’ sepolto dietro la nostra stalla, sotto due metri di terra. Mio padre aveva saputo chi li aveva traditi… il russo aveva fatto la spia per liberarsi di tutti loro e recuperare da solo il tesoro, ma aveva fatto male i conti»
Virginio beve un sorso di vino, appoggia il bicchiere e continua:
«Il figlio all’epoca era appena nato… quando venne a casa nostra mostrò una lettera scritta di suo pugno dal padre, dove c’erano persino le coordinate della grotta… ma mio padre aveva spostato da tempo le casse. Perciò, pensando che io sapessi del padre e del tesoro, venne da me…» conclude amaro.
«Mio padre non era certo uno stinco di santo…ma Giovanna non c’entrava niente in tutto questo» sibila, duro, Virginio.
«Bene, adesso è tutto chiaro. Andiamo a cercarlo, quel bastardo» propone Oscar.
«Non c’è bisogno, ci troverà lui» rivela Virginio con un sorrisetto beffardo.
«Come, ci troverà lui, che vuoi dire?» chiede allarmato Armando.
«Ho messo in giro la voce che il tesoro è stato ritrovato, ed ho anche fatto fare delle perizie presso delle case d’asta… so per certo che si è messo in moto, e ci sta cercando.»
«E allora che facciamo? Aspettiamo senza fare niente?» chiede preoccupato Agostino.
«No, ci faremo trovare… ma dove e quando lo decideremo noi» conclude Virginio, vuotando il bicchiere e rovesciandolo sul tavolo.

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¹ Ogni riferimento a persone e cose esistenti è puramente casuale. In ogni caso l’autore si dissocia dalle posizioni politiche dei propri personaggi.

Ferragosto con Olena (V)

«Suor Emerenziana, Suor Emerenziana!!!»

Suor Burialda, la guardiana che funge anche da centralinista del convento delle Suore della Carità del Beato Turoldo Cesanese del Piglio, a Ladispoli, agitata, abbandona momentaneamente il posto di controllo vicino all’ingresso e corre a grandi balzi verso la sala di lettura dove la consorella è in raccoglimento sfogliando con la massima delicatezza una Bibbia miniata del XII° secolo.
Qui irrompe, facendola sobbalzare e rischiando di farle cadere il prezioso libro dalle mani.
«E che ca…spita, Burialda, quante volte devo dirtelo di fare piano! Mi farai venire un colpo una volta o l’altra!» la redarguisce Suor Emerenziana, decana del convento, accompagnando il rimbrotto con un’occhiataccia.
«Insomma, che c’è di così urgente?»
«Suor Emerenziana, ho in linea il Vescovo… che gli dico?» risponde la giovane suora, torcendosi le mani.
«Il Vescovo? Oh ca…volo, ci mancava anche questa!» pensa l’anziana ancella del Signore. Poi rivolta alla suorina, chiede: «Ti ha detto cosa vuole?»
«Si, mi ha detto che vuole parlare con la Superiora, per mettersi d’accordo sulla processione per l’anniversario della fondazione dell’Istituto, in ottobre…»
«Mer…itorio questo suo interessamento, non è vero Burialda? Gli hai detto qualcosa?»
«None sorella, non sapìo che dije! Minca putìo raccontaje che la Superiora è corsa dietro a lu Santó!» risponde Burialda, alla quale quando è nervosa scappa qualche parolina nel dialetto di origine.
«Brava, brava, hai fatto bene. Coraggio, su, passamelo di là, ci penso io»
Suor Burialda parte a razzo verso la sua postazione, mentre suor Emerenziana, con la solennità necessaria, ripone il libro nella teca che lo custodisce. Poi, con la velocità che le consente l’età, si dirige all’apparecchio posto nella stanza vicina, non prima di sostare un attimo davanti all’effigie del Fondatore.
«Beato Turoldo aiutami tu» poi considerando che presto dovrà confessarsi alza la cornetta, prende la linea e risponde con modestia alla voce nervosa dall’altra parte del cavo:
«Sua Eccellenza, quale onore. Sempre sia lodato. Suor Matilda sta facendo gli esercizi spirituali, può dire a me?»

Gilda e suor Matilda, la sua vecchia compagna di infanzia, passeggiano nel giardino di Villa Rana. In sottofondo il ciangottare del pappagallo Flettàx che, improvvisando sulle note di “Mi sono innamorato ma di tuo marito” di Cristiano Malgioglio, rivolge epiteti politicamente scorretti all’indirizzo del giardiniere Miguel.
«Quanto tempo è passato, Marisa… ti ricordi quando andavamo a lavare insieme i panni al lavatoio comunale?»
«Sembra sia passato un secolo, vero? Come eravamo giovani…» riflette con un pizzico di nostalgia la superiora.
«E tu eri la più bella del paese!» ricorda Gilda. «Quando passavi per la piazza si giravano tutti i ragazzi…»
«Ah, ah, tu non eri certo da meno!» ride suor Matilda. «Me lo ricordo ancora come sculettavi, sai! Ah, ah, e poi mi fregavi tutti i fidanzati!»
«Io sculettavo? Ma sentila! Fidanzati, ma figurati! Io non ci facevo proprio caso a quei farfalloni!» continua ridendo Gilda.
«Eh, lo so, tu cercavi il grande amore…» continua la suora, e poi guardandosi intorno constata: «Bè, mi pare che non ti sia andata male, no? Come ci si sente ad essere una possidente?»
«Possidente… insomma, diciamo che me la cavicchio. Il povero Evaristo, pace all’anima sua,  mi ha lasciato la fabbrica e qualche milioncino, così mi posso togliere qualche sfizio»
«C’è anche quello tra gli sfizi?» chiede allusiva la monaca, riferendosi al vichingo che spacca la legna nel giardino.
«Chi, Sven? No, no, con Sven è una cosa seria… mi tocca tirargli fuori le parole con le pinze, ma gli voglio bene veramente. Ogni tanto piglia e scappa, ma ritorna sempre. Ma tu piuttosto… quando me ne sono andata stavi per fidanzarti con Alfredo… che è successo?»

Un’ombra attraversa il volto della suora.
«Alfredo… Alfredo è morto, non l’hai saputo?» poi, vedendo lo stupore sulla faccia di Gilda, continua:
«Ci saremmo dovuti sposare la settimana dopo… ti avevo anche cercato per mandarti le partecipazioni, ma non si sapeva mai dove trovarti, eri sempre in giro…»
Gilda annuisce, ripensando ai tempi in cui girava l’Italia alla ricerca di ingredienti per i ripieni che avrebbero permesso al marito di creare il suo piccolo impero.
«Era sera, stava tornando a casa con la Vespa, la 125, te la ricordi? Non s’è mai saputo che è successo, l’hanno trovato in un fosso con la testa spaccata. Qualcuno dice che si è sentito male, qualcuno che è stato buttato giù apposta, per la politica… poi io mi sono ammalata, non avevo più voglia di fare niente, non riuscivo più nemmeno ad alzarmi dal letto, volevo solo andare da Alfredo, e basta»
«Mi dispiace Marisa, non sapevo niente… avevo solo saputo che te ne eri andata dal paese, ma nient’altro…»
«Alla fine mi ricoverarono. Una casa di cura la chiamavano per delicatezza, un manicomio, in effetti. Lì conobbi il santone, che mi salvò la vita.»
«Il santone? Era ricoverato anche lui?» chiede Gilda, alla quale la storia inizia a sembrare una telenovela.
«No, non era ricoverato… e non era ancora il santone, per la verità. Era la moglie ad essere ricoverata. Era rinchiusa nel suo mondo, non riconosceva più nessuno, nemmeno lui. Lui veniva, una volta alla settimana, le sistemava i capelli, le accarezzava le mani e le raccontava quello che aveva fatto da quando l’aveva salutata. Lei lo lasciava fare, non capiva niente o così sembrava, continuava a guardare fuori dalla finestra senza dire niente. Poi, prima di andare, tirava fuori dalla custodia il suo sassofono, e le suonava una canzone dolcissima, sempre la stessa. Certe volte sembrava che la musica le ricordasse qualcosa, e allora muoveva le mani, quasi a dirigere un coro che vedeva solo lei… poi lui asciugava il sassofono, lo metteva via, e la salutava con un bacio sulle labbra. “Ciao amore mio”, le diceva, “voleremo ancora, vedrai”, e se ne andava »
«Ma tu come facevi a sapere queste cose?» chiede Gilda, commossa dal racconto.
«Io ero nella stanza vicina, quando sentii per la prima volta suonare quella canzone qualcosa mi si mosse dentro… mi avvicinai alla porta della loro stanza e la aprii appena, e continuai così per quasi sei mesi, ogni volta che veniva a trovarla.»
«E poi, che è successo?»
«Un giorno, mentre lui suonava, passa un’infermiera e mi sorprende mentre li guardo dallo spiraglio della porta aperta. Mi urla contro di chiudere immediatamente e di tornare in camera mia e si muove per venire a prendermi, io mi spavento e così la porta si chiude e sbatte. Rimango lì paralizzata, sento che la musica si è interrotta, ed i passi del santone che vengono verso la porta. La apre, e mi trova lì, che tremo. Mi guarda con degli occhi, Gilda, degli occhi verdi che avevano dentro tutta la dolcezza e la sofferenza del mondo… mi guardava dentro, mi leggeva l’anima… so che possono sembrare sciocchezze, specialmente dette indossando quest’abito, ma così mi sembrò allora. Passò qualche secondo, ma mi sembrò l’eternità… alla fine si scostò dalla porta, con un gesto mi mostrò sua moglie seduta alla finestra, e fissandomi ancora negli occhi mi disse: “Signorina, lei non deve stare qui. Lei non è come loro. La vita la aspetta fuori, vada a prendersela”. Poi richiuse la porta, e ricominciò a suonare. Il giorno dopo scappai.»

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Niente sushi per Olena – 7

Gilda Quacquarini, vedova Rana, è elegantemente seduta nella confortevole poltrona Frau realizzata appositamente per le sue misure da abili artigiani tolentinati, e sbocconcella assorta una oliva ascolana. Ha appena salvato il suo direttore della R&S, Toshiro Laganà, dal suicidio a causa del flop della nuova linea di ripieni, ma non è serena.
«James?» chiama la Calva Tettuta. Il maggiordomo appare come per magia, preceduto da un’onda di profumo. Gilda arriccia il nasino e scuote il turbante su e giù in segno di apprezzamento.
«Volevo dirtelo da tempo, James, il tuo after shave è delizioso»
James sorride con modestia, come prescrive il manuale del buon maggiordomo nei casi in cui il maggiordomo medesimo sottragga i profumi alla sua padrona e se ne cosparga senza parsimonia, e con un piccolo inchino risponde:
«E’ un estratto di saliscardo mescolato con essenze di lavanda e bergamotto, signora»
«E’ buonissimo, James. Potresti procurarmene una boccetta, magari con qualche aringa al posto del saliscardo? Non è tipo da saliscardi il mio Sven»
«Naturalmente, signora. Contatterò il mio fornitore di Aix-en-Provence»
«Splendido, James, splendido.» Poi, tornata assorta, si alza e va alla finestra. Guarda fuori e con tono preoccupato chiede:
«James, che ne pensi della faccenda?»

James si avvicina rispettosamente. Nel giardino Miguel, il nuovo badante di nonna Pina, sta potando un cespuglio di rose indossando i pantaloncini con cui Heather Parisi ballava “Cica-Cicà, io son qua”. Un sospiro sfugge all’integerrimo maggiordomo, mentre inizia il suo racconto:
«E’ un caso umano, signora. Deve sapere che l’uomo in Messico aveva una avviata carriera di attore di telenovelas e doppiatore di film porno. La sua specialità erano i gridolini in falsetto, le majors se lo contendevano. Purtroppo ad un certo punto fu vittima di molestie, e dovette abbandonare le scene»
Gilda, incuriosita e commossa, chiede lumi:
«Ma che peccato, James. Un ragazzo con un così bel gusto nel vestire non merita questo, non trovi?»
«Purtroppo il mondo dello spettacolo è una giungla, signora. Nel periodo del fattaccio egli stava recitando in “Lacrime e laterizio” nel ruolo del carpentiere Manolo innamorato di Conchita, la donna barbuta, e contemporaneamente doppiava “La bella Violante ha la passione del pulsante” del genere hot-catastrof-politico. Fu lì che venne preso di mira da una baby-gang di chierichetti che controllavano il racket dei doppiaggi porno. Al rifiuto di presentarsi in canonica travestito da prevosto, questi scambiarono gli interruttori del doppiaggio e Miguel andò in onda nel telegiornale delle 20:30 con i suoi gridolini sovrapponendosi, anziché alla pornostar Pamela Lanzarote, alla conduttrice Juanita Garzon, amante del presidente della TV messicana. Lo scandalo fece cadere molte teste; Miguel perse il lavoro e fu costretto ad emigrare; sbarcò il lunario facendo diversi lavoretti e prestandosi persino a suonare le maracas nelle orchestrine mariachi di Porto San Giorgio»
«Che tristezza, James. In ogni caso ha un bel paio di pantaloncini. Ma comunque, caro, non era questa la faccenda per cui volevo sentire il tuo parere»

Sorpreso, James, solleva il sopracciglio prediletto, il destro.
«Chiedo venia, signora. Si riferiva alla fabbrica, suppongo» ipotizza il maggiordomo.
«Pochi maggiordomi sono perspicaci come te, James caro» dichiara Gilda con involontaria ironia
«Faccio quel che posso, signora»
«James, non ci capisco più niente. Un momento sembra che nessuno voglia più comprare i nostri prodotti, e un attimo dopo… guarda qua» e così dicendo Gilda porge a James una busta.
James prende la busta con sussiego e ne estrae compunto un foglio scritto a mano. Inforca gli occhialini modello Elton John che tiene ripiegati nel taschino della giacca e ne scorre il contenuto. Infine ripiega il foglio, ripone gli occhialini nel taschino e restituendo il foglio dice:
«Un’offerta interessante, se posso esprimere il mio parere. La signora è intenzionata a prenderla in considerazione?»
«Non lo so James, non lo so. Non ci vedo chiaro e quando non ci vedo chiaro le cose non mi sembrano limpide, non so se mi sono spiegata»
«Perfettamente, signora»
«Sai che ci vorrebbe James? Un buon caffè. Qualche suggerimento?»
«Vuol assaggiare del caffè verde, signora? Dicono faccia dimagrire, non che lei ne abbia bisogno, naturalmente»
«Ma si James, proviamo a cambiare colore. Dai e dai anche il nero stufa»

Di che offerta parla James? E Gilda la prenderà in considerazione? Il caffè verde fa veramente dimagrire? Ma intanto Olena che fa? Lo scopriremo finalmente nella prossima puntata? 

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