Olena regina d’Abissinia – 29

Nella grande sala stampa del palazzo presidenziale il console Poltronieri consulta nervosamente l’orologio Patek Philippe Grandi Complicazioni che ostenta al polso, essendo intimamente e fermamente convinto della superiorità dell’apparire sull’essere, ragion per cui chi indossa un cronografo da oltre 300.000 euro non può essere un pirla.
«Dove diavolo sono finiti quei deficienti? Il Presidente sta per arrivare, se mi fanno fare brutta figura giuro che li ammazzo con le mie mani» sibila alla sua assistente che, avvezza alle sue sfuriate, gli rivolge un sorriso comprensivo mentre la mente è occupata in tutt’altre faccende, e precisamente alla lingerie che dovrà sfoggiare durante l’incontro serale con Alonso detto “el martillo neumático”, stagista all’ambasciata spagnola.
Come se gli avesse letto nel pensiero, un gruppetto variopinto, scortato da quattro agenti della sicurezza, fa il suo ingresso nella sala. Attilio Trozzo, il capodelegazione, allarga le braccia in segno di mortificazione.
«Ci scusi, console, ma abbiamo rischiato di non arrivare… Abbiamo forato per strada, non si vedeva un accidente ma per fortuna c’erano dei pastori che hanno dato fuoco alla sterpaglia e ci hanno dato una mano a cambiare la ruota. Poi abbiamo sbagliato palazzo: lei ci aveva detto palazzo presidenziale, ma non ci ha detto quale, così siamo andati in quello vecchio che però ora è un museo, volevano perfino farci pagare il biglietto, ma alla fine ci hanno indirizzati qua. Tutto è bene quello che finisce bene! Qual è ora il programma?» chiede Trozzo, abituato alle conferenze organizzative.
«E loro chi sono?» chiede a sua volta il console, sospettoso, indicando Taitù, Mariam, e soprattutto Zigulì.
«Sono i nostri accompagnatori» risponde prontamente il segretario «ci fanno da interpreti, e soprattutto ci hanno aiutato a trovare dei vestiti decenti da metterci, visto che in Dancalia non c’era molta verza da sfogliare»
In effetti i rudi sindacalisti si presentano molto eleganti, anche troppo: prima di recarsi a palazzo sono infatti passati da un cugino di Mariam che ha un banchetto al mercato, dove vende dei completi finto-Armani a prezzi onesti, o magari dei veri Armani ma venduti al prezzo giusto¹. Mariam e Taitù indossano dei bellissimi Habesha Kemis di cotone bianco, decorati a mano con inserti colorati, ed in testa la netela, uno scialle anch’esso bianco con strisce di vari colori; in quanto a Zigulì non c’è stato verso di fargli abbandonare la consunta uniforme coloniale ma si è raggiunto un onorevole compromesso mettendoci sopra una sciamma, una lunga tunica, anch’essa bianca. Taitù, maliziosetta, dice qualche parolina all’orecchio di sua madre che, ammirata, lancia delle occhiate ad Ambrogio, rosso e impacciato nel suo spigato Blu di Prussia, e scoppiano tutte e due a ridere sommessamente.
«Loro non sono stati invitati, chi vi ha autorizzato a portarli? Devono andare via!» intima Poltronieri, stizzito, temendo infrazioni al cerimoniale.
Secondi di gelo, imbarazzo e incredulità seguono la sparata del console. Si vede Ambrogio stringere i pugni e avvicinarsi a Mariam e Taitù; Trozzo, capendo che la faccenda sta prendendo una brutta piega, prende in pugno la situazione, ricorrendo alla sua esperienza di dialettica democratica.
«Permette solo una parola, console?» chiede, e senza aspettare la risposta prende Poltronieri sotto braccio e lo allontana dal gruppo, portandolo a distanza di sicurezza. «Ascoltami bene, testa di cazzo, e soprattutto sorridi. Non so con chi pensi di avere a che fare, ma ti consiglio di guardare bene le mani di quegli uomini» dice indicando Memo, Luisito Lenìn e appunto Ambrogio. «Quando se le sfregano in quel modo vuol dire che gli prudono. E se gli prudono non ci mettono molto a grattarsele sulla faccia del primo che si trovano davanti, meglio se è un leccaculo come te. Quindi, per favore, rilassati e vedi di non rompere i coglioni. O se no, Presidente o non Presidente, io ti metto in piedi un tale casino che nemmeno ti immagini, e va a finire che stavolta in Italia col barcone ci devi tornare tu, o ti ci faccio tornare io a calci in culo. Avec-vous compris, mon ami?» conclude Trozzo, sfoderando un sorriso a 36 denti, e cingendo con un braccio le spalle del console, livido di rabbia.
«To’, arriva il Presidente» annuncia, vedendo la scorta del presidente entrare nella sala. «E sorridi, ti ho detto! Sembri un beccamorto, che figura fai fare alla nostra “nazione” ?»

¹ In questi giorni un’inchiesta dei Nas ha fatto emergere che la Armani girava in subappalto la realizzazione di accessori in pelle, e scendi scendi nella catena dei subappalti si arrivava a laboratori-dormitorio cinesi, dove la manodopera veniva pagata anche 2 euro l’ora. Mentre la borsa, con un costo di produzione di 90 euro, in boutique viene venduta a 1800 euro. La società Giorgio Armani Operations Spa naturalmente sostiene ritiene di avere “da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”. Solidarietà ai taroccatori di marchi!

Olena regina d’Abissinia – 27

Nella stanza da bagno della suite presidenziale dell’albergo Hilton, che si affaccia sull’avenue Menelik II, l’arteria principale del centro nuovo di Abbis Abeba, o Addis Ababa per i puristi, Gilda squazza nell’enorme vasca Jacuzzi godendosi i benefici dell’idromassaggio, riempiendo l’ambiente di schiuma e bolle a causa del bagnoschiuma a base di burro di argan, bicarbonato, acido ialuronico e moringa col quale adora detergersi e del quale non lesina la dose. La capitana d’azienda si diverte giochicchiando con un asciugamano, mettendoselo in testa strabuzzando gli occhi e poi immergendosi sott’acqua fingendo di essere una premier ad un dibattito parlamentare, per poi riemergere e sibilare un irriverente “pochette!”, con tanto di ditino puntato verso un immaginario avversario politico¹.
Come se si fosse sentito chiamato in causa, quello che a buona ragione potrebbe considerarsi uno dei principali cultori italiani della pochette (sempre che cultori sia politicamente corretto) si materializza nella stanza levitando, annunciando la sua presenza con un discreto tossicchiare.
Gilda, lungi dal coprire quelle grazie che le hanno fatto guadagnare il soprannome di Calva Tettuta, si raddrizza nella vasca e si rivolge con apprensione a James, il maggiordomo, il quale più che dalle poppe prepotenti è attirato dal tono esotico degli orecchini pendenti con piume di metallo martellato, piume colorate laccate di smalto, sfumature di pietre di cristallo, vetro e resina, in una composizione esplosiva che gli ricordano il carnevale di Rio del 2017, passato folleggiando con la mulatta Flora dos Santos, regina del samba, nata Octavio Frangipan.
«James, ci sono notizie di Svengard? E’ sparito da stamattina. Non dovrebbe andare in giro così, il clima non è adatto alla sua costituzione. Quello è nordico, la pelle gli si arrossa facilmente, poi gli vengono le vesciche e mi tocca sparmargli la cremina. Non vorrei che si fosse portato via qualche canna da Sciasciamanna e sia andato a fumarsela da qualche parte, se si addormenta lo ritroviamo abbrustolito come San Lorenzo sulla graticola. O era San Sebastiano? Comunque un santo.»
«Stamattina ho incrociato il signor Svengard che stava uscendo, indossava una tuta da ginnastica ed una headband² colorata per raccogliere i capelli, un insieme molto elegante. Mi ha detto che sarebbe andato a fare un po’ di jogging al vicino parco dell’Unità, dove c’è anche lo zoo, magari è andato a visitarlo» ipotizza il butler.
«C’è uno zoo qua vicino? Poteva avvisarmi, quell’asino. Avrei potuto accompagnarlo, l’ultima volta che sono andata in uno zoo è stato nel 1992 a Milano, mi ci portò la buonanima (si fa per dire) di Evaristo poco prima che gli ambientalisti lo facessero chiudere. Chissà che fastidio gli davano quegli animali in gabbia! C’era perfino una giraffa, pensa, chissà che fine avrà fatto. Sai James, mi sarebbe tanto piaciuto creare uno zoo anche nel parco di Villa Rana, con gli animali liberi di scorrazzare, ma l’amministratore mi ha detto che i permessi da chiedere sarebbero stati troppi ed inoltre difficilmente avremmo trovato una assicurazione che ci avrebbe coperto sul rischio di danni a terzi. Non capisco che danni possa fare un leone in libertà, non è mica un cinghiale! E’ incredibile quanti lacci e lacciuoli imbriglino la libera impresa» conclude Gilda, corrucciando la bocca.

Intanto nonna Pina, nella spa dell’albergo, prona sul lettino del centro massaggi si sta sottoponendo alle cure dell’addetto, un ragazzotto di una venticinquina d’anni, alto poco meno di un metro e ottanta, con denti d’avorio che spiccano sulla carnagione scura.
«Un po’ più di energia, ragazzo, guarda che non mi spezzo mica. E vai un poco più in giù, quelli che sembrano due sacchettini vuoti una volta erano delle belle chiappe, sai?» lo esorta la vegliarda, con la sua voce gracchiante.
«Ma quali sacchettini, vuole scherzare, madame? Lei è tonica come una cinquantenne» mente clamorosamente il massaggiatore.
«Ragazzo, tu stai puntando decisamente al podio degli adulatori. Ammetto di non essere ancora del tutto decrepita, ma se mi avessi visto a cinquant’anni, caro mio, la differenza l’avresti notata eccome. Posso sapere come ti chiami?»
«Mi chiamo Abbay, madame, che in amarico vuol dire “possente come il fiume Nilo”»
«Ma non mi dire» commenta nonna Pina, interessata. «Senti, carino, non ti piacerebbe venire qualche mese in Italia? Assunzione a tempo determinato, capirai, alla mia età posso crepare da un momento all’altro, ma stai tranquillo che ti lascerei una bella liquidazione. Un bel centro estetico ti andrebbe bene³?»
«Quello di venire in Italia è sempre stato il mio sogno» confessa Abbay «però se non le dispiace al posto del centro estetico preferirei una palestra»
«Vada per la palestra. Dopo buttiamo giù due righe, un contrattino ci vuole, non pensare che ti farò lavorare in nero» ridacchia la ultracentenaria. «Ma prima, se non hai niente in contrario, vorrei una dimostrazione di quel “possente”. Sai come si dice in Brianza, pagare moneta vedere cammello»
Abbay, mostrando di conoscere bene i detti arabi, si allontana qualche passo dal lettino, e con un gesto naturale lascia cadere l’asciugamani che teneva legato alla vita.
«Per essere un cammello ha due belle gobbe» commenta la mummia improvvisamente ringalluzzita. «I cammelli però di solito non hanno la proboscide» constata la vegliarda, scendendo dal lettino leccandosi i baffi.

Mentre Gilda esce dalla vasca, venendo inglobata dall’accappatoio che il solerte maggiordomo le porge, dal cellulare parte la suoneria che riproduce Tuta Gold di Mahmood, suscitando a James un brivido si raccapriccio. Gilda si precipita a rispondere, rischiando di scivolare sul pavimento bagnato.
«Pronto, Svengard? Si può sapere dove ti sei cacciato, è tutta la mattina che ti sto cercando» esagera la Calva Tettuta, riconoscendo il numero del chiamante. La voce che risponde però non è del suo amato.
«Signora Quacquarini? Mi stia a sentire attentamente: il suo amico è in mano nostra. Se vuole rivederlo tutto intero, deve venire domani mattina alle 10 al cimitero, qui ad Addis Abeba. Porti un milione di euro, e non faccia parola di questa conversazione con la polizia»
«Ma chi siete?» chiede Gilda, sorpresa più che altro dall’essere stata chiamata signora Quacquarini. «Avete rapito Svengard? Farete meglio a non torcergli un capello»
«Lei non è nelle condizioni di minacciare» la avvisa l’uomo, avvicinando a Svengard, legato su una sedia, e mollandogli un ceffone. Il norreno tuttavia non è uomo da intimidirsi per così poco «Gilda, non preoccuparti per me, non cedere a questi schifosi» fa appena in tempo a dire prima di beccarsi un altro ceffone.
«Se si rifiuta, prima gli taglieremo un orecchio. Poi il resto.»
«Va bene, va bene, verrò» cede Gilda «ma non fategli del male. Avete detto al cimitero? Ma quale cimitero, non so nemmeno quanti cimiteri ci siano ad Addis Abeba»
«Al cimitero militare italiano. Alle 10, e niente scherzi» ripete l’uomo, e riattacca.

Gilda rimane qualche secondo pensierosa, con James che, avendo sentito tutta la conversazione, è in attesa di ordini.
«Che caro Sven, non è vero James? Ha detto di non preoccuparsi per lui. Ma certo che mi preoccupo, mica posso permettere che gli taglino un orecchio, o peggio. Chiama l’amministrazione, per favore, e digli di farmi recapitare un milione di euro per domattina. Loro sanno dove prenderli» rassicura il maggiordomo, che dubbioso stava alzando un sopracciglio.
«Ah, James?»
«Sì, signora?»
«Mi sentirei più tranquilla se Natascia potesse essere dei nostri. Che ne diresti di rintracciarla?»

¹ Ogni riferimento ad una certa presidente donna, madre, italiana e cristiana è puramente casuale.
² E’ una fascia elastica per raccogliere i capelli. Ma headband fa molto più figo.
³ Ogni riferimento al centro estetico che un defunto ex premier avrebbe regalato alla presunta nipote di Mubarak è puramente casuale.

Olena regina d’Abissinia – 26

«Trozzo, si può sapere dove siete finiti? Ho mandato il direttore a cercarvi e mi ha detto che siete partiti»
Attilio Trozzo, capodelegazione, seduto sul cassone del camioncino che sta portando lui e i suoi compagni ad Adua, si pente immediatamente di aver risposto alla chiamata. In linea è infatti il console Marcantonio Poltronieri, funzionario con nessuna simpatia per i comunisti anche se stagionati, e soprattutto con quelli che scatenano risse alle serate di amicizia italo-etiopiche. Non per convinzioni politiche, ma solo per il fatto che le premure dell’uomo, un trentacinquenne biondiccio più largo che alto, con dei grossi occhiali a tartaruga che le sue dita tozze e untuose toccano in continuazione, perennemente sudato, sono tendenzialmente rivolte a chiunque sia in grado di fargli fare carriera.
«Dottor Poltronieri, che piacere sentirla!» mente Trozzo. «Siamo partiti presto per i campi, strano che il direttore non se ne sia accorto. Come saprà, qui in Dancalia quando si alza il sole fa parecchio caldo, così abbiamo preferito anticipare la sveglia. A cosa devo la sua chiamata? Non mi aspettavo di risentirla così presto dopo i nostri diciamo, ehm, dissapori»
Il console si era infatti congedato minacciando che se fosse dipeso da lui li avrebbe rimpatriati immediatamente su un barcone e poi avrebbe chiamato la guardia costiera per fare in modo che nessuno li assistesse.
«Dissapori? Ma no, quali dissapori. Divergenze di opinione, punti di vista diversi. Suvvia, siamo in democrazia non è vero? Lavoriamo tutti per dare lustro al nostro paese anzi alla nostra nazione, come non manca di ricordarci la nostra cara premier» conclude enfaticamente Poltronieri.
«Sono contento che la pensi così, dottore. Quindi niente barcone?» chiede Trozzo con una punta di perfidia.
«Barcone? Ah, si riferisce a quella nostra piccola discussione? Una battuta, si capisce, una facezia pronunciata in un attimo di nervosismo. Dimentichiamo il barcone. Niente barcone, anzi!»
«Anzi?» chiede Trozzo, sorpreso.
«Anzi, anzi, carissimo. Abbiamo l’onore di essere ricevuti addirittura dal Presidente in persona! Lei avrà sentito parlare di piano Mattei¹? E’ un piano in cui la nostra nazione si propone di allacciare proficui rapporti con i paesi africani allo scopo di migliorare le relazioni, gli interscambi commerciali eccetera. No? Non importa, del resto nemmeno i paesi africani ne sanno niente. Ad ogni modo il Presidente, in segno di buona volontà, vuole incontrare una delegazione di italiani per ribadire i legami di amicizia, storici e culturali che ci legano. Il suo staff ha insistito per un incontro con un gruppo di lavoratori italiani, e chi meglio di voi, venuti ad imparare i metodi produttivi etiopi?» informa Poltronieri, sorvolando sul fatto che gli unici lavoratori italiani disponibili in quel momento sulla piazza sono solo Trozzo e compagni.
«Veramente, dottore» puntualizza il vecchio sindacalista «noi saremmo venuti a scambiare esperienze, non mi pare che ci sia molto da imparare da queste parti, con rispetto parlando»
«Trozzo, Trozzo, mi meraviglio di lei! C’è sempre da imparare. Quindi, carissimo, la aspetto domani ad Addis Abeba»
«Ad Addis Abeba? Domani?» ripete Trozzo, incredulo.
«Esatto, ad Addis Abeba, dovete essere al consolato alle otto esatte, lei e il suo gruppo, dopodiché ci recheremo insieme al palazzo presidenziale. Dopo il colloquio con il Presidente ci recheremo al cimitero a deporre una corona ai caduti della guerra italo-etiope, in segno di amicizia. E mettete il vestito buono!»
Nel frattempo Zigulì, sentita nominare la capitale, estrae un disco dalla sua collezione e lo mette nel grammofono:

Addis Abeba, conquista prodigiosa d’italian.
Addis Abeba, che nessun potente a noi ci strapperà.
Di quelle terre laggiù lontane, romanamente, oh regnerà.
E’ un grande amor, Italia e libertà²

«Trozzo? Cos’è questo rumore di sottofondo? C’è una radio accesa?»
«Oh, niente, dottore. Gli operai nei campi stanno cantando. E’ una specie di spiritual, non so se se ne intende» racconta Trozzo, confidando nell’ignoranza del console. «Nostalgia di terre lontane, sa com’è»
«Sì, capisco. Allora mi raccomando a lei, carissimo: a domani!»
Attilio rimane confuso a fissare il telefonino. La tentazione di far fare una figura di cioccolata al console è forte, ma d’altra parte la prospettiva di rimanere esiliati in Dancalia non lo alletta. Adua in fondo può aspettare, si tratta solo di una piccola deviazione, pensa tra sé e sé. Infine prende la decisione irrevocabile:
«Contrordine compagni. Si va ad Addis Abeba».

Poltronieri, poggiata la cornetta sul ricevitore, guarda con un fremito di cupidigia il suo assistente, un giovane con un gran cesto di capelli crespi in testa, brillante ballerino di Eskista³ che si esibisce fuori dagli orari di ufficio nelle sale da ballo di Addis Abeba con il nome d’arte di Lulù.
«Se anche stavolta mi combinano qualche casino li rimando in Italia a nuoto, altro che barcone»

¹ Enrico Mattei, antifascista e partigiano, fondatore dell’Eni, morto nel 1962 in un incidente aereo le cui circostanze ancora oggi non sono state chiarite ma di cui si sospetta da sempre un sabotaggio ad opera di quelli che avrebbero dovuto essere i nostri “amici”, si rivolta nella tomba ogni volta che questo governo lo nomina.
² La canzone di Addis Abeba – D’Alber, Malori (1936) – cantata da Enzo Fusco
Addis Abeba, conquista prodigiosa d’italian. Addis Abeba, che nessun potente a noi ci strapperà. Di quelle terre laggiù lontane, romanamente, oh regnerà. E’ un grande amor, Italia e libertà… Dall’alto del cavallo Menelik, in piazza grande nella capital, assiste alla partenza di Tafari, che sfila via coi cagnasmac(*) Compagno in fuga al negus Ras Destà, il re di Giuda ha fatto patatrac, e adesso splende già sull’altipian vicin il Tricolor dei prodi fanti e degli alpin. Addis Abeba, conquista prodigiosa d’italian. Addis Abeba, nessun potente a noi ti strapperà. In quelle terre non più lontane, romana legge or regnerà. E’ un grand’amor, d’Italia e libertà! Nel treno di Gibuti Selassiè si appisola appoggiato al finestrin, e in tormentoso sogno al negro appare la capitale in Tricolor. Arreso agli italiani Ras Sejum, devoto servo un dì del re dei re, e gli abissini in cor che intonano canzon da far scoppiare verdi di bile le sanzion. Addis Abeba, conquista prodigiosa d’italian. Addis Abeba, che nessun potente a noi ti strapperà. In quelle terre non più lontane, romana legge or regnerà. E’ un grand’ amor, d’talia e libertà… In quelle terre non più lontane, romana legge or regnerà. E’ un grand’amor, d’Italia e libertà! ()cagnasmac: i comandanti dell’ala destra dell’esercito abissino
³ Antico ballo etiope.

Olena regina d’Abissinia – 25

Faccetta nera, bell‘abissina,
aspetta e spera che già l’ora s’avvicina!
Quando saremo vicino a te,
noi ti daremo un’altra legge e un altro Re.

«Zigulì, per la miseria, spegni quel giradischi o te lo butto di sotto!»
Alcide Remigi, detto Memo in onore del cantante milanese di Innamorati a Milano, accostamento che non gli ha mai creato problemi finché quest’ultimo in tarda età non si è scoperto la pulsione a pizzicare le chiappe delle partner di show¹, sbotta insofferente.
«Ma lascialo stare» lo richiama Luisito, decisamente più tollerante. «Dormi, che la strada è ancora lunga»
Da Tendaho ad Adua infatti la distanza è di 625 chilometri, meno che tra Roma e Reggio Calabria, ma a causa dello stato delle strade e dell’oscurità il tempo di percorrenza è quasi del doppio, a meno di lavori dopo Salerno nel qual caso i tempi si possono equivalere. Il percorso attraversa tre delle undici regioni che compongono l’Etiopia, e si snoda su due delle strade costruite dagli italiani negli anni trenta, la Assab – Dessié, o “strada Imperiale della Dancalia“ che si interseca con la Addis Abeba – Asmara, quella che era chiamata “Via della Vittoria”.
«Ma almeno cambiasse musica, proprio questa deve mettere? Insomma, se la canta qualcuno in Italia lo piglio a cazzotti, e qua mi tocca sorbirmela e zitto, il mondo è proprio a rovescio come dice quel tale². Se ci vedesse qualcuno che figura ci faremmo? Compagni, vi ricordo che noi siamo terzomondisti, dobbiamo prendere le distanze da ogni forma di becero colonialismo razzista!»
«Uffa, come la fai lunga» cerca di calmarlo Luisito. «Ma chi vuoi che ci veda con questo buio, e se anche ci vedessero pazienza, tanto chi ci conosce? E poi, se vuoi saperlo, a me questa canzone mi concilia il sonno, e se non ci fossi tu a starnazzare starei già dormendo. Pensa che mia madre mi diceva che quando ero piccolo me la cantava sempre per farmi addormentare!»
«Adesso si capiscono tante cose» commenta Memo «La mia invece mi cantava l‘Internazionale»
«Non parlarmi di Internazionale» si rabbuia il vecchio leader degli Interisti per la Rivoluzione. Oggi c’era la partita di Champions, e io invece di stare in curva Nord sto qua seduto sul cassone di questo trabiccolo!

L’autocarro che scoppiettando li sta portando ad Adua, un vecchio Fiat 616 N3 del 1974, non si può certo considerare un modello di comodità, considerando oltretutto che i vecchi compagni, per non parlare dell’ascari, sono sistemati precariamente su delle panche appoggiate appunto sul cassone; questo ricorda loro quando partivano per andare alle manifestazioni sindacali, dove spesso si trovavano a darsele di santa ragione con i fascisti pagati dai padroni, magari dopo essere usciti dallo stadio ai tempi dei derby Inter – Milan in cui si affrontavano Sandrino Mazzola e Gianni Rivera ed essersele suonate di altrettanto santa ragione tra di loro. Che nostalgia! Ora non conoscono più nemmeno i giocatori delle proprie squadre, dato che cambiano in continuazione, ed in quanto ai fascisti se li ritrovano in tutti i gradi delle istituzioni con licenza perfino di alzare impunemente il braccio nel saluto romano. Gliene abbiamo date troppo poche quando era il momento, pensano con rimpianto.

Nei tre posti davanti, oltre ad Ambrogio che assolve il suo turno di guida, siedono Taitù, la giovane cameriera conosciuta in Italia e ritrovata in quel buco del mondo, così chiamata in onore della regina Taitù moglie di quel Menelik II che le suonò agli italiani alla fine dell’ottocento, e sua madre, la bella cuoca Mariam. Ambrogio, imbarazzato ma interessato, sonda il terreno con Taitù.
«Ehm, tu dicevi che sei tornata qua solo per le vacanze, giusto? E che finite quelle tornerai in Italia»
«Sì, esatto» risponde la ragazza «Mi manca poco per laurearmi, poi vedrò se tornare o rimanere in Italia, o magari andare da qualche altra parte…»
«Non hai mai pensato di portare tua madre in Italia? E‘ una brava cuoca, da noi sarebbe sicuramente apprezzata» afferma convinto.
«Veramente no, anche perché mia madre non ha mai espresso questo desiderio. L’hai vista, è una donna semplice, e anche se qua la vita è dura non ha mai pensato di lasciare l’Etiopia. Certo che se qualcuno o qualcosa gliene desse il motivo…» butta là allusiva, con un sorrisetto.
Intuìto che si sta parlando di lei, Mariam si ravvia i bei capelli neri, si avvicina alla figlia e le bisbiglia all’orecchio una domanda, che questa prontamente traduce.
«Mia madre chiede se le italiane sono buone cuoche, e quali sono i piatti che cucinano»
Ambrogio diventa rosso e tossicchiando cerca di rispondere alla domanda che percepisce come interessata:
«Sai, io non sono un grande esperto di cucina; sono cresciuto in una famiglia dove spesso si tirava la cinghia e mia madre si arrangiava con quello che c’era. In genere le donne erano addette alla casa, e per noi uomini la cucina era un po‘ un mistero. E‘ buffo che invece oggi sembrano diventati tutti chef, quasi che ai fornelli ci siano più uomini che donne! In quanto ai piatti, be‘, tu l’Italia hai imparato a conoscerla, non devo insegnarti molto, anche perché a Milano ci sono ristoranti di tutte le regioni… ma dì a tua mamma che la cucina italiana è molto diversa da nord a sud, da regione a regione, dal mare alla montagna. E poi le abitudini cambiano con il tempo, ad esempio tutti conoscono la pasta, la pizza, ma fino a qualche decina di anni fa nelle campagne del nord dove vivevamo noi non è che fossero così diffuse.»
«Ah no? E cosa si mangiava allora dalle tue parti?»
«Polenta! Tanta polenta, infatti quelli del sud ci chiamavano polentoni (e noi a loro terroni, ma non perché mangiavano la terra). A Milano era tipica la cassoëla, che sono costine di maiale con le cotiche, cucinate con le verze; o l’ossobuco alla milanese, accompagnato dal risotto con la midoëla, il midollo; o la busecca, cioè la trippa di manzo in brodo; per gli sciuri la bistecca alla milanese, che gli austriaci chiamano Wiener Schnitzel, cioè una fettina impanata. Poi adesso si mangia di tutto e di tutto il mondo, pensa che ci sono anche ristoranti etiopi» conclude ridendo.
«Sai che la polenta non l’ho mai mangiata? Magari quando torno a Milano mi inviti ad assaggiarla. Tua moglie deve farla buona, tu mi sembri un buongustaio» ipotizza Taitù, alludendo alle linee mordide di Ambrogio.
«Ti inviterò volentieri, però dovrai accontentarti della polenta che faccio io… non sono sposato» dichiara Ambrogio, evitando una buca nella carreggiata.
«Scusa, sono stata indiscreta, pensavo…» si giustifica la ragazza, indicando la fede che Ambrogio porta al dito.
«No, non c’è niente da scusarsi» la tranquillizza l’uomo. «Mi sono espresso male: sono stato sposato, ora non più»
«Mi dispiace» dichiara la ragazza, ancora più imbarazzata.
«Non devi dispiacerti» la rassicura Ambrogio «Non è morta, o almeno non che io sappia. Mi ha lasciato dopo due anni che eravamo sposati. Diceva che ero più interessato alla politica che a lei, e un bel momento è scappata con il capoturno. L’ho rivista solo davanti al giudice per le carte del divorzio»

Taitù fa un breve riassunto alla madre, che tiene tutto il tempo lo sguardo fisso su Ambrogio, che finge di non accorgersene. Taitù alla fine gli rivolge un’altra domanda:
«E come mai allora porti ancora la fede?»
Ambrogio si guarda l’anulare, scuotendo la testa.
«Per fortuna che non volevi essere indiscreta» dice ridendo. «E‘ per ricordarmi di non sposarmi più» risponde poi, ritornato serio. «Sempre che qualcuno o qualcosa non me ne dia il motivo… » conclude, fissando Mariam.

© Ravezzani/LaPresse14-04-1976 Milano, ItaliaCalcioDerby Inter-MilanNella foto: SANDRO MAZZOLA e GIANNI RIVERA.

¹ Il 21 ottobre 2022 l’attempato chansonnier, all’epoca ultraottantenne, nel corso della trasmissione Oggi è un altro giorno venne sorpreso a fare la mano morta alla dotata cantante Jessica Morlacchi. In questo paese che non premia l’intraprendenza, il gesto di apprezzamento venne stigmatizzato come molestia e causò il licenziamento del suo autore, nonché la condanna alla damnatio memoriae. E pensare che ben altri ultraottantenni milanesi prima di lui erano stati autori di ben altre molestie, e la gente aveva pure avuto il coraggio di votarli!
² Quel tale è un certo generale assurto agli onori delle cronache non per le battaglie combattute ma per aver scritto un libercolo pieno di banalità retrograde.L’Autore è sdegnato: scrive banalità da anni e nessuno se lo fila! Sarà perché è solo tenente?

Olena regina d’Abissinia – 24

Olena lancia uno sguardo fuori dal finestrino, un’ombra offusca il suo volto e l’angolo sinistro della sua splendida bocca si contrae impercettibilmente¹.

«Nell’aprile 1991 avevo 22 anni, e il grado di tenente. Il muro di Berlino era caduto da nemmeno due anni, ed io ne ero stata testimone da un osservatorio privilegiato, la sede del Kgb a Dresda², in Germania Est, dove prestavo servizio sotto un certo tenente colonnello Vladimir Putin»
«Un tipetto che in seguito avrebbe fatto parlare molto di sé…» ridacchia nonna Pina, sollevando il suo bicchiere di daiquiri.
«Non ero per niente contenta della piega che stavano prendendo gli eventi, e non ero certo l’unica» continua la russa, alla quale il commento ha strappato la parvenza di un sorriso. «Forse anche per questo, per tenermi lontana da Mosca, mi spedirono in Etiopia come consigliere militare. Per anni sovietici e cubani avevano supportato Menghistu nelle varie guerre contro gli eritrei, contro i somali, contro le province che periodicamente si ribellavano alle sue cosiddette riforme, ma ormai anche lì si era arrivati al capolinea. Dall’anno precedente gli aiuti erano stati in pratica sospesi, e sul posto era rimasta solo una manciata di persone, più che altro a protezione delle ambasciate. A seguito dell’ennesima siccità affrontata malamente, a febbraio l’Eritrea ed il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) si erano sollevate, e nonostante l’esercito etiope fosse sulla carta uno dei più potenti dell’Africa non era stato in grado di contrastarli efficacemente ed i ribelli si stavano avvicinando alla capitale.
Per evitare un inutile bagno di sangue, alcuni membri del governo chiesero la mediazione americana: questi fecero sapere che se Menghistu fosse andato volontariamente in esilio ci sarebbe stato un cessate il fuoco. Così Menghistu prese accordi con il suo vecchio amico Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, la ex Rhodesia, per garantirsi la fuga; il mio compito era quello di assicurare che non si verificassero intoppi nell’operazione. Ironico che una russa dovesse vigilare sull’accordo negoziato dagli americani… » riflette Olena, scuotendo leggermente il caschetto di capelli biondi.
«Per la sicurezza personale Menghistu si affidava agli uomini della Stasi, i servizi della Germania Est; fin dall’inizio della sua storia, pur avendo frequentato le accademie militari americane, era affascinato dall’organizzazione e dai metodi tedeschi, che ciecamente aveva cercato di replicare nel suo paese. La sua guardia del corpo era comandata da un capitano, un certo Ulf Vogel: se fosse nato qualche anno prima sarebbe stato sicuramente un nazista, ne aveva tutte le caratteristiche sia fisiche che mentali. Un sadico, un torturatore, una persona spregevole affiancato da ceffi come lui, come un certo Florin Antonescu, un rumeno viscido che si diceva fosse il suo amante. Ed inoltre, dato che la Stasi non esisteva più, Vogel ed i suoi amici lavoravano in proprio come mercenari, o contractor come si direbbe adesso. In pratica, non doveva rispondere a nessuno, se non a Menghistu»
«Una bella combriccola, non c’è che dire. Tedeschi, rumeni… i nostri alleati quando abbiamo provato ad invadervi nel ‘42, quelli che ci hanno lasciato nella merda sul Don» interviene ancora nonna Pina. Olena guarda con tenerezza la vegliarda, annuisce e continua.
«Quando la mattina della partenza mi recai nella caserma dove si rifugiava Menghistu vidi che qualcosa non andava. Le porte erano aperte ed in terra c’erano diversi cadaveri, alcuni erano uomini di Vogel, e c’erano degli etiopi con le divise del TPLF; immaginai che questi avessero tentato di rapire Menghistu, nonostante gli accordi, ed avessero sopraffatto gli uomini di Vogel. Personalmente la sorte di Menghistu mi era indifferente ma gli ordini sono ordini; quindi organizzai subito le ricerche, e grazie alla rete di spie che avevamo sul territorio i fuggitivi vennero individuati a pochi chilometri da Addis Abeba, nei pressi di un piccolo villaggio. Ci mettemmo in marcia con la compagnia di Jemal, e li raggiungemmo dopo un paio d’ore. Al riparo da un gruppo di rocce scrutammo il campo, ma non si vedevano altro che morti, sembrava che ci fosse stata una battaglia. Finché da un tucul non uscì Vogel, che si mise a parlare con un telefono satellitare. Ci scambiammo un’occhiata con Jemal, che mi fece segno di coprirlo, e poi uscì con le mani in alto. Vogel non sembrava affatto sorpreso, anzi sembrava quasi che ci aspettasse. Jemal disse loro che erano circondati, era inutile che facessero resistenza; gli offriva salva la vita, in cambio della liberazione di Menghistu. La risposta fu una risata beffarda, e poi Ulf si rivolse direttamente a me in tedesco, in modo che gli altri non capissero:
«Tenente Smirnova, che piacere. Avrebbe dovuto avvisarmi, le avrei preparato una accoglienza degna della sua bellezza. Mi stia a sentire, non ho tempo da perdere e verrò subito al sodo: Menghistu è finito, ma per qualcuno vale ancora molto. Conosce molti segreti, c’è chi è disposto a pagare per conoscerli ma c’è anche chi preferisce che tenga la bocca chiusa. Per me è solo una merce, da vendere a chi paga di più. Naturalmente c’è una parte anche per lei, noi non ci dimentichiamo degli amici»
«Io non sono sua amica» risposi a quel verme, in perfetto tedesco. «Per essere precisi, lei mi fa schifo. Piuttosto che lasciare Menghistu in mani sue lo ucciderò, spero questo le sia chiaro capitano. E poi ucciderò lei»
«Impressionante» disse Ulf, sinceramente sorpreso. «O lei è l’ultimo giapponese nella giungla, o è un’ingenua inguaribile. Non capisce che sta andando tutto a rotoli? Ideologie, lealtà, dovere… non valgono più niente. Soldi, solo i soldi hanno valore. Se li hai vali, se non li hai, sei una nullità»
«Una merda con i soldi rimane sempre una merda» tagliai corto. «Arrenditi o ti faccio sparare addosso dai miei uomini, finiamola con questa pagliacciata»
«Ti sbagli, tenente. I soldi fanno profumare anche la merda… mi piacerebbe molto soddisfare i tuoi desideri, ma lo senti questo rumore? Arrivano i nostri»
Così dicendo Ulf Vogel alzò lo sguardo al cielo, dove effettivamente si stava avvicinando un elicottero da assalto, equipaggiato con razzi e mitragliatrici pesanti.
«Non fare sciocchezze, tenente, e nessuno si farà male. Non ne vale la pena, per uno come questo» disse indicando Menghistu, bendato, che Florin stava portando fuori dalla capanna dove l’avevano rinchiuso.
Ulf impartì qualche ordine al telefono satellitare, e subito dall’elicottero partirono due razzi diretti verso le nostre posizioni, costringendoci a metterci al riparo. L’elicottero, coperto dal fuoco delle mitragliatrici, si avvicinò ed atterrò; i due cercavano di spingere dentro Menghistu, che opponeva resistenza; approfittando di quel momento mi misi a correre sparando verso i piloti. Ulf intanto era salito, e vidi chiaramente il sorrisetto con il quale spostò il mitragliere per spararmi contro, sorrisetto che gli si trasformò presto in una smorfia di dolore e rabbia quando il coltello che gli avevo lanciato gli si conficcò nella spalla. Di slancio salii a bordo; gli sfilai il coltello dalla spalla e lo piantai in gola al suo amichetto, poi abbrancai Menghistu, ci buttammo giù dall’abitacolo e cominciammo a correre; con la coda dell’occhio vidi Jemal gettare una granata dentro l’elicottero, e subito dopo l’esplosione. Non ho idea di come abbia fatto quel demonio di Vogel a salvarsi…
Tolsi il cappuccio a Menghistu, e rimanemmo a guardare l’elicottero bruciare.
«Compagna, mi hai salvato la vita» mi ringraziò l’ex presidente.
«Tenente, prego» gli risposi. «E mi auguro di non incontrarla mai più, “compagno”»

¹ Per facilitare la comprensione da parte del lettore, il racconto di Olena viene tradotto in italiano corretto.
² cfr. “Una birra per Olena”, 2020

Olena regina d’Abissinia – 22

Un silenzio colmo di minaccia segue la fine della telefonata. Luisito Lenìn, scosso, rientra nella sala da pranzo dove i compagni Attilio, Ambrogio e Memo si preparano alla dura giornata di lavoro che li attende consumando la colazione che Mariam ha preparato loro, con caffè, fit-fit e fatira¹.
Il metalmeccanico, leader degli Interisti per la Rivoluzione, si avvicina lentamente e si ferma a gambe divaricate davanti al capodelegazione Attilio Trozzo che lo guarda con apprensione. Luisito si china minacciosamente in avanti, poggia entrambe le mani sulla tavola e poi domanda, sillabando con cura:
«Si può sapere perché diavolo ci hai portato in culo al mondo quando potevamo andare a Cuba?»
I commensali, stupiti, si voltano verso Attilio che è visibilmente arrossito.
«Non so di che stai parlando» prova a discolparsi l’accusato, spostando all’indietro la sedia per preparasi alla fuga.
«Basta con le stronzate!» lo interrompe Luisito, sbattendo una manona sul tavolo, rumore che fa uscire dalla cucina le due donne, allarmate dal trambusto. Attilio si arrende, china la testa e fa cenno a Luisito di sedersi.

«Hai ragione, sono stato io ad insistere per venire qua. Ma avevo un motivo»
«Che motivo?» chiede Luisito, ormai certo di essere stato imbrogliato.
«Dovete avere un po’ di pazienza, devo fare un piccolo preambolo» chiede Trozzo.
«No, il preambolo no!» protesta Memo, fino a quel momento calmo. «Li conosciamo bene i tuoi preamboli. Qui non stiamo negoziando gli aumenti contrattuali! Vieni al punto o ti tiro questa in testa» lo minaccia, brandendo la cuccuma del caffè.
«E va bene… » cede Attilio, e inizia il suo racconto.
«Dovete sapere che mio nonno Arnaldo era del 1911. Nel 1935 la sua classe venne richiamata per l’Africa Orientale, per andare a far la guerra agli abissini. Era fidanzato con mia nonna e si sarebbero dovuti sposare entro pochi mesi; non fecero in tempo però, perché la chiamata arrivò prima e ad aprile dovette partire, ma si promisero che l’avrebbero fatto alla prima licenza. Mio nonno non era fascista, o almeno così mi raccontava mia nonna, ma non è che poteva scegliere se andare o non andare, e poi comunque a quei tempi, fascisti o no, il richiamo della Patria era sentito, il ricordo della Grande Guerra era ancora fresco… la propaganda lavorava bene: in Etiopia vigeva ancora la schiavitù, e naturalmente andavamo a liberare gli abissini; inoltre si trattava di vendicare l’ignominiosa sconfitta di Adua del 1896, dove il nostro esercito venne sconfitto, e dove morti, feriti e prigionieri furono spesso sottoposti a mutilazioni orribili. Si trattava di portare la civiltà, insomma… Doveva essere una passeggiata di salute, ma la guerra durò nove mesi, e anche se le perdite italiane furono irrisorie rispetto a quelle abissine, ci furono eccome. Mio nonno fu tra i primi caduti: una fucilata lo colpì mentre, con una compagnia di eritrei, stava dando l’assalto ad un fortino non lontano proprio da Adua, dove poi venne sepolto. Ma in patria, anche se non si era sposato, un ricordino l’aveva lasciato: mia nonna infatti, poche settimane dopo la partenza, scoprì di essere incinta. E, all’inizio dell’anno nuovo, nacque mia madre. Mia nonna sposò poi un vedovo, ed ebbero altri figli; mia madre seppe del suo vero padre solo da grande, e da allora ha sempre custodito in cuor suo il desiderio di venirlo a trovare per portare un fiore sulla sua tomba. Ma ormai ha quasi novant’anni, e la salute la sta lasciando, così quando ho sentito che c’era la possibilità di venire qua ho pensato che avrei potuto realizzare io il suo sogno. E c’ero quasi riuscito, se voi deficienti non vi foste azzuffati» conclude Attilio, amaro.
«Avresti potuto dircelo, però» lo rimprovera Memo, tirando sù col naso.
«Lo so, e vi chiedo scusa. Avevo paura di non essere capito, di essere accusato di sentimentalismo, di usare il sindacato per fini privati. Ve l’avrei detto, ma a poco a poco…»
«Sei proprio una testa di cazzo!» lo apostrofa Luisito, arrabbiato. «Ci stimi così poco? Non avremmo capito, secondo lui! Quando ti mettevi d’accordo con i padroni non capivamo e ti avremmo volentieri spaccato la faccia, ma questo che c’entra? Adesso puoi andartene a fare in culo tu e tuo nonno: noi ce ne andiamo, giusto compagni?»
Un silenzio imbarazzato accoglie la proposta di Lenìn. Mariam, alla quale la figlia ha tradotto la discussione, incrocia lo sguardo di Ambrogio. Il quale, immerso in quegli occhi neri, si schiarisce la voce, raddrizza le spalle e dichiara:
«Voi fate come vi pare, io rimango»
Dopo un attimo di stupore, anche Memo dice la sua:
«Se rimane Ambrogio, rimango anch’io»
Luisito guarda i suoi compagni dissociati, valutando se sia il caso di passare alle vie di fatto; toglie le mani dal tavolo, scuote la testa e infine, in ossequio al centralismo democratico, si adegua alla maggioranza.
«E va bene, a Cuba ci andremo un’altra volta. Se lo volete sapere, anche mio nonno era dell’11 ed è andato in Etiopia»
«Ah sì? Non ce l’avevi mai detto» osserva Memo.
«Certo, perché era un fascistone convinto! Sarebbe stato meglio che fosse rimasto qua lui al posto del nonno di Attilio, invece è tornato a casa, la pecora nera della famiglia!»
I compagni commentano divertiti l’abbinamento tra il nero del fascio e della pecora, anche se trovano illogico augurarsi la dipartita dell’avo, considerando che senza avo non ci sarebbe stato nemmeno Luisito.

«Adesso però che si fa?» chiede Memo, pratico.
Taitù, questo il nome della giovane cameriera, dopo aver confabulato con la madre va da Ambrogio e gli dice due paroline all’orecchio. Questi si alza in piedi e dichiara:
«Mariam ci presta il suo camioncino. Stasera all’imbrunire partiamo per Adua. Domande?»
«Una sola» interviene Memo, alzando l’indice.
«E lui? Mica possiamo portarcelo dietro» dice indicando il vecchio ascari che sventola la bandierina del regio esercito.
«Zigulì è dei nostri, viene con noi. E basta» conclude Ambrogio, chiudendo la discussione.

¹ Il fit-fit è un piatto che viene principalmente servito a colazione; è composto da tesmi (burro chiarificato speziato ) e a volte anche da berberé, nel qual caso è chiamato fir-fir. La fatira è un dolce fritto realizzato con farina e uova, e mangiato con il miele.

Olena regina d’Abissinia – 21

«Pronto?»
E’ una voce impastata di sonno e sigarette quella che risponde alla chiamata importuna. L’uomo guarda l’ora dalla sveglia poggiata sul comodino, soffocando una bestemmia. La donna con cui condivide il letto si gira tirando a sé le lenzuola, strappandogli un brivido che tra le altre cose gli raggrinza un accessorio già abbastanza raggrinzito di suo. Non avendo ottenuto replica, l’uomo la sollecita gentilmente.
«Si può sapere chi è che rompe i coglioni a quest’ora?»
La comunicazione, già disturbata da frequenti scariche, è resa ancora peggiore dal fatto che il chiamante sembra tenere qualcosa davanti alla bocca per attutire il rumore.
«Sono Lenìn» dice infine.
«Lenìn è morto» risponde l’uomo, segretario regionale del sindacato metalmeccanico, non sorpreso nel riconoscere la voce dell’antico compagno di militanza. «Luisito, ti pare questa l’ora di chiamare? Sono le cinque del mattino, io sono stato in riunione fino alle tre per rinnovare i vostri contratti, sono stanco morto e fra tre ore ho un’assemblea con i riders. Va bene che abbiamo condiviso mille battaglie, e non solo, ma non ti sembra di esagerare? E poi perché parli così piano, si svegliano i bambini?»
«Parlo piano per non farmi sentire dai compagni. E poi le conosco le tue riunioni: a proposito di condivisione, chi c’è lì con te, la Jolanda? Salutamela»
«Ma che Jolanda e Jolanda, sei fissato! Lo vuoi capire che io non c’entro niente con tua moglie?» mente, lanciando uno sguardo al fondoschiena nudo di Jolanda Meniconi, ex consorte di Luisito.
«Sì, come no. Ma lasciamo stare, acqua passata. Senti, te le dico fuori dai denti: io non ce la faccio più, trova il modo di farci tornare a casa o faccio uno sproposito!»
«Non capisco cosa avete da lamentarvi» si schermisce il segretario, che ha nel frattempo indossato una vestaglia rossa con la sigla RFSR e si è acceso una Camel puzzolentissima. «Siete in viaggio di perfezionamento, vi approcciate con realtà diverse, fate nuove conoscenze, amicizie, e tutto a sbafo. C’è chi pagherebbe per essere al posto vostro!»
«E che vengano, allora! Qui ci hanno deportati nel deserto, altro che conoscenze e amicizie!»
«Certo, e hanno pure ragione! » sbotta il segretario «Vi siete messi a difendere la patria offesa e ci mancava solo che vi metteste a cantare Faccetta Nera, da quello che mi hanno raccontato. Vi aspettavate una medaglia? Ma dov’è che avete la testa?»
«Quello è stato un incidente, un qui pro quo» minimizza Luisito. «Ma tu ora devi usare la tua influenza per portarci a casa. Tra l’altro è colpa tua se siamo finiti in questa situazione, perché diavolo ci hai mandato in Etiopia? Te l’avevo detto che volevo andare a Cuba!»
Il segretario fa un sospiro e alza gli occhi al cielo.
«Innanzitutto l’Etiopia è uno dei paesi emergenti dell’Africa, ha il doppio di abitanti dell’Italia, età media meno di diciotto anni, diciotto, t’he capii? E sono appena entrati nei BRICS che rappresentano il 47% della popolazione e il 36% del PIL mondiale. Quello è il nuovo mondo, caro mio, noi siamo decrepiti»
«Sarà pure come dici, ma qua non pare proprio di essere in questo Eldorado. Ti avviso, io prendo il primo aereo e torno a casa, me ne frego delle relazioni internazionali»
«Ignorante e irriconoscente!» lo rimprovera il dirigente «E comunque, se proprio vuoi saperlo, io vi avevo proposto per Cuba. E’ stato il vostro amico a insistere per essere mandato in Etiopia, mica potevo dirgli “no scusa Luisito preferisce andare a Cuba”!»

Un clic interrompe la comunicazione. Jolanda si gira, stiracchiandosi.
«Chi era?»
«Tuo marito»
«Il mio ex marito, prego. E che voleva, quel rompiscatole?»
«Andare a Cuba» risponde il segretario, togliendosi la vestaglia.
«Quando glielo chiedevo io mi portava a Cogoleto¹, quel cornuto» commenta Jolanda, con un filo di rimpianto.

¹ Amena località di mare ligure, dove dopo tre giorni di soggiorno non si vede l’ora di tornare in città.

Olena regina d’Abissinia – 20

Nel 1973 l’Etiopia dovette affrontare una terribile carestia. Non fu la prima, ne l’ultima: morirono decine di migliaia di persone, ma per la prima volta la catastrofe fece scalpore perché le immagini furono divulgate dalle televisioni del mondo intero mostrando l’arretratezza in cui versava il paese. Il Negus, che nel primo periodo di regno si era presentato come modernizzatore e aveva indubbiamente ottenuto dei successi sia interni che internazionali, ormai anziano si era rinchiuso nel suo mondo autocratico fatto di riti e lotte intestine tra notabili, ed era apparso sostanzialmente indifferente alla sorte del popolo, che pure lo venerava come una divinità. In questo contesto, che seguiva comunque anni in cui la ribellione covava specialmente tra studenti, intellettuali e militari, un gruppo di questi ultimi prese il potere e spodestò il Negus. Lo fece in modo sottile, prima isolandolo dal personale che gli era fedele, dignitari, ministri, militari, facendo anzi sembrare che le decisioni fossero prese da lui; forse furbescamente Hailé Selessié pensava così di allontanare da sé le colpe, forse pensava, come era successo altre volte, che la ribellione sarebbe rientrata e lui avrebbe potuto continuare a governare come aveva sempre fatto. Ma sbagliò i conti perché, una volta rimasto solo, i ribelli lo eliminarono fisicamente: troppo ingombrante, e una parte del popolo gli era ancora affezionata. La giunta militare che prese il potere si faceva chiamare Derg (“L’Unione”); ben presto tra i suoi membri emerse la figura di Menghistu Hailé Mariam, un giovane ufficiale che aveva avuto un addestramento negli Stati Uniti; e fu in fondo ironico, anche se il caso non fu unico nelle varie rivoluzioni di quegli anni, che proprio a contatto con la realtà statunitense maturò sentimenti anti-americani e si avvicinò al marxismo, tanto che una volta al potere fu aiutato e protetto dall’Unione Sovietica. La giunta instaurò un regime dittatoriale e repressivo che nei primi anni fece mezzo milione di vittime, di cui la maggior parte non erano reazionari o nostalgici ma simpatizzanti del cambiamento, spesso di idee socialiste, che avevano visto di buon occhio la cacciata del Negus e si aspettavano una svolta democratica: ma di fronte alla deriva autoritaria, visto che i militari con avevano nessuna intenzione di lasciare il potere ai civili, erano passati all’opposizione.

«Cari i miei pollastrelli, vi è andata bene che non giocavamo a soldi, sennò vi avrei spennato. La compagnia è bella, adesso però devo lasciarvi ma prima toglietemi una curiosità: in Italia ci siete poi venuti?»
Un sospiro di Solomon introduce la risposta alla domanda di nonna Pina.
«Vede, finché c’era il Negus le nostre famiglie, anche se con lavori modesti, vivevano decorosamente. Dopo la guerra noi eravamo già grandicelli; cominciammo a lavorare, poi ci toccò fare il servizio militare e al ritorno cominciammo a pensare di mettere su famiglia e fu così, ci sposammo a poche settimane uno dall’altro. Era la metà degli anni ’50, tutti speravamo che il futuro sarebbe stato roseo, le nostre famiglie crebbero, continuavamo a frequentarci ed i nostri figli stavano praticamente sempre insieme. Il sogno rimaneva sempre nel cassetto, ma capirà che le occupazioni quotidiane avevano la priorità. I figli crescevano, i più grandi frequentarono insieme le elementari, le medie, e poi arrivarono al liceo… li chiamavamo “i tre moschettieri”! Ad un certo punto però cominciarono ad essere insofferenti, scontenti, si misero in testa delle strane idee. Volevano cambiare il mondo, nientemeno! Non sopportavano le ingiustizie, le disuguaglianze, volevano la libertà… cominciammo a litigare per questo, il mondo era sempre stato così, che motivo c’era di cambiarlo? Finché una sera due poliziotti bussarono alla porta di casa, e ci dissero che c’era stata una manifestazione di protesta contro il governo in centro città, i poliziotti erano stati attaccati e c’erano stati dei feriti. Chiedemmo se era successo qualcosa ai nostri figli, e ci dissero che dovevamo scoprirlo da soli: ci portarono prima al campo sportivo, dove c’erano decine di cadaveri di ragazzi, quasi tutti colpiti alle spalle, e fortunatamente lì non c’erano; poi in ospedale, e infine in prigione. Loro erano lì, avviliti, pesti, feriti, erano stati picchiati con brutalità: il mio aveva un occhio nero e gli incisivi spezzati, quello di Omer aveva tre costole incrinate, e l’altro un braccio rotto. Ce li fecero portare a casa ma ci avvertirono di stare molto attenti perché stavolta era andata bene, ma se si fosse ripetuto non sarebbero stati così teneri. E avevano solo protestato! Ci sentimmo delusi, traditi, come era stato possibile che il nostro Negus avesse permesso questo? Sicuramente non ne era al corrente… Da quel momento la vita per noi si fece sempre più dura: i ragazzi furono espulsi dalla scuola, il lavoro per noi divenne sempre più difficile; ma i nostri figli non erano rassegnati, e sfidando i controlli ripresero la loro attività politica. Mia moglie ne fece una malattia, e poco dopo morì»
«Mi dispiace» dice nonna Pina, mettendo una mano su quella di Solomon.
«Quando il Derg depose il Negus» continua Solomon «si unirono ai rivoltosi, speravano in un vero cambiamento che desse al popolo il potere di decidere… ma ben presto si resero conto che se il sistema che era stato abbattuto era ingiusto, quello che l’aveva sostituito lo era altrettanto, e decisero di combatterlo. Non avevano lottato contro il Negus per trovarsene un altro! Si diedero alla lotta armata, per diverso tempo non sapemmo più niente di loro finché un giorno non ci arrivò la notizia che erano stati catturati dai militari e uccisi. Era il 1977, avevano poco più di venti anni… l’Etiopia ormai era diventata una prigione, uscire era praticamente impossibile, e per noi che eravamo schedati come “controrivoluzionari” ancora di più. Poi, quando Dio volle, ci fu anche la caduta di Menghistu, ma a quel punto noi non volevamo più andar via. Avevamo la nostra missione»
«Missione? Di che state parlando?» chiede nonna Pina, sorpresa dalla sguardo di Solomon diventato improvvisamente duro.
«Trovare quelli che avevano ucciso i nostri figli. E’ stato un lavoro lungo, si nascondevano bene quei sorci, qualcuno era già morto per conto suo, ma quelli rimasti li abbiamo sistemati tutti»
«Volete dire che… li avete uccisi? Voi, che nemmeno sapete giocare a scopa?» chiede incredula nonna Pina, sgranando gli occhi.
«Abbiamo fatto giustizia» dichiara Omer, rimasto fino a quel momento in silenzio, fissando la vecchia con orgoglio.
Nonna Pina scruta gli occhi neri dell’uomo, per cercarne nel fondo la verità. Infine scuote la testa.
«Sapete che vi dico? Se è una storia che raccontate per fare colpo sui turisti, è una bella storia. Se invece l’avete fatto davvero, avete fatto bene. E spero che abbiano sofferto»
Poi, indicando la sfilza di bottiglie di tella allineate sul tavolo, dice:
«Ci ho ripensato, tutto sommato tempo per un’altra partitina ce l’ho. Chi perde paga tutto, ok?»

Olena regina d’Abissinia – 18

Ad Addis Abeba, seduta al tavolino di un bar nella piazza della Cattedrale della Santissima Trinità che ospita le spoglie dell’ultimo imperatore d’Etiopia, nonna Pina sorseggia un bicchiere di tella fresca giocando a scopa¹ con tre frequentatori abituali ai quali si è aggregata prendendo il posto del morto col quale giocavano.
«Non pensavo che si giocasse a scopa anche qua» constata nonna Pina, calando un fante di bastoni.
«E’ una delle poche cose buone che ci hanno lasciato gli italiani» dichiara uno dei suoi avversari, un ultraottantenne piccolo e calvo, con degli occhialini rotondi appoggiati sulla punta del naso.
«Non dire stupidaggini, Solomon» lo rimbecca il compagno della vegliarda, coetaneo del provocatore ma alto, magro e con i corti capelli ricci e brizzolati. «Prima che arrivassero gli italiani in questa città non c’erano nemmeno le fogne! Se ce li fossimo tenuti oggi staremmo tutti molto meglio»
«Tu dici?» interviene il terzo, dubbioso. «Non mi pare che gli italiani stiano tanto meglio. A proposito, signora, i giornali sono pieni del funerale del vostro Negus², non vi sembra un po’ esagerato?» chiede con un sorrisetto l’altro avversario, un omone grande e grosso con una incongrua vocetta in falsetto. E’ ancora il compagno di nonna Pina che lo rimprovera:
«Omer, non fare il coglione come al solito. E lascia stare la politica, stiamo giocando a carte. Non ci faccia caso signora, è l’arteriosclerosi che parla» lo giustifica bonariamente.
«Amici, ho la scorza dura, ci vuole altro per offendermi!» ridacchia nonna Pina. «Lo so che state cercando di innervosirmi per farmi sbagliare. Come mai parlate così bene l’italiano? Se non ricordo male le scuole italiane in Etiopia hanno riaperto nel ’56 e voi ad occhio e croce a quell’epoca eravate un po’ grandicelli per le scuole elementari» constata la vecchia, che con una regina di spade spazzola un asso, un tre e un sei guadagnando una scopa.

I tre si guardano imbarazzati, poi è Solomon che si incarica di spiegare:
«Vede, signora, quando arrivarono gli italiani ad Addis Abeba noi eravamo bambini. Le nostre madri lavoravano nel palazzo del Governo, facevano le pulizie, aiutavano le cuoche in cucina. Loro non volevano che andassimo in giro per il palazzo perché correvano il rischio di essere licenziate, ma noi riuscivamo sempre a scappare e a nasconderci negli angolini più impensabili per non farci scoprire. Una sera il Viceré³ diede una grande festa, noi ci eravamo infilati in uno stanzino che era proprio sopra il salone e aveva una finestrella con una grata dove si poteva veder tutto senza essere visti. Rimanemmo a bocca aperta… tutte quelle persone elegantissime, tanti uomini in divisa che sfoggiavano le loro medaglie, signore in abiti lunghi piene di gioielli! Camerieri che passavano da un invitato all’altro sorreggendo vassoi d’argento con aperitivi e calici di vino… c’era una grande orchestra da ballo, i musicisti erano tutti vestiti di bianco e suonavano delle canzoni che non conoscevamo, poi ad un certo le luci si spensero e rimase acceso solo un faro, puntato sulla cantante che entrò scendendo la scalinata che portava ai piani alti… indossava un abito nero, luccicante, che la fasciava dal collo fino ai piedi e finiva con una lunga coda che la faceva assomigliare ad una sirena; i lunghi guanti le arrivavano ai gomiti, un sorriso smagliante su una bocca perfetta, con le labbra sottolineate da un rossetto rosso fuoco, sembrava un’apparizione…»
Nonna Pina si ferma, con un sorriso enigmatico sul volto, in attesa del seguito.
«Il Vicerè in persona le si avvicinò e le fece il baciamano, i musicisti si alzarono in piedi ed il direttore la presentò: “Signore e Signori, l’unica, superba, divina, Wanda del Rio!”» racconta Solomon, al quale una lacrima fa capolino dagli occhi appannati. «E che voce, signora! Entrava direttamente nell’anima, anche se non capivamo le parole. Fu allora che decidemmo di imparare la vostra lingua… il nostro sogno era quello di andare un giorno in Italia e dichiarare all’artista tutta la nostra ammirazione»

Un raschiare di gola interrompe la rievocazione.
«Devo correggervi, cari amici» interviene nonna Pina. «Quella non era “la cantante”. Era la stella. Ed aveva 22 anni… ero bella, non è vero?» chiede con una punta di civetteria.
«Voi siete Wanda del Rio?» chiede Solomon, incredulo. I tre si guardano, e scrutano confusi tra le rughe della vegliarda per trovare tracce degli antichi lineamenti.
«E’ difficile crederlo, non è vero?» li stuzzica nonna Pina. «Se volete posso cantare qualcosa per convincervi. Che volete sentire, Violino tzigano va bene?» e senza dar loro tempo di scegliere attacca, con la voce arrochita dall’età, ma ancora intonata:
Suona solo per me
O violino tzigano
Forse pensi anche tu
A un amore, laggiù
Sotto un cielo lontan
Se un segreto dolor
Fa tremar la tua mano
Questo tango d’amor
Fa tremare il mio cuor
Oh violino tzigano

I tre si guardano commossi, e riconoscono nella compagna di gioco la dea che aveva ispirato i loro sogni di bambini.
«E’ un grandissimo onore per noi conoscerla, signora del Rio» riesce solo a pronunciare Solomon, con le lacrime agli occhi.
«Siete proprio rimbambiti» li gela la vegliarda, ridacchiando. «Wanda del Rio è morta. E voi non sapete nemmeno giocare, guardate qua: carte, ori, primiera e settebello. Un’altra mano, pollastrelli?»

¹ Popolare gioco di carte. Lo dico solo a beneficio dei lettori internazionali.
² Gli sarebbe piaciuto. Se glielo avessero permesso sarebbe diventato presidente della Repubblica, o anche Papa. E’ comunque in lista per la beatificazione, e non è detto che un giorno ce lo ritroviamo santo, san Silvio da Arcore.
³ Rodolfo Graziani. E’ un po’ lungo riassumerne il curriculum vitae, se avete lo stomaco forte andate a leggervelo, è comunque istruttivo. Nel 2012 un comune in provincia di Roma ha pure avuto il coraggio di intitolargli un sacrario.

Olena regina d’Abissinia – 15

Il Gran Rift Africano è una profonda spaccatura della crosta terrestre, visibile perfino dallo spazio, che si estende per 6.440 chilometri dal Libano al Mozambico. L’Etiopia ne è attraversata da nord a sud, a partire dal Mar Rosso fino al lago Turkana, al confine con il Kenia; a nord la depressione assume la forma di un grande imbuto: è la regione della Dancalia, il cui territorio è posto in gran parte a più di cento metri sotto il livello del mare, dove le temperature del deserto possono diventare infernali tanto da raggiungere i 160° centigradi, quanto basta per cuocere un pollo senza bisogno di legna, ammesso di trovare un pollo che scorrazzi da quelle parti. Le uniche persone che ci vivono sono i pastori nomadi Afar, tribù poco amichevoli use a sbarazzarsi degli ospiti sgraditi uccidendoli ed evirandoli, non necessariamente nell’ordine indicato. E’ nel bel mezzo di questo paradiso terrestre, e precisamente nella cittadina di Tendaho, che quattro uomini di nostra conoscenza, per non parlare dell’ascaro¹, dopo una giornata di lavoro nei campi e stanchi di mangiare la sbobba della mensa dell’azienda agricola a cui sono stati aggregati si ritrovano nell’unico ristorante decente, o per meglio dire l’unico, della zona. Dopo essersi lavati le mani nel secchio appeso ad un palo nel retro del locale i nostri beniamini si siedono, piuttosto affamati, sperando di poter mettere sotto i denti qualcosa di decente. Luisito Lenìn, gravato da pensieri cupi, la testa incassata tra le spalle, gli occhi fissi sulle mani poggiate sulla tavola, sbotta.
«Compagni, non ce la faccio più. Io scappo e torno in Italia. Che vadano a farsi fottere le relazioni bilaterali, gli scambi culturali, l’amicizia tra i popoli. Ne ho le palle piene di sole, caldo e di zappare la terra. Era meglio mille volte la catena di montaggio!»
Gli amici annuiscono concordi ma è il capodelegazione, Attilio Trozzo, che si incarica di riportare i depressi terzomondisti sui giusti binari della dialettica democratica.
«E la solidarietà dove la metti?» chiede retoricamente Trozzo. «Stiamo toccando con mano le condizioni di lavoro di questi nostri compagni, di questi fratelli, esperienza che non avremmo certo potuto fare rimanendo con le chiappe al fresco nelle nostre officine dotate di ogni comfort»
«Parla per te» lo contraddice Memo. «Io sto in fonderia, altro che chiappe al fresco. E poi, insomma, ha ragione Luisito, mica c’è bisogno di mettere le mani nell’acqua bollente per sapere che ci si scotta! Questi qua mi sembrano imbambolati, devono darsi una mossa, mica possiamo venire noi dall’Italia a fargli la rivoluzione!»
«Sento puzza di reazione» proclama Attilio. «Ci stiamo imborghesendo? Potevate fare a meno di menare le mani al ricevimento, cosa vi aspettavate, che ci ringraziassero? Se a qualcuno» e ammicca ad Ambrogio Cantaluppi, seduto avvilito vicino al vecchio ascaro «non fosse venuto in mente di mettersi a difendere la patria, a quest’ora eravamo ad Addis Abeba. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso!»
«Ci avevano offeso, dovevamo fargliela passare liscia?» protesta Ambrogio, torcendosi le manone.
«Offeso, offeso! In fondo che ci avevano detto?» lo rintuzza Attilio.
«Ci avevano dato dei fascisti!» insorge Luisito, che ha ancora un occhio bordato di violetto dopo la scazzottata che li aveva portati là.
«E allora? Non avevano ragione forse? Basta guardare chi abbiamo al governo! Quando la capirete che prima di muovere le mani bisogna usare la testa?» li redarguisce Attilio, abituato alle maratone sindacali.

I vecchi delegati toccati sul vivo stanno per replicare, anche con argomenti contundenti, quando al loro tavolo si avvicina la cameriera, che arrivata a pochi passi punta loro la matita che utilizza per scrivere le ordinazioni.
«Ehi, ma io vi conosco!» li saluta la ragazza, e continua « Che ci fate da queste parti? Non pensavo che vi piacesse così tanto la cucina etiope!» conclude con una risata squillante.
«Ma è la cameriera del ristorante del Lazzaretto!» la riconosce per primo Memo, il più fisionomista.
«Sì, sono proprio io» conferma la ragazza. «Non mi aspettavo di trovarvi qua. Siete turisti? Devono avervi consigliato male, ci sono posti migliori da vedere nel mio paese…»
I quattro, ripresosi dallo stupore, recuperano parte della loro giovialità e salutano la cameriera come se fosse una vecchia amica:
«Lei piuttosto che ci fa qua, ha deciso di tornare in Etiopia?»
«Ah, ah, no grazie!» risponde la ragazza con un’altra risata. Sono venuta a trovare mia madre: questo locale è suo, anzi era di mia nonna, ma l’anno scorso è morta ed è rimasto a lei. E’ lei la cuoca. Che vi faccio preparare, signori? Direi injera e shirò², va bene? Vado ad avvisare la mamma che ci sono clienti speciali!» e senza dar loro il tempo di replicare corre in cucina, da dove ricompare pochi secondi dopo con una grande caraffa di tella³ e le posate.
«Scommetto che non avete ancora imparato a mangiare con le mani, vero?» e scompare di nuovo, sempre ridendo.

Dopo un paio di caraffe l’atmosfera si è notevolmente rasserenata, le ombre si sono dissipate e persino l’ambiente sembra meno duro di quel che è; all’arrivo poi del grande vassoio di doro wot che la cuoca ha preparato per loro, ritenuto più indicato del meno nutriente shirò, i nostri riacquistano la naturale bonomia e la joie de vivre che li contraddistingue. Perfino l’ascaro apprezza la libagione, e non manca di sottolinearlo sventolando ogni tanto la bandierina del regio esercito. Spazzolato tutto, e fatta la doverosa scarpetta con la injera, i quattro si appoggiano pesantemente alle spalliere delle sedie, mentre l’ascaro esce con il suo grammofono ed attacca una marcetta coloniale.
«Ci vorrebbe un bel caffè» dichiara Memo, satollo. Come se gli avesse letto nel pensiero, la ragazza arriva con una cuccuma fumante e la piazza in mezzo alla tavola, insieme alle tazzine.
«Non guardate male la caffettiera. Vi conosco voi italiani, pensate di essere capaci solo voi di fare il caffè. Lo sapevate che la civiltà del caffè ha avuto inizio proprio qui, in Etiopia? Per la precisione nella città di Harrar. Su, bevete prima che si raffreddi» esorta i sospettosi avventori. Che, dopo aver assaggiato la nera bevanda, non si fanno scrupolo di versarsene un’altra tazza, sotto gli occhi divertiti della cameriera.
«Vedo che avete apprezzato, sono contenta. Certo, i piatti qua sono un po’ diversi da quelli che avete provato a Milano…»
«Era tutto buonissimo signorina, faccia i complimenti alla cuoca» dice Memo, soddisfatto.
«Grazie, ma perché non glieli fate direttamente voi? Aspettate, la vado a chiamare»
«Ma no, non la disturbi, avrà da fare…» ma la ragazza non li ascolta, e corre sul retro.

Dopo qualche minuto la tenda che divide la sala dalla cucina si apre, ed il vociare dei vecchi compagni si interrompe. La donna che avanza verso di loro lentamente, alta, formosa, con lunghi capelli neri e labbra carnose, vestita di una semplice tunica bianca di cotone orlata di ricami dorati, sembra un’apparizione. La camminata quasi indolente, lo sguardo fiero, un sorriso orgoglioso che fa intravedere i denti bianchissimi; con le mani regge un vassoio su cui sono poggiati dei dolci e dei bicchierini di tej, l’idromele, che poggia delicatamente sulla tavola.
«Benvenuti» sussurra la donna in amarico, con un leggero inchino, ravviandosi una ciocca di capelli scesa a coprire gli occhi neri.
«Vi presento mia madre» dice la cameriera, con naturalezza. «Si chiama Mariam»
«Piacere, signora» saluta Attilio, a nome dei compagni. Mariam sorride, e poi si avvicina ad Ambrogio.
«Tu come ti chiami?» chiede la donna, sempre in amarico. E, come se avesse capito, il rude metalmeccanico, diventato rosso come un peperone, risponde:
«Mi sunt Ambroeus… cioè, io sarei Ambrogio. Per servirla, signora» balbetta il Cantaluppi, ormai perso nella profondità di quegli occhi neri.

¹ Chi non riconosce la citazione, peste lo colga.
² Lo shirò è un piatto tipico che consiste in una vellutata di ceci e berberè. Il berberé è un ingrediente chiave delle cucine eritrea ed etiope. E’ una miscela di spezie, la cui composizione è tradizionalmente: peperoncino, zenzero, chiodo di garofano, coriandolo, ruta comune, ajowan (cumino d’Etiopia) e può comparirvi anche il pepe lungo.
³ La tella è la bevanda alcolica tradizionale più comunemente consumata. Viene prodotta facendo fermentare luppolo, malto e vari cereali, tipicamente orzo, grano, teff, sorgo o mais.