Titì nun ce lassà

Nella commedia “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” del grande Ettore Scola, il cialtrone Titino interpretato da un maiuscolo Nino Manfredi, dopo essere diventato persino stregone del villaggio, in dubbio tra il ritorno alla civiltà e l’appello rivoltogli dai membri della sua tribù (“Titì nun ce lassà”) sceglie la libertà: sale sulla sponda della nave e si tuffa verso il suo villaggio.

Rivendico il diritto di cambiare idea! Lo dice persino il nostro attuale ministro del tesoro a proposito dei limiti all’utilizzo del denaro contante, fino a ieri considerato sterco del demonio ed ora elevato  a motore di sviluppo; che dopo aver costretto tutti i pensionati ad aprire un conto corrente, anche quelli che non ne avrebbero avuto la minima intenzione, togliendogli il passatempo preferito di far la fila alle poste, ora si affermi che chiunque abbia un gruzzoletto sotto al materasso  lo possa spendere senza temere controllo alcuno sia giusto e sacrosanto mi conforta un po’; nel senso che, se come livello di cialtronaggine massima alla quale potevo aspirare c’era quello del buon Titino, la nuova vetta ministeriale per quanti sforzi potrò fare mi sarà irraggiungibile.

Credo di non essere stato l’unico ragazzo, a fronte di qualche rampogna o di qualche rimprovero ritenuto eccessivo o immeritato, ad immaginare di togliersi di mezzo per il gusto di vedere poi la reazione dei congiunti rimasti. “Vengo anch’io, no tu no”, insomma; come il buon Jannacci, immaginare di essere al proprio funerale per vedere l’effetto che fa. Fortunatamente soppesati i pro e contro, dove in cima alla lista dei contro c’è il fatto di non essere proprio sicuri di poter assistere in prima fila alla cerimonia, si finisce quasi sempre per desistere dal proposito.

L’ora delle decisioni irrevocabili, comunque, nel mio caso è passata da un pezzo ; se ormai persino i Papi possono dimettersi come un qualsiasi impiegato dell’Anas, non c’è scandalo se un povero cantastorie scrive di non voler scrivere più, per poi smentirsi il giorno dopo scrivendo di essersi pentito di aver scritto di non voler scrivere più.

Del resto come si fa a restare rintanati nel proprio orticello quando vengono messi a repentaglio i pilastri stessi sui quali si basa la propria cultura? Come non levare una parola indignata e pietosa in difesa del prelibato ciauscolo (o ciavuscolo, o ciabuscolo, fate voi) minacciato di estinzione (Immagino un dialogo nei corridoi dell’Organizzazione mondiale della sanità. Due ricercatori si incontrano. -“Ciao Mike, tutto bene? Di che ti stai occupando ora?” -“Di Ebola” -“Grande! Che sfida! Bellissimo, siamo orgogliosi di voi!” -“Grazie John. E tu, di che ti occupi?” -“Io? Io… ehm..  di salami” -“Ah. Ciao, John”)? Come non preoccuparsi per la prossima apertura alle proteine degli insetti? A tal proposito non so bene quale sia la posizione dei vegani, che come saprete non sono esponenti di una razza aliena qua convenuti da una lontana galassia ma seguaci di una alimentazione esclusivamente vegetale; contenti loro, parafrasando il notoriamente tollerante presidente della Figc (non la federazione giovanile comunista, non c’è più: la federazione gioco calcio), anche se non credo che con tale dieta l’uomo avrebbe potuto raggiungere l’attuale livello evolutivo: molto probabilmente sarebbe rimasto a penzolare su delle liane sbucciando banane.

La mia posizione, pragmatica come al solito, è dunque simile a quella dello scrivano Bartleby : preferirei di no; a differenza di quello, tuttavia, in mancanza di meglio mi acconcerei probabilmente anche ad assaggiare larve, ma solo come estrema ratio.

Prevedo che, tra qualche anno, quando la nuova dieta proteica avrà preso piede, associazioni di ambientalisti si schiereranno contro gli allevamenti di larve; gruppi di animalisti apriranno le gabbie a nuvole di cavallette; allevatori bio protesteranno che i loro bacarozzi sono selezionati secondo le più severe regole Iso-9000.

Non credo che le rigide regole sanitarie odierne lo consentano ancora, ma ricordo con tenerezza quando, da piccolo, in casa nostra si faceva la “pista”. Non abitando in campagna, e non rientrando il maiale nel novero degli animali da compagnia, non era allevato da noi; una volta ammazzato, in modo meno misericordioso di quanto si faccia oggi, veniva tagliato in due e babbo ne portava a casa la metà, una “pacca”. Sul tavolo e credenza della cucina si allestivano gli strumenti, coltelli affilati, tritacarne; veniva in casa un esperto, il pistaiolo (lu pistarolu) che disossava la carcassa e sapeva quali pezzi usare per ciascun insaccato. Non mi dilungo sulle tecniche di macinatura, salatura e pepatura che ogni pistaiolo custodiva gelosamente: per queste dovrei rimandarvi al mio amico macellaio-sassofonista Walter ben più ferrato di me. Fatto sta che alla fine della magia il maiale era scomposto in pezzi che sarebbero bastati mesi e mesi. L’osso del prosciutto, ad esempio, lo si sarebbe ritrovato insieme ai fagioli (e alle cotiche nuove)  al capodanno successivo. Non ho idea del perché lo stesso insaccato abbia nomi diversi a seconda della locazione geografica: perché in un posto si chiami coppa quello che in un altro è lonza, ed in un posto soppressata quello che in un altro è coppa; so che sia io che i miei fratelli a ciauscolo, salame lardellato, coppa e lonza ci siamo diventati grandi; che se penso a casa penso a ciauscolo e mi mette tristezza pensare che, fosse pure tra cent’anni, a qualcuno pensando a casa possano venire in mente scarafoni e cavallette.

(70. boh vedremo)

Manfredi_Sordi