Referendum!

Domenica scorsa mi trovavo a Bellinzona, che per chi non lo sapesse è una bella cittadina della vicina Svizzera, capitale del Canton Ticino (quella parte di Svizzera dove si parla italiano, per quanto in modo buffo), per una gita culturale e ricreativa. Più che altro ero andato per mangiare i Rösti, cosa che non ho mancato di fare, innaffiati con una birra media costata 3fr. come si dovrebbe in tutti i paesi civili, in qualità di accompagnatore di un gruppo di balli dell’Ottocento (al momento sorvolerei su questa attività, se siete d’accordo).

Avremmo dovuto visitare, oltre al bel Castelgrande (così chiamato per distinguerlo dai due più piccoli, gli svizzeri sono molto precisi) anche alcune sale del municipio, ma purtroppo non è stato possibile perché vi erano stati allestiti i seggi del referendum. In Svizzera l’esercizio della democrazia diretta è uno dei pilastri istituzionali, e l’uso dei referendum sia locali che federali è frequente. A differenza che da noi, il referendum non è solo abrogativo (o confermativo nel caso di modifiche costituzionali) ma anche propositivo; non vi è nessun quorum da rispettare (la logica è: se non vai a votare vuol dire che ti sta bene quello che deciderà chi a votare ci va) e di solito il Parlamento si attiene a quanto stabilito dal referendum, perché gli svizzeri hanno la memoria meno corta della nostra e non amano troppo essere presi in giro.

Il quesito, che sintetizzo molto, era: volete che quando c’è un lavoro da fare, prima di darlo ad uno straniero, si verifichi se non ci sia un ticinese o al limite uno svizzero che possa farlo (e lo voglia fare)? Detta così, forse anche a causa delle incomprensioni linguistiche, in Italia è stato visto come un attacco ai frontalieri, cioè quei lavoratori che giornalmente fanno i pendolari dall’Italia alla Svizzera; è possibile che tra qualcuno dei promotori ci sia anche stata una motivazione xenofoba (ognuno ha i suoi leghisti) però secondo me ci sono delle ragioni che non vanno sottovalutate.

Avrete capito che, essendo curioso, di solito mi piace capire le ragioni anche di quelli con cui a prima vista non sono d’accordo: mettermi nei loro panni, insomma. Operazione che va fatta con giudizio: un mio amico ad esempio non solo si mette nei panni dell’altro, ma ci si immedesima talmente che è capace di dar ragione a tutti, a seconda dei panni che indossa. Camaleontico, diciamo: del resto, se si difetta di un proprio punto di vista, è facile assumere di volta in volta quello dell’interlocutore.

A bilanciare il mio amico esistono in natura tanti bastian contrari che portano la loro natura alle estreme conseguenze, contraddicendo persino se stessi: giungono addirittura a  coalizzarsi in partito per poter affermare, quando è la propria parte a governare, che le olimpiadi non ce le si può permettere,  mentre quando è all’opposizione e la stessa cosa la dicono gli altri si straccia le vesti indignato; oppure quando gli altri vorrebbero costruire ponti sugli stretti vi si oppone strenuamente, salvo sostenerne bellezza e utilità quando al governo c’è Lui. Io, da seguace del Fare e Disfare, mi schiero incondizionatamente sia per le olimpiadi che per il ponte. Anzi, fosse per me inaugurerei il ponte nell’anno delle olimpiadi, sarebbe un evento planetario che richiamerebbe folle da ogni dove, altro che passerella di Christò!

Tornando agli amici elvetici, le loro preoccupazioni sono di due ordini: il primo, di non avere disoccupati sul groppone. Sussidi, tasse che non si riscuotono, coperture da trovare per i servizi. Dovremmo pensarci anche noi, che sembra ci siamo rassegnati ad avere il 40% di disoccupazione giovanile; finché la mutua assistenza  la faranno i nonni potremo reggere, poi sarà grigia: a bonus di 80 euro non si va tanto avanti. Anche i giovani pur anestetizzati dagli smartphone prima o poi, come le formiche, si incazzeranno.

Sono solo un po’ perplesso quando si dice “i nostri giovani certi lavori non vogliono più farli”. Ma ne siamo sicuri? Io conosco giovani partiti per l’Australia a lavorare nelle farm, che non sono istituti di bellezza ma fattorie. La differenza tra il lavorare nei campi nei due emisferi non è da poco, anche se la zappa è uguale: là li pagano, dignitosamente, e spesso gli trovano l’alloggio. Io sono convinto che a condizioni decorose, che non siano quelle dei raccoglitori di pomodori di Rosarno, gente disposta a lavorare si troverebbe eccome. Oppure, se proprio non vogliamo che i nostri giovani si sporchino le mani, propongo un’altra soluzione: mandiamo prima in pensione la gente, con l’obbligo però di andare a raccogliere i pomodori, ed i giovani mettiamoli al loro posto.

L’altra preoccupazione riguarda la salvaguardia dei livelli salariali. In Svizzera gli stipendi sono mediamente più alti di quelli italiani, ma anche il costo della vita è più alto; un frontaliere, prendendo lo stipendio in Svizzera ma vivendo in Italia, è senza dubbio privilegiato ma non è questo che preoccupa i ticinesi. Quello che li preoccupa è che, poiché a volte i frontalieri si accontentano di guadagnare meno degli svizzeri, finiscano per far scendere anche i loro, di stipendi. Denunciano una sorta di concorrenza sleale, insomma; l’utilizzo dei frontalieri per operare un dumping salariale.

Noi non ci facciamo certo di questi problemi, il dumping l’abbiamo istituzionalizzato con il jobs act che, senza lavoro, è solo un modo per liberarsi da persone che costano un po’ di più per prenderne altre (finché ci sono sgravi fiscali) che costano un po’ di meno.

Insomma, quello che volevo dire è: abbiamo tanti di quei problemi nostri, non andiamo a fare i maestrini con gli svizzeri; ognuno si faccia i referendum suoi, che è meglio.

(108. continua)

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