Olena à Paris – 41

«Non mi sembra una buona idea, mister» dice l’uomo al telefono.
«A me sembra ottima, invece. Una riunione di lavoro fuori orario, senza impiegati e segretarie tra i piedi. Cosa potrebbe succedere? La donna è in mano nostra, i tuoi uomini saranno pronti qua fuori, ed abbiamo gli altri due ostaggi a Saint Sulpice. Cosa non ti quadra?»
«Lei sa benissimo che se anche la signora firmerà la vendita, senza testimoni e senza notaio potrà impugnarla in ogni momento. Senza contare che appena uscita di qui andrà direttamente a denunciarla»
«Per le, diciamo, formalità burocratiche, non devi preoccuparti, a quello penso io. Il resto invece è compito tuo…»
«Cioè?»
«La signora avrà un terribile incidente d’auto, tipo Lady Diana, hai presente? La colpa naturalmente sarà dell’autista ubriaco. Che sfortuna, la donna era depressa da tempo, provata dalla morte del marito, non sopportava più la responsabilità e proprio per questo aveva appena affidato l’azienda nella mani della Talnone, con cui aveva rapporti di stima reciproca. Proprio stasera aveva deciso di festeggiare insieme a mia moglie, una disgrazia…»
«Sua moglie? Questo le costerà di più, non era nei patti.»
«Ho mai fatto problemi di soldi? E non c’era nessun bisogno di ammazzare Calderon, sai bene che avrei pagato, come sempre»
«Giusto per essere sicuri, mister, giusto per essere sicuri. Proprio un bel film, non c’è che dire. Posso fare solo un piccolo appunto?»
«Appunto? Di che tipo?»
«Ha pensato anche alla parte per la contessa?» chiede Carlos, ironicamente.
«Ah, già, la tua amica… mi sembra che abbiate un vecchio conto in sospeso, dico bene? Sono fatti tuoi, l’unica cosa che ti chiedo è di non sporcare di sangue gli uffici, gentilmente. Ah, usate l’ascensore riservato per salire, non ci sono telecamere lì. Il codice è 15081944, la liberazione di Parigi, merde»

Per l’ultima puntata di Lacrime e Laterizio, i koala ed il piccolo Chico si sono agghindati e si sono muniti, con la complicità delle cuoche di Villa Rana, di una buona scorta di riso da tirare al televisore al momento della uscita dalla chiesa della coppia di sposi, e si preparano a lottare per aggiudicarsi il bouquet che la sposa, secondo tradizione, lancerà alle sue spalle. Miguel, che ai matrimoni si commuove sempre, tiene a portata di mano un pacchetto di Kleenex, e si rigira tra le dita l’anello che aveva regalato alla sua ex-fidanzata, il transessuale cubano Paio Pignola¹, e che questi gli aveva restituito insieme ad una congrua dose di schiaffi alla scoperta che l’innamorato aveva avuto un figlio dall’attrice di telenovelas Conchita, la donna barbuta. La quale, nelle vesti di Rosa, giovane ingenua sedotta dal gagliardo capomastro Ramon, accompagnata dal suono della marcia nuziale di Mendelsshon, percorre ora la navata centrale della basilica minore della Purissima Concezione di Maria di Monterrey, meglio nota come Virgen Chiquita, al braccio di suo padre, per raggiungere l’altare dove l’aspetta l’anziano Don Carlos, suo promesso sposo.
ROSA (tra sé) Madre de Dios, aiutami tu.
PADRE PINEDA Fratelli e sorelle, siamo qui riuniti per celebrare le nozze di questi due giovani… ehm, di questa giovane e questo… ehm, di questi due innamorati!
DON CARLOS (sottovoce) Come sei bella, Rosa, non vedo l’ora…
DONNA TERESA (al marito) Guarda come sta sbavando quel caprone. Se tua figlia ci sa fare, quello schiatta stanotte stessa. Volesse la Vergine Misericordiosa! (si fa il segno della croce)
PADRE PINEDA Volete voi, Don Carlos Almeyda y Azulgrana, prendere in sposa la qui presente Rosa Granjero, e promettete di amarla, onorarla e rispettarla, finché morte non vi separi?
DON CARLOS Lo voglio! (sottovoce a Rosa) Eccome, se lo voglio…
DONNA TERESA (tra sé) Spara le ultime cartucce, mummia, che tra poco sarò la madre della vedova Almeyda e Azulgrana…
PADRE PINEDA (accelerando) Volete voi, Rosa Granjero, prendere in sposo il qui presente Don Carlos eccetera eccetera, e promettete di amarlo onorarlo eccetera, finché morte non vi separi?
ROSA (si guarda intorno sgomenta)
PADRE PINEDA Figliola, hai capito la domanda? Vuoi tu eccetera eccetera? Non è difficile, su, che fa caldo e ci aspetta il rinfresco.
ROSA Ecco, padre, io…
DONNA TERESA (al marito) Che sta combinando quella disgraziata? Quant’è vero Dio, se fa la matta la ammazzo con le mie mani.
DON CARLOS Rosa, Rosetta, hai sentito quello che ti ha chiesto Padre Pineda? Capisco, sei emozionata, e chi non lo sarebbe nel diventare la nuova baronessa Almeyda y Azulgrana. Ora fai così, respira a fondo, e poi rispondi alla domanda.
ROSA Don Carlos, devo dirvi una cosa…
Mentre sulla faccia di Don Carlos si dipinge una smorfia di disappunto e Donna Teresa si alza in piedi pronta a balzare sulla figlia, dal sagrato arriva il rumore di una marmitta scoppiettante di una vecchia Gilera, seguito dal suono prolungato del clacson. Un sorriso illumina il volto di Rosa, con le due mani alza la gonna dell’abito da sposa, scalcia via le scarpette e corre scalza verso l’uscita.
DONNA TERESA Torna qua, assassina! Don Carlos, sposate me al posto suo! Chi se ne frega se sono sposata! Rosa! Rosa!!!
Ma Rosa è già uscita ed è arrivata alla moto; il guidatore scende, apre il cavalletto, si toglie il casco e rivolge alla mancata sposa un gran sorriso.
ROSA Cominciavo a pensare che non saresti venuta.
SUOR MATILDA Non mi partiva la moto, ho dovuto convincere le altre suore a spingere.
ROSA E adesso?
SUOR MATILDA E adesso baciami, scioccona.
Gli invitati, sulla scalinata della chiesa, restano basiti a guardare la scena; infine le due infilano i caschi e si preparano a partire, seguite dalle urla disperate di una madre dal cuore spezzato.
DONNA TERESA Rosa! Lesbicaccia, torna qua! Rosa! Io ti maledico!
E, prima di svenire, l’ultima cosa che vede della figlia è il dito medio alzato in segno di affettuoso saluto.

“Io ti maledico, io ti maledico!” urlano i koala, rincorrendosi con il dito medio alzato e lanciandosi pugni di riso mentre Miguel, intenerito dalla vista della madre di suo figlio che scappa con una suora, si soffia il naso rumorosamente.

Olena à Paris – 39

La cameriera, una bella ragazza bionda con qualche lentiggine sul viso, osserva i due clienti alzarsi e lasciare il tavolo in compagnia dei due pittori che li hanno avvicinati. Li segue con lo sguardo finché non li vede avvicinarsi ad un Suv nero; allora si slaccia il grembiule, scioglie i capelli e si avvia verso il retro del locale.
«Dove stai andando, Danielle? Non è il momento di fare pausa, c’è un sacco di gente, su, rimettiti il grembiule!» la richiama dalla cassa il titolare, Mario Piccolì, ex buttadentro del Sexodrome a Pigalle.
«I signori hanno dimenticato la ricevuta fiscale, vado a portargliela. Torno subito, intanto lei metta il grembiule, le dona» lo saluta la cameriera, lasciandolo interdetto.
«Danielle!» insiste Mario, uscendo dal locale, ma la ragazza ha già indossato tuta e casco ed è salita in sella alla Kawasaki Z900 parcheggiata nel cortile. Sfruttando le apparecchiature in dotazione alla moto Danielle effettua una chiamata vocale, a cui risponde subito una voce decisa:
«I corvi e gli avvoltoi?»
«Un mattino scompariranno¹» risponde Danielle alla parola d’ordine, e continua:
«Capitano, li hanno presi, come avevate previsto. Devo intercettarli? Sono solo in due, con la mia PSS² è uno scherzo»
«Hai ancora quella pistoletta? Quando ti deciderai a cambiarla?» la canzona il capitano. «No, limitati a seguirli, scopri dove li portano e tieni d’occhio chi entra e chi esce. Se siamo fortunati ci guideranno dove vogliamo»
«Agli ordini, capitano» chiude la ragazza.
«Vassilissa, quando la smetterai di chiamarmi capitano?» chiede il superiore.
«Mai, capitano. O preferite che vi chiami amore?» ribatte Vassilissa Kutnezova.
«No, continua pure a chiamarmi capitano» risponde Olena, con le labbra che si stirano in una specie di sorriso.

“Le Mantellate so’ delle suore
A Roma so’ soltanto celle scure
Una campana sona a tutte l’ore
Ma Cristo nun ce sta dentro a ‘ste mura³”

«Capo, posso sparargli? Sono tre ore che canta questa lagna, non ne posso più» chiede l’uomo in tuta mimetica, esasperato.
«Non dire stupidaggini, Esteban» risponde Carlos, in completo di lino chiaro, occhiali neri e panama in testa. «E soprattutto vedi di non fare fesserie. Quella donna è preziosa, hai capito? Preziosa. E se le succede qualcosa ne rispondi con la vita. Lasciala cantare quanto vuole, si stancherà, prima o poi»
In quel mentre il cellulare di Carlos vibra; questi ascolta la comunicazione e quindi, soddisfatto, si dirige verso la porta della cella dove è reclusa la Calva Tettuta.
«Signora, mi dispiace incomodarla, ma stanno arrivando altri ospiti, dovrete stringervi» comunica Carlos, ridacchiando.
«L’unica cosa che stringerò saranno le mie mani sul tuo collo, appena uscirò di qui, brutto pendaglio da forca!» urla Gilda, arrabbiata. «Fammi uscire di qui, ti ho detto! Tu non sai in che impicci ti sei ficcato, caro mio. Aspetta che il mio fidanzato lo venga a sapere, quello è un tronco d’uomo, ti spiezza in due! Si può sapere che diavolo volete, vi ho già detto che i soldi sono vincolati, non c’è trippa per gatti, nada, nisba! Tutt’al più posso farvi una fornitura di tortellini, se proprio ci tenete» concede la vedova Rana, trattativista.
«Tranquilla, signora, noi non vogliamo proprio niente. Ma vede, un nostro amico è convinto che lei abbia qualcosa che gli appartiene, personalmente sono convinto che si tratti di un malinteso, niente che non si possa aggiustare con un po’ di buona volontà, mi capisce signora?» insinua Carlos allusivo.
«Ma di che diavolo sta parlando? Si spieghi meglio, un malinteso, buona volontà, ma che intende, che cos’è questa roba che avrei preso al vostro amico? E soprattutto chi è questo gran cornuto che vi paga?» sbotta Gilda, indiavolata.
«Ogni cosa a suo tempo, signora, presto lo saprà. Ah, ecco, sono arrivati i suoi amici» annuncia Carlos, aprendo la porta, spingendo dentro i nuovi arrivati e richiudendola alle loro spalle.
«James!» grida Gilda, visibilmente sollevata. «Ce ne hai messo di tempo ad arrivare.»
«Desolato, signora, abbiamo saputo tardi del rapimento, altrimenti mi sarei affrettato. E’ stata trattata bene, signora? Se non sono inopportuno, trovo che il turbante in seta le stia d’incanto. Bouquet di Primavera, non è vero? Un classico sempre attuale, non lo pensi anche tu Serge? Ah, signora, permetta che le presenti Serge Mannoucharyan, un mio, ehm, caro amico»
«Enchanté, Madame» saluta Serge, esibendosi in un perfetto baciamano.
«Molto piacere Serge, James mi ha molto parlato della sua abilità con aste ed affini. Senta, lei che è del posto, pensa che ci lasceranno andare presto?»
«Aste e affini…» sibila Serge all’indirizzo di James che fa lo gnorri, prima di rispondere:
«Lo spero vivamente, signora, se c’è una cosa che ho imparato nel mio mestiere è che ogni cosa ha il suo giusto prezzo, bisognerà solo capire quale sarà il prezzo da pagare per la libertà…»

«Ci siamo, capitano, sono entrati in un palazzo in Rue de Rennes, vicino alla Place de Sant Sulpice» comunica Vassilissa, che ha fermato la moto sul marciapiedi opposto e finge di controllare il motore.
«Avvicinati e cerca di capire chi abita in quel palazzo» la invita Olena.
«Non c’è bisogno, capitano» risponde la giovane, sorridendo. «Lo vedo da qua, c’è una insegna in ottone bella lucida: Talnone Health and Care – Sede distaccata»
«Bingo» annuncia la russa «Aspettami lì, arrivo. Il giubbotto antiproiettile l’hai indossato? Non fa niente, ci penso io»

¹ dall’ultima strofa dell’Internazionale.
² pistola automatica in uso alle forze speciali russe.
³ “Le Mantellate”, scritta nel ’59 da Strehler/Carpi per Ornella Vanoni, di cui Gabriella Ferri incise nel ‘66 una grande versione.

Olena à Paris – 36

Un uomo che indossa un impermeabile nero con il bavero rialzato, occhiali da sole ed in testa un cappellino Bucket¹ esce dall’hotel Cauet e si guarda intorno circospetto. Si incammina nella direzione presa dalla donna che l’ha preceduto, estrae un cellulare e compone un numero. Pochi squilli, e risponde una voce autoritaria:
«Dimmi» ordina l’uomo, evidentemente in attesa della chiamata.
«Hanno iniziato a venderli. Da Cauet, un Caravaggio»
«Lo sapevo che non avrebbero resistito. Bene, tu sai cosa fare, non è vero?»
«Sì, lo so. Ma se dovessero sorgere, ehm, complicazioni?»
«Fatti tuoi. Cerca di essere… convincente.»

Olena, svoltato l’angolo con Rue de Provence, si avvia verso Rue Lafayette, godendosi il sole primaverile. Continua ancora qualche decina di metri, intenzionata a proseguire fino alla Grande Sinagoga, ma un pensiero la fa desistere e, visto un taxi in attesa, si avvicina e sale. Il tassista, un quarantenne marocchino, sfodera il suo sorriso migliore:
«Bonjour, Madame. Dove posso portarla?»
«Inizi a dirigersi verso l’Arco di Trionfo, poi le dirò» ordina Olena in perfetto francese, lanciando un’occhiata rapida al lunotto posteriore. Il tassista, notato il movimento, chiede:
«Qualche problema, signora? Se devo seminare qualcuno me lo dica, sarà un piacere fare un po’ di gimkana. »
«Non si preoccupi. Anzi, vada piano, che voglio godermi il panorama. Mi porti in Boulevard Lannes, al 40.»
«Boulevard Lannes? All’Ambasciata Russa? Qualche affare, madame?» chiede il tassista, interessato.
«Lei è molto curioso, monsieur. Troppo, si limiti a guidare. A proposito, mi dica…»
«Si, madame?»
«E’ assicurato per i danni causati da colpi di arma da fuoco?»

Gli occupanti del Suv Peuget 5008 nero con i finestrini oscurati si consultano.
«Ma dove sta andando? L’albergo è dall’altra parte della città» si chiede quello seduto accanto al guidatore.
«Lo scopriremo presto André, di certo a questa velocità non ci scappa» dice il pilota.
«Stai attento a non stargli troppo sotto, non farti scoprire» avverte il terzo, dal sedile posteriore.
«Tu pensa ai fatti tuoi, che io conosco il mio mestiere» risponde piccato il guidatore.
«Buoni, non mettetevi a litigare come al solito» invita il quarto, quello che sembra il capo. «Michel, te l’ho detto mille volte, le vostre faccende personali dovete risolverle fuori di qui, ok? E poi possibile che non ti sia ancora rassegnato? Tua moglie era una zoccola, Michel, ficcatelo in testa»
Michel incassa la testa nelle spalle e bofonchia un “fanculo” che non promette niente di buono.
«Quando avremo finito la missione faremo i conti» minaccia Michel.
«Ok, ok, farete i conti, ma adesso buono, va bene? Attento, Pierre, si stanno fermando»
«Ho visto» risponde l’autista «L’ambasciata russa? Capo, che storia è questa, non avremo problemi con i russi, vero? Quelli non scherzano…»
«Perché, io ti sembro uno che scherza? Non so che sia venuta a fare qua, magari è venuta a trovare l’amante. Ma dove sta andando?» si chiede l’uomo, vedendo Olena che, scesa dall’auto, congeda il tassista e si avvia a piedi verso il parco.
«Sta entrando nel Bois de Boulogne» constata Pierre. «Che facciamo? Lì non posso entrare in macchina.»
«Parcheggia e scendiamo, svelto» ordina il capo.

Olena, che regge con una mano il mazzo di fiori offerto da Serge e nell’altra la stola di ermellino, si addentra nel parco, dirigendosi verso il laghetto, al piccolo molo dove si affittano le barche per i turisti. Visto un piccolo boschetto alla sua destra, vi si infila.
«E adesso?» chiede Pierre.
«Magari le scappa la pipì» ipotizza Andrè.
«Andiamo a controllare» ordina il capo, ed i quattro si addentrano nel boschetto.
Fatto qualche passo, una voce beffarda li apostrofa:
«Possibile che non si possa avere un po’ di privacy? Non si può stare in pace nemmeno in un parco così grande. Capisco che voi finocchietti abbiate urgenza di fare sesso di gruppo tra di voi, ma siete pregati di cercarvi un altro posto, questo è già occupato»
«Sesso di che?» chiede Michel, poi intuendo la larvata allusione, reagisce: «Te lo do io il finocchio!» sbotta avanzando verso la donna che lo fronteggia con fiori e ermellino.
«Io non lo farei, se fossi in te» lo ammonisce Olena, mentre gli altri tre assistono divertiti.
«Perché, se no?» insiste con poco immaginazione Michel.
Olena fa un sospiro e si avvicina a Pierre. «Tieni questi, vuoi?» e senza dargli il tempo di rispondere gli mette in mano il mazzo di fiori, e subito dopo estrae dalla stola di ermellino un nunchaku².
«Oh cazzo» fa appena in tempo a dire Michel, prima che due colpi alle orecchie lo mettano fuori combattimento.
André si getta di istinto verso la russa, che lo schiva e lo atterra con uno sgambetto, e quando questi prova a rialzarsi gli rompe il naso con un colpo secco di bastone.
Pierre, rimasto paralizzato, non interviene, e quando Olena fa un passo verso di lui roteando il nunchaku, non trova di meglio che porgerle i fiori che lei gli aveva dato da reggere.
«Grazie» dice la russa, affibbiandogli una bastonata nelle parti basse.
Il capo, rimasto qualche passo indietro, scuote la testa, ed a sorpresa applaude.
«Bella performance» constata con ammirazione. «Ma dev’esserci un equivoco, signora»continua «noi non siamo qui per litigare» spiega allargando le braccia e mostrando le palme delle mani.
«Cosa volete, allora?» chiede Olena, ripiegando l’arma.
«Invitarla ad un rendez-vous, madame, c’è qualcuno che avrebbe piacere di incontrarla» .
«Un appuntamento? Ma che romantici. E chi sarebbe questo gentiluomo?»
«Uno a cui avete preso qualcosa che gli apparteneva. E che vuol proporvi uno scambio»
«Dite a questo signore che non so di cosa parla, e non sono interessata ad incontrarlo»
«Permettetemi di insistere» dice l’uomo, mentre il cellulare di Olena squilla. «Risponda pure signora, a volte una telefonata salva la vita» consiglia l’uomo, con un sorrisetto.

Olena stringe leggermente le palpebre, ed estrae lo smartphone, senza perder d’occhio gli uomini che ha davanti. Il numero che compare è sconosciuto, ma non la voce che parla:
«Come sta, capitano? Lo sapevo che non la avrebbero convinta»
«Carlos, ancora tu? Dovrò proprio decidermi ad ammazzarti»
«L’ultima volta che ci siamo visti c’è andata molto vicino, lo ammetto, ma per la prossima non ci conti»
«Taglia corto, Carlos, che vuoi?»
«Solo passarle una persona, capitano, magari questa sarà più persuasiva» ed in breve l’apparecchio, messo in vivavoce, trasmette una serie di improperie ed insulti:
«Vi ordino di liberarmi immediatamente! Chi siete, che volete? Non la passerete liscia, non sapete con chi avete a che fare, rimpiangerete amaramente di avermi sequestrato! Che volete, soldi? Idioti, è tutto vincolato, non avrete niente! Vi sguinzaglierò dietro tutti i cacciatori di teste del Borneo, vi farò tagliare le palle e le metterò nei miei ripieni! Siete ancora in tempo, lasciatemi andare e scorderemo tutto, non costringetemi ad usare le maniere forti! James, dove cavolo sei, quando servi non ci sei mai!»
«Signora…» sfugge ad Olena, stringendo la mascella.
«Natascia, sei tu? Grazie al cielo, adesso sono più tranquilla.» dice Gilda, giacché è lei la prigioniera, con un sospiro di sollievo «E mo’ so’ cazzi vostri, avete capito? Ve la siete voluta! Natascia mi raccomando, fagli tanto mal…» ma Carlos interrompe il fiume di invettive, e ripreso in mano il cellulare, chiede:
«Allora?»
Olena prende un respiro, e poi risponde con una voce tagliente come il ghiaccio:
«Ascoltami bene, Carlos. Se le torci un capello verrò a prenderti, fosse pure in capo al mondo, e allora dovrai implorarmi di ammazzarti. Pensaci.»

¹ Sarebbe un cappellino da pescatore ma Bucket fa molto più trendy.
² Arma contundente tradizionale formata da due bastoni uniti da una catena, usata in diverse arti marziali, tra cui il kung fu ed il jūjutsu.

Olena à Paris – 35

«Mesdames et Messieurs, quello che vi proponiamo oggi non è solo un capolavoro, un’opera d’arte inarrivabile, un pezzo di storia. No, signori, qui ci troviamo di fronte ad un evento magico, un vero e proprio miracolo: un’opera data per dispersa, svanita nelle temperie della guerra, riappare per merito di un benefattore che preferisce restare anonimo, la cui famiglia l’ha salvata rocambolescamente dalla distruzione ed ora, dopo più di settant’anni, la rivela a intenditori come voi che ne sanno apprezzare il valore e sono ansiosi di goderne la bellezza.»
Serge Mannoucharyan, dopo questa premessa enfatica, beve un piccolo sorso di Evian e osserva attentamente la sala riservata dove sono convenuti una ventina di collezionisti, selezionati rigorosamente. Controlla con la coda dell’occhio che gli addetti alla sicurezza siano posizionati nei punti strategici e, con un cenno del capo, fa segno al commesso di togliere il drappo che copre il quadro. Un silenzio carico di attesa accompagna lo svelamento, silenzio subito rotto da un brusìo misto di stupore e perplessità.
«Signori, signori!» richiama la platea alla calma il banditore. «Comprendo la vostra meraviglia, noi stessi quando l’opera ci è stata proposta siamo stati restii a considerarla. La fama della nostra casa è quella di rigore e competenza, ne converrete signori, dato che siete tutti nostri affezionati clienti» e qui Serge fa una pausa, ed un sorriso ai cenni di assenso che si levano dagli astanti.
«Abbiamo fatto esaminare l’opera dai migliori esperti, potete visionare voi stessi le perizie» dice Mannoucharyan brandendo un fascio di documenti «e tutti hanno assicurato che si tratta di un’opera originale ed in ottimo stato di conservazione. François , per favore, faccia girare» invita il commesso, che prontamente esegue. Serge, ignorando l’occhiata languida scoccatagli dal collaboratore, continua:
«Domande, signori?»
Un uomo corpulento, che il banditore riconosce immediatamente per un mercante di antichità, si alza in piedi e chiede, con una sottile vena sarcastica:
«Immagino non sia possibile conoscere il nome di questo, ehm, benefattore?»
«Come dicevo, monsieur Bergeron, il venditore ha richiesto la massima riservatezza» risponde Serge, con un’espressione di rammarico sul volto.
«Si può sapere almeno se questo signore ha intenzione di mettere in vendita altri pezzi? Potremmo essere interessati ad uno stock…» dichiara un allampanato sessantenne, direttore di un museo privato.
«Questo non possiamo escluderlo» risponde il banditore «ma al momento nemmeno confermarlo. Naturalmente, dovesse accadere, sarete i primi ad esserne informati» conclude l’armeno.
Quindi, constatato che il pubblico è ormai in trepida attesa, inizia:
«Signore e signori, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio dipinse questo ritratto di donna, o meglio Ritratto di Cortigiana, a Roma nel 1597 e dunque sono passati più di 420 anni ma notate l’attualità di quella luce oserei dire cinematografica, lo sguardo con cui il soggetto, Fillide Melandroni, ci fissa, distante eppure provocante; sembra chiedersi chi sarà degno di conquistarla… per quest’opera, uno degli ultimi ritratti dipinti dall’artista e forse l’unico di donna, la base d’asta è di un milione di euro. Faites vos offres¹» invita Serge, impugnando il martelletto. La platea, all’udire la cifra, è percorsa da un brivido di eccitazione.
«Un milione e mezzo» annuncia Serge, notando la paletta alzata da Bergeron.
«Un milione e seicento» rilancia Laurent Clèvenot, architetto.
«Due milioni» offre il direttore di museo.
«Tre milioni» è l’offerta di Jean Paul Brizard, banchiere.
«Dieci miliuoni»
Tutte le teste si voltano verso la voce femminile che ha scandito le parole. La donna, seduta nell’ultima fila vicino al suo segretario con la paletta alzata, rivolge un sorrisetto beffardo agli altri partecipanti.
«Vogliamo fare sul serio o qvi voi giuocare? Noi non abbiamo tempo da perdere» li provoca.
I concorrenti si guardano intorno, chiaramente impreparati a raggiungere la soglia e tantomeno superarla: chi tossicchia, chi si guarda le scarpe, chi consulta l’orologio. Serge controlla che non ci siano rilanci, attende qualche secondo ed infine conclude:
«Non ci sono altre offerte, signori? Et un, et deux, et trois, aggiudicato alla contessa Żubrówka Kasprowicza. Complimenti, Madame » e, con uno schiocco di dita, fa apparire un valletto che consegna alla contessa un mazzo di fiori.

«Accetti questo piccolo omaggio della casa, Madame. Vengono da Sanremo, in Italia» spiega Serge.
«Grazie, Monsieur, li adoro. Sanremo è bella città, molta allegria, tutti cantano dalle finestre, anche se per me ricordo muolto triste» confessa la contessa.
«Davvero, signora? Ne sono desolato, se vuole glieli faccio cambiare. François?»
Ma prima che il commesso si muova, la contessa lo ferma con un cenno imperioso della mano.
«No, lasciate, lasciate. Sono fiori stupendi. E’ ricordo di mio povero terzo marito, morto così, in viaggio di nozze, che mi commuove»
«Le mie condoglianze, madame. E’ stata una disgrazia, un incidente?» si informa Serge, partecipe.
«Da, voi detto bene, uno incidente. Lui tradito me con cameriera, e dopo inciampato e volato da finestra.» poi, cambiando tono e discorso:
«Christofer, sistema tu qvestioni burocratiche, vuoi? Arrivederci, signori» e, alzatasi, sistema sulle spalle la stola d’ermellino e incede maestosamente verso l’uscita.

¹ Fate le vostre offerte

Olena à Paris – 34

Sì, noi siam le signorine
Delle sere parigine
Lolò, Dodò, Jujù, Cloclò, Margò, Frufrù..
E moi!¹

E, finalmente, possiamo ripartire dall’inizio…

«James, mi spieghi che stai combinando?»
Christopher, l’azzimato segretario della contessa polacca Agnieszka Żubrówka Kasprowicza, controlla con lo sguardo che nessuno si affacci nello stretto corridoio che sta percorrendo, si avvicina all’uomo che lo precede, il banditore d’aste Serge Manoucharyan, sorride e gli si rivolge rivelando una passata confidenza.
«Ti trovo bene, Serge, non perdi mai il tuo charme. Mi è venuta la pelle d’oca quando hai battuto quel quadro, detto tra noi una vera crosta, et un, et deux, et trois, che ricordi. Perché ci siamo lasciati? Eravamo una coppia così affiatata.»
«Non dire scemenze, James, mi hai messo le corna persino con Astolphe l’imbianchino, quel cinghiale col culo basso, altro che affiatati» risponde l’armeno, acido.
«E’ stato un momento di debolezza, chéri, tu eri sempre in giro con le tue aste… e lui a suo modo era un artista del pennello. Un grande pennello, in effetti» confessa James, con un filo di rimpianto.
Serge si irrigidisce ed un lampo assassino gli balena negli occhi. Poi lentamente la mascella si rilassa e le labbra si stirano in un sorriso che si trasforma presto in una risata.
«Ah, ah, sei sempre un gran salaud², lo sai vero? »
«Si fa quel che si può» concede James, con un lieve inchino.
«Andiamo a mangiare un boccone, vuoi? Così mi racconti tutto. Sushi? Ce n’è uno ottimo qua vicino»
«Perché no, ho il pomeriggio libero» annuisce il segretario-maggiordomo. «Però ho un’idea migliore del sushi. E’ ancora aperto Au Pied de Cochon?»
«In Rue Coquilliére? Come ai vecchi tempi, eh? Ma certo, ci mancherebbe, chiamo subito un’auto» propone Serge, estraendo dalla tasca interna della giacca uno smartphone con cover in madreperla.
«No, lascia stare» lo blocca James. «Facciamo due passi, è una giornata così bella, approfittiamo…»

Varcato il portone dell’hotel che ospita la casa d’aste la contessa Kasprowicza, altera, lancia un sguardo frettoloso verso entrambe le direzioni del marciapiedi per individuare la più vicina fermata dei taxi ma, al momento di avviarsi, qualcosa le fa cambiare idea e si avvia a piedi verso il vicino Museo Grévin, il museo delle cere dove sono esposte statue di figure storiche e celebrità francesi e non solo, come ad esempio i presidenti Putin e Trump: la statua di quest’ultimo però a causa della pessima abitudine dei visitatori di scattarsi dei selfie infilandogli le dita nel naso è stata ritirata per sottoporla a restauri. Pagato il biglietto e attraversata la Sala degli Specchi, la contessa percorre sale e corridoi fino ad arrivare nella stanza dove Charlotte Corday uccide Marat per l’eternità, e rimane assorta in contemplazione. Alle sue spalle si materializza una figura che si avvicina silenziosamente e si ferma poco dietro di lei.
«Sapeva che la vasca da bagno è originale? La acquistò Grevin in persona per dare fama al suo museo» dice il nuovo arrivato, palesando così la sua presenza.
«L’amico del popolo…» risponde la contessa, persa in un suo pensiero. «Idealista o assassino, o entrambi? Le rivoluzioni non si fanno a metà, non è vero?» si chiede retoricamente, prima di volgersi verso l’interlocutore.
«Vassilissa, puntuale come sempre, complimenti. Non sapevo fossi anche guida turistica»
«Ho sempre avuto la passione della storia, capitano»
«Hai sempre avuto molte passioni, in effetti» conferma Olena, avvicinandosi per baciarla.

James e Serge, seduti ad un tavolo dell’Au Pied du Chocon, si dividono un plateau de coquillages discutendo amabilmente.
«James, sei impazzito? Così mi metti nei guai. Non posso mettere all’asta quadri di cui non si conosce la provenienza, la polizia mi farebbe chiudere!» protesta il banditore.
«Ma certo che si conosce la provenienza» lo rassicura James. «Sono tutti della collezione Żubrówka Kasprowicza, la contessa garantisce personalmente»
«Ma quale contessa, sappiamo entrambi che non esiste nessuna contessa, e sai che ti dico? Se tanto mi da tanto anche i quadri saranno fasulli, e io non mi rovino certo la reputazione per vendere dei…»
Mentre l’uomo protesta, James prende da una tasca interna dell’impermeabile un cilindro di pelle, lo apre e ne estrae un rotolo di tela che allunga verso il commensale.
«E questo che sarebbe?» chiede Serge, svolgendo la tela che si rivela essere un dipinto di medie dimensioni. L’armeno rimane paralizzato per qualche secondo, poi finalmente recupera la favella e ancora incredulo chiede:
«Ma non è possibile… Ritratto di cortigiana di Caravaggio? Ma è andato bruciato nell’incendio della Flakturm Friedrichshain di Berlino, appena dopo la fine della guerra, deve essere per forza una copia! Ben fatta, peraltro…» ammette Serge, continuando a rigirarsi la tela tra le mani.
«Te la lascio» lo ferma James «falla esaminare da chi vuoi, con discrezione mi raccomando. E ti consiglio di chiudere la bocca, non vorrei ci sbavassi sopra. Ah, Serge?» dice James, alzandosi per pagare.
«Si?»
«Se la perdi o la rovini la contessa ti uccide. E non dico tanto per dire»

¹ Can-Can Grisettes, dalla Vedova Allegra di Franz Lehar, su libretto di Victor León e Leo Stein (1905).
² Figlio di buona donna, o giù di lì.

Olena à Paris – 25

All’ultimo piano della Tour Bifidus, a La Defénce, nell’ufficio di Jean Biscuit squilla il telefono. L’uomo, impegnato in un proficuo scambio di opinioni e fluidi con la stagista Chantal, pigia il bottone per prendere la linea ed alza spazientito la cornetta.
«Che c’è, Geneviéve?» chiede con malagrazia alla stagionata segretaria «Ti avevo detto di non disturbarmi per nessun motivo, mi pare»
«Mi perdoni dottore ma ha chiamato il direttore Calderon, da Buenos Aires, era molto agitato e chiede di essere richiamato urgentemente. Ah, dottore, sua moglie sta venendo da lei» chiude Geneviève, con una smorfia maliziosa.
«Che cosa, mia moglie?» si allarma Biscuit. «Su, svelta, allacciati la camicetta» ordina alla giovane.
«Non mi hai lasciato segni di rossetto, eh? Su, dammi una mano a sistemare la cravatta… ma che diamine vorrà mia moglie, non si fa mai vedere da queste parti!»
Jean fa appena in tempo a sistemare la camicia e sedersi sulla poltrona presidenziale che la porta si apre ed entra una donna magra sulla quarantina, curata ma un po’ sciupata, con uno splendido tailleur Christian Dior.

«Antonietta, mia cara, ma che sorpresa!» dice Biscuit, alzandosi e andando incontro a sua moglie. «Come mai da queste parti, sei venuta per fare shopping?»
«No, niente shopping, caro» dice Antonietta avvicinando appena la guancia a quella del marito «Hai cambiato dopobarba, caro? » chiede con nonchalance, sentendo un profumo inatteso. «No, avevo una riunione con padre Jacques per i festeggiamenti del patrono, e mi sono detta “perché non passare a trovare Jean, lavora così tanto ed abbiamo così poche occasioni di incontrarci”… ti dispiace caro? Oh, ma non mi presenti la signorina?» chiede la signora Talnone prima di dargli il tempo di rispondere.
«Chi? Ah, lei… lei è qui per uno stage, vero signorina… signorina?» si incespica Biscuit.
«Chantal Aubreil, molto piacere signora» si presenta la ragazza porgendo la mano ad Antonietta, che la tiene tra la sua un attimo più del dovuto, guardando il marito.
«Lei è molto giovane, Chantal, sono sicura che qui potrà fare parecchia esperienza, del resto è evidente che lei è molto… volenterosa» la incoraggia con un filo di sarcasmo Antonietta, fissandola.
«Grazie signora, farò del mio meglio»
«Oh, su questo non ho dubbi, Chantal. Sono sicura che mio marito potrà darle dei consigli molto utili per la sua carriera futura»
«Bè, sai com’è cara,» bofonchia Jean «il tempo è quello che è, non ho certo molto tempo da dedicare agli stagisti, devono saper cogliere al volo quello che si fa in questo posto, affari, strategie…»
«Su, Jean, non fare l’orso. Sono sicuro che qualche minuto per la signorina potrai trovarlo»
«Che devo dirti? Mi sforzerò, ma non prometto niente»
«Ecco, bravo, fai uno sforzo» dice Antonietta, in un tono che fa correre un brivido alla schiena del marito, che si affretta a cambiare discorso:
«E come sta il nostro bravo padre Jacques? Sempre intento a pascolare le sue pecorelle?»
«Padre Jacques è molto impegnato anche lui in questo periodo» risponde Antonietta fingendo di non aver colto l’accento ironico del marito. «I bisognosi aumentano sempre, c’è la mensa, l’accoglienza per i senzatetto… per fortuna c’è tanta gente di buona volontà ad aiutarlo»
«Come te, mia cara… bene, posso offrirti qualcosa prima di andare, un thè, un caffè? Chantal, potresti…» dice Jean, con l’intento di congedarla.
«No, grazie, caro, sono a posto, non preoccuparti. Ah, non dimenticarti che stasera siamo invitati dai Renaud»
«I Renaud? Mi ero completamente dimenticato. Ma dobbiamo proprio andare, cara? Sono terribilmente noiosi, e io avrei parecchio da fare…»
«Jean, i Renaud sono nostri amici e soprattutto hanno un bel pacchetto di azioni della nostra società. Quindi fai questo sacrificio caro, so quanto il lavoro ti impegni, ma cerca di esserci, puntuale alle otto» poi si volta senza dargli il tempo di ribattere e si rivolge alla stagista:
«Arrivederci, signorina» e, avvicinandosi per stringerle la mano, le dice di sfuggita:
«Complimenti, ha un buon busto per il profumo. Eau d’Hadrien, vero? Ottima scelta» e senza dire altro lascia l’ufficio.

Jean Biscuit rimane a fissare la porta, pensieroso.
«Zietto, secondo me tua moglie sospetta qualcosa»
«Sospetta? Ma cosa vuoi che sospetti, quella ha la testa piena solo di opere pie e ricevimenti, l’hai sentita no? Bisognosi, carità… tutte sanguisughe. E anche se sospettasse, che potrebbe fare? Sono io che mando avanti la baracca, qua. E ti ho detto mille volte di non chiamarmi zietto»
Innervosito, prende in mano la cornetta e chiama la sua segretaria.
«Geneviève?»
«Signore?» risponde solerte la segretaria.
«Chiamami Calderon»
«Subito, signore» e dopo pochi secondi Biscuit ha in linea una voce concitata.

«Monsieur Biscuit, c’è stato un pasticcio…»
«Pasticcio? Che pasticcio?»
«Ehm, ecco… agli uomini è scappata un po’ la mano…»
«Scappata la mano? Ma che avete combinato, incapaci?»
«Una delle due donne è morta, monsieur»
«Che cosa, morta? Ma santo Dio, dovevate solo sorvegliarle! E l’altra? Avete ammazzato anche l’altra?»
«No, monsieur, al contrario. L’altra ha fatto fuori parecchi dei nostri e ora ha in mano il deposito»
Jean Biscuit sente girare per un attimo la testa e si siede, incredulo.
«Avete perso il deposito? Siete degli idioti! Assolda altri uomini, recuperalo, o sei un uomo morto!»
Una voce diversa da quella di Calderon risponde a Biscuit:
«Señor, il vostro direttore è già un uomo morto. Ordinategli di pagare il mio onorario»
«Che cosa? Onorario?» strilla Jean «E avete anche la faccia tosta di parlare di onorario, vi siete fatti soffiare il deposito da due donne, anzi da una sola, perdio! Potete andare a farvi fottere voi e l’onorario!»
«E’ la vostra ultima parola, señor?» chiede Carlos, glaciale.
«Certo che è la mia ultima parola! E dì a quel deficiente di Calderon che se non riprende il deposito io…» ma la frase è interrotta dal rumore attutito di uno sparo, e di una testa che batte violentemente sul tavolo.

Olena à Paris – 20

Antonietta Talnone, proprietaria di un impero agroalimentare sparso per il mondo con un fatturato annuo di 25 miliardi di euro, ereditato a seguito della prematura scomparsa del padre Gil, precipitato con l’elicottero personale insieme alla sua seconda moglie Josephine, passeggia nel soggiorno del grande appartamento in Place Vendôme dalle cui finestre si può ammirare la colonna eretta alla gloria di Napoleone, sfogliando l’album di foto che custodisce i suoi ricordi più cari. Si rivede bambina d’estate, nella fattoria del nonno a Vannes, in Bretagna, con le mani ai fianchi fissare la macchina da presa, orgogliosa delle sue treccine; a Natale di due anni dopo, un po’ goffa con dei buffi occhialini rotondi da miope, nella nuova casa a Nantes, dove il padre aveva aperto la prima latteria e dove ogni tanto, finiti i compiti, andava ad aiutare i genitori al banco; e ormai adolescente abbracciata ai cugini Léon e Jean con alle spalle la Tour Eiffel, in quella Parigi dove il padre aveva deciso di trasferire la famiglia per seguire da vicino gli affari che si ingrandivano sempre più, tra forniture ai militari ottenute grazie ai buoni uffici di uno zio colonnello, invio di latte condensato alle ex colonie in Africa (anche quando i destinatari non avevano l’acqua potabile per scioglierlo) e acquisizioni di aziende concorrenti, con le buone o le cattive; a diciassette anni, in una foto di gruppo con uno sguardo spaesato e un po’ triste, con indosso la divisa del collegio St.Honoré dove il padre l’aveva mandata a completare gli studi, dopo la morte della madre. Thérèse, sua madre, così dolce, così semplice, così capace di intuire i suoi pensieri, i suoi momenti bui, di abbracciarla e consolarla nei momenti di sconforto ma che i propri, di malesseri, di donna sradicata dal suo paese e dai suoi affetti per seguire un uomo che aveva amato ma che ormai era ossessionato dal successo, dagli affari, dai soldi, e che la tradiva con ogni donna che gli attraversasse la strada, non li aveva lasciati trapelare a nessuno…

L’aveva trovata di ritorno da scuola, distesa sul letto, sul comodino un tubetto vuoto di Fenobarbital che non seppero mai come si fosse procurata, in mano una fotografia di loro tre sorridenti a Vannes, ed un biglietto di poche righe indirizzato a lei: “Non era questo che sognavo per noi. Perdonami, Antonietta, se ti ho fatto soffrire”.

Ripensa al periodo passato in collegio, tra compagne che la ignoravano, ricambiate, e a quegli studi in economia e finanza a cui l’aveva costretta suo padre mentre a lei sarebbe piaciuto diventare una allevatrice, o a un meccanico; al nuovo matrimonio di suo padre con quella che era stata la sua segretaria e con la quale aveva una tresca da tempo; al suo girovagare per il mondo inaugurando opere caritatevoli che servivano al padre a pulirsi la coscienza, detraendole per di più dalle tasse, e che sarebbero durate lo spazio di un mattino. Va verso la scrivania, apre il cassetto e accarezza la chiave inglese con la quale aiutava il nonno a smontare il motore del vecchio trattore poi si avvicina allo specchio, e vede una donna di quarant’anni, anonima, troppo magra, con i capelli neri raccolti in uno chignon tra cui cominciano a farsi largo fili di grigio; guarda le rughe che si stanno formando agli angoli della bocca, gli occhiali spessi, vede abiti firmati che pendono su un corpo che sta sfiorendo senza aver mai veramente vissuto. Si tocca il ventre, pensando a quel figlio che non è venuto, e da quanto tempo suo marito non la tocca più.
Ritorna alla scrivania, solleva la foto incorniciata, il suo matrimonio con Jean Biscuit: il primo uomo che le avesse fatto davvero  la corte, che la faceva sentire importante, che la faceva ridere… vede il suo sorriso quasi timoroso, incredulo, al contrario di quello di lui, aperto, spavaldo…
Ripensa alla telefonata con Gilda, la sua amica italiana, così esuberante, così determinata, così piena di vita, come le piacerebbe essere come lei… Chantal, e prima Emily, e Nicole, e quante ancora? “Era questo che sognavo per noi?” si chiede Antonietta.

Rimane qualche secondo appoggiata alla scrivania con la testa china, poi si raddrizza e toglie gli occhiali. Ritorna davanti allo specchio, scioglie i capelli, fa scorrere la zip del vestito e rimane in mutandine, e resta a guardarsi strizzando leggermente gli occhi per mettersi a fuoco. Sfiora il piccolo seno rimasto uguale a quando aveva diciassette anni, poi va verso la finestra e rivolta verso la colonna di Napoleone prende la sua decisione.

«Si tu penses à me baiser, tu as vraiment tort, enfoiré¹»

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¹ Se pensi di fottermi ti sbagli di grosso, figlio di puttana.

Olena à Paris – 1

«Centomila e uno, centomila e due, centomila e tre: aggiudicato alla contessa Agnieszka Żubrówka Kasprowicza!»
Nella sala grande della casa d’aste Cauet, in Rue de Richelieu a Parigi, il banditore, un quarantenne abbronzato franco-armeno non molto alto, leggermente stempiato ma con delle folte sopracciglia, rivolge un sorriso smagliante alla donna che dopo una serie di rilanci si è aggiudicata il famoso quadro Primo maggio con fava e pecorino del pittore naïf Ardito Centini meglio conosciuto come Centinì dagli appassionati d’arte francesi che l’hanno adottato,

La contessa si alza, sollevando nella sala un brusio di ammirazione: statuaria e algida, capelli corti neri a caschetto sui quali è poggiata una coroncina tempestata di perle, un lungo abito violetto che ne mette in risalto le forme, una stola di ermellino sulle spalle nude e le braccia inguainate da lunghi guanti in seta, incede verso il banco seguita dal suo accompagnatore, un bell’uomo di qualche anno più giovane, capelli e barba scuri ben curati, elegante in un completo scuro Girifalchi su cui spiccano cravatta e pochette in seta con motivi di sardine argentate, visibilmente orgoglioso degli stivaletti che calza, realizzati a mano nel laboratorio artigiano Graziano Cucchiaroni a Montecosaro, MC.

«Congratulazioni contessa, un pezzo davvero raro: sono in pochi a possedere un Centinì del 1924…» la accoglie Serge Manoucharyan, il banditore, accompagnando il complimento con un lieve inchino della testa ed uno sguardo interessato verso la borsa in pelle della Cuoieria Fiorentina retta dall’accompagnatore.
«Oui, io so, grazie» risponde la contessa in un delizioso misto di francese e russo, allungando con degnazione la mano verso Serge che esegue un impeccabile baciamani.
«Posso chiederle, contessa, se avremo il piacere di averla con noi anche nei prossimi giorni? Sarebbe per me un privilegio mostrarle il resto della collezione…»
«Non credo, monsieur, io deve tornare subito in mio castello in Puolonia, affari urgenti. Ma voi mostrate pure vostra cuollezione a mio segretario, lui molto esperto» dice la contessa, sollevando appena l’angolo sinistro del labbro in qualcosa di simile ad un sorrisetto ironico, volgendosi poi verso l’uomo dietro di lei:
«Christopher, chérie?»
«Contessa?» risponde compìto il segretario.
«Sistema qvestioni amministrative, vuoi? Io prenderò taxi»
«Naturalmente, contessa. Ma non vuole attendere qualche minuto? La accompagno…»
«Non c’è bisogno, io conosce strada. Au revoir, messieurs» e, portando alle labbra il lungo bocchino di giada, si avvia verso l’uscita lasciando soli i due.

Manoucharyan segue incantato con lo sguardo l’ondeggiare sensuale della contessa finché questa non varca la porta girevole che la separa dal tiepido pomeriggio primaverile, poi si ricompone e si rivolge all’accompagnatore:
«Se vuol seguirmi, monsieur… ehm… Christopher, prego, faccio strada»
A metà del corridoio il banditore si guarda intorno per controllare che non ci sia nessuno, si ferma, si volta verso il segretario e, puntandogli contro un dito, gli chiede:

«James, mi spieghi che stai combinando?»

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Mi ha chiamato l’altro giorno proponendosi per la parte di James. C’è qualche volontaria per fargli un provino?

 

Grave ma non gravissimo!

Per un attimo lunedì sera, mentre il telegiornale continuava e ripetere in loop le immagini della guglia della Cattedrale di Nostra Signora di Parigi che crollava, ho pensato a quello che sarebbe successo da noi se fosse andata a fuoco, Dio non voglia, la cupola del Duomo di Milano.
Innanzitutto avremmo avuto il nostro ministro dell’Interno in prima fila, vestito da vigile del fuoco, a coordinare i soccorsi; poi, in ossequio ai tweet di Trump, sarebbe intervenuta una squadra di Canadair che avrebbe così finito di distruggere quello che il fuoco aveva risparmiato; infine si sarebbe scatenata la caccia ai responsabili e, seppure lontani, i sospetti si sarebbero appuntati sulla sindaca di Roma Raggi e sul predecessore Ignazio Marino.
Che bello un paese dove quando c’è un terremoto tutti diventano sismologi, quando c’è un disastro aereo tutti ingegneri aeronautici, quando c’è un’eruzione tutti vulcanologi e quando c’è un incendio tutti pompieri!
E qualcuno osa dire che la scuola in Italia non funziona, quando ad ogni momento sforna brigate di ingegni eclettici!

A dire il vero di incendi abbiamo una discreta esperienza, se si pensi a quelli del Teatro La Fenice di Venezia e del Teatro Petruzzelli di Bari: entrambi dolosi, il primo a cura di due elettricisti in ritardo coi lavori spaventati dalla penale da pagare, ed il secondo di cui si sono scoperti solo gli esecutori e non i mandanti. Saranno stati annoiati? Come dichiararono qualche tempo fa quei ragazzi mostri che diedero fuoco ad un barbone.

Mi ha confortato l’autorevole parere di Vittorio Sgarbi, che il conduttore non ha avuto il coraggio di smentire per non incorrere nell’accusa di capritudine, che in sostanza ha detto che il danno è grave ma non gravissimo: la cupola si ricostruirà, così come era già stato fatto nell’Ottocento, e di opere d’arte non ce n’erano rimaste moltissime, come del resto sa chi ha avuto modo di visitare di persona la cattedrale.

L’ultimo ricordo che ho di Notre Dame in realtà è un non ricordo: non sono riuscito ad entrare perché per una serie di disguidi avevamo dovuto portarci dietro il cane (che ha quindi avuto la fortuna di visitare Parigi prima di molti umani) il quale, non essendo battezzato, in chiesa non era ammesso: ingiustizia secondo me perché tra quella torma di turisti che giornalmente la infesta c’è sicuramente gente molto meno meritevole, ma tant’è. Quindi mi sono limitato a passeggiare davanti all’ingresso, dandomi un certo tono, aspettando che i miei accompagnatori completassero la visita, sperando a dire la verità che qualche francesina venisse ad accarezzare le orecchie al simpatico cagnolino ma questo non è accaduto.

Di seguito poi abbiamo avuto il nonsense dell’edizione straordinaria del TG per discutere sul niente. Si fa davvero fatica a capire certe scelte editoriali: abbiamo la guerra a due passi e quasi ce ne fottiamo, brucia una chiesa, pur importante e simbolica, e ci si imbastiscono ore di parole a vuoto. Se il fiume di retorica si fosse potuto dirigere sulla cattedrale, altro che canadair! Le fiamme si sarebbero spente in un attimo. Era molto meglio la replica di Montalbano in programma, cancellata per dar spazio a questi professionisti del bla bla: e poi mi chiedo: ma com’è possibile che le telecamere della Rai non ci fossero? Le riprese erano da telefonini di privati o dalla Tv francese: ma che accidente di fine hanno fatto i nostri soldi? Ora per di più che il canone si paga in bolletta elettrica, e dunque anche le entrate sono aumentate, in quale buco nero finiscono? Grillini, mi rivolgo a voi dato che siete molto attenti agli scontrini, specialmente se degli altri: com’è possibile che quando eravamo poveri avevamo sedi in tutti il mondo, e adesso gli inviati parlano da delle terrazze che potrebbero essere benissimo su un capannone di Saxa Rubra?

Mi unisco comunque al generale cordoglio, così come a quello degli juventini che hanno perso per l’ennesima volta la Coppa dei Campioni, e formulo un augurio: amici francesi, ce la farete veramente in cinque anni a ricostruirla? Perché poi per me comincerebbe ad essere un po’ tardino. Non porterò più il cane, prometto!

Switzerland v France: Group E - 2014 FIFA World Cup Brazil

Parigi, o cara

Sono stato a Parigi per la prima volta in viaggio di nozze. Non da solo, ci tengo a precisarlo. Siamo andati in treno, in un comodo vagone letto che partiva la sera da Milano Centrale ed arrivava a Parigi l’indomani mattina. Avevamo una piccola cabina con un letto a castello: il loculo era arredato con un piccolo lavandino che in basso aveva un armadietto contenente un orinale, per evitare in caso di necessità di doversi recare nei servizi comuni. Non ricordo se entrambi i letti furono utilizzati o ci accucciammo in uno solo, propenderei per la seconda ipotesi. Era la prima volta che andavamo all’estero (se non contiamo la Svizzera); non prendemmo l’aereo prima di tutto perché non avevamo tutta questa fretta di arrivare, e poi perché volare metteva ancora soggezione: i voli erano meno frequenti di ora ed  abbastanza cari; i low-cost non erano ancora stati inventati, e tutto sommato avere una aderenza con il terreno dava più affidamento. Si partiva con un mucchietto di franchi che ci si era premurati di prenotare in banca, altrimenti si portavano i travel cheque che erano degli assegni validi per l’estero che venivano poi cambiati sul posto, pagando una commissione. Ci avevano sconsigliato di partire con le lire, che venivano disprezzate dai transalpini: un franco valeva circa 220 lire.

L’agenzia di viaggi (non c’era ancora la possibilità di prenotare voli e alberghi on-line) ci piazzò in un bellissimo albergo, il Mercure, sotto la collina di Montmartre, a due passi dal quartiere a luci rosse di Pigalle. Lì vicino c’era anche il famoso cabaret Moulin Rouge, dove decidemmo di immolare il ricavato del taglio della cravatta per passare una serata indimenticabile, cenando ed assistendo al fantasmagorico spettacolo “Formidable”: non eravamo certo abituati a quegli ambienti sfavillanti  e ricordo che entrammo sentendoci un po’ in soggezione, timorosi di essere fuori posto e di dire o fare qualcosa di sbagliato. Passai la serata guardando con un occhio i seni delle ballerine e con l’altro mia moglie incantata (e incantevole).

In quei dieci giorni abbiamo girato Parigi in lungo e in largo; quasi sempre a piedi, le distanze non ci facevano paura, ma sempre certi di poter contare nei mezzi pubblici, capillari ed efficienti come dalle nostre parti era utopia sperare di trovare. Il Louvre, la Torre Eiffel (dove mangiammo la soupe à l’oignon: era quello che potevamo permetterci…), Les Invalides e la tomba di Napoleone, le Champs Elysées e l’Arco di Trionfo… la Senna e i Bateaux- Mouches…

Siamo tornati a Parigi altre tre volte, provando sempre l’emozione ed il piacere particolare di girare per questa grande città davvero cosmopolita; l’ultima volta fummo colpiti da alcune famiglie che passeggiavano lungo gli Champs Elysées: uomini barbuti davanti e  donne, coperte da capo a piedi dal burka, dietro. Discutemmo un po’ della cosa, perché l’argomento era di attualità: bisognava tollerarlo? Ci dicemmo, non troppo convinti, che fosse una forma di rispetto di scelte personali, anche se in fondo rimaneva il timore che sotto quel burka potesse esserci chiunque e con qualunque intenzione.

Venerdì 13 novembre la giornata era iniziata male. Dopo un chilometro di camminata per raggiungere la stazione, mi sono accorto di aver lasciato la giacca a casa, con portafoglio e tesserina del treno. Finalmente arrivato al lavoro, verso l’ora di pranzo mi raggiunge una chiamata di mia moglie, che piangente mi informa che dei ladri sono penetrati in casa ed hanno rubato quel poco oro superstite da un precedente furto: ricordi di fidanzamento, di anniversari, di matrimonio… anche gli orecchini che indossava quella sera al Moulin Rouge, ci hanno rubato.

La sera, dopo la visita in caserma per l’inutile denuncia, ancora rintronati per l’arrabbiatura e lo sdegno e poco inclini a provare empatia per il prossimo, apprendiamo dell’eccidio  di Parigi. Bestiale e insensato come quello della redazione di Charlie Hebdo dello scorso gennaio, anche se per quello si erano alzati dei ditini quasi a giustificare i criminali: eh, certo, con quello che scrivevano se lo sono cercato…

Si, è vero, confesso, non sono mai stato in Kenia, o in Nigeria, e nemmeno in Russia se è per quello, e di questi paesi non ho nessun ricordo personale ne ho portato a casa alcun souvenir. Della Russia a dire la verità ho una matrioska che mi regalò una collega, che la visitò quando San Pietroburgo era ancora Leningrado.

Può darsi che questo influenzi la mia sensibilità; può darsi che senta i morti di Parigi più “miei” di quelli keniani, nigeriani o russi, così come la perdita di persone care è più dolorosa di quella di conoscenti. Può darsi semplicemente che gli orrori siano così tanti che è impossibile farsi carico di tutti.

Siamo limitati, dopotutto.

(73. continua)

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