Andare a scuola, un secolo fa, era un po’ diverso da oggi. Il passaggio dalle elementari alle medie era molto sentito perché innanzitutto si dismetteva il grembiule nero che ci aveva accompagnato per cinque anni; nonostante il sollievo provato, sono un sostenitore accanito del grembiule per i bambini delle elementari. Non c’è sfoggio di magliette firmate o vergogna per dei capi troppo lisi: un grembiulino nero per tutti, e via andare. Noto con rammarico che, nelle scuole dove ancora se ne fa uso, è stato abolito il fiocco.
Poi perché si passava dalle classi monosesso alle classi miste, cosa che per ragazzini in pieno travaglio ormonale era un bello shock. Sapete, allora andavano di moda le minigonne, e c’era già abbastanza carne scoperta: a nessuno sarebbe venuto in mente di andare a scuola con dei pantaloni bucati, se non per disattenzione. Anche i jeans, adesso che ci penso, non erano così diffusi: a quella aggressiva dell’indumento americano si preferiva un’eleganza low profile, da signori di campagna.
Gli zainetti non li avevamo; ci bastava una cartella, un po’ più grande di quella delle elementari ma sufficiente anche per la sostanziosa merenda, e alle superiori nemmeno quella: i libri, quei pochi che servivano, si portavano sottobraccio stretti da una cinghia.
Non eravamo connessi. Non esistevano i computer, se non in enormi stanzoni ubicati perlopiù in banche o grandissime industrie che dalla nostre parti scarseggiavano; il telefono c’era ma uno squillo fuori orario era sempre accolto con trepidazione. “Niente nuove, buone nuove” era la massima che regolava le comunicazioni quando ci si allontanava dalla base.
Già non era frequente possedere una macchinetta fotografica, a quell’età, figurarsi usarla per autoscattarsi negli spogliatoi della palestra; a parte il valore estetico del soggetto, ci sarebbero voluti i soldi per far sviluppare i rullini, e se anche li avessimo avuti sarebbero finiti dall’unico fotografo del paese, Peppe de Sittì: non avremmo di certo potuto appellarci al segreto professionale per non fargli riferire ai nostri genitori della bravata.
Se aveste scritto un bigliettino e lo aveste sparato con la cerbottana ad un vostro amico magnificando che so, le poppe della compagna di banco, o dileggiando le manie o tic di qualche professore, in caso di intercettazione non avreste trovato ne solidarietà ne comprensione.
Qualcuno ricorderà che nel 1984 uscì nelle sale il film omonimo, tratto dal libro profetico di Orwell; devo dire che assistendo alla sua visione in un cinema milanese, accanto all’allora futura moglie a mia insaputa, feci una delle più lunghe dormite della mia storia cinematografica. Seconda solo alla performance realizzata con Dune, sempre nello stesso anno, il 1984: lì ci ritrovammo a ronfare testa a testa, sognando vermoni e sperando che mangiassero regista, cast e troupe intera. C’era anche Sting, e come sbagliarsi: un praticante di sesso tantrico come lui non poteva mancare in un pippone di tal genere.
Oggi leggo di una classe, nel torinese, dove ventidue alunni delle medie sono stati sospesi perché sorpresi a fotografare con il telefonino i professori in aula e se stessi in palestra, per poi scambiarsi commenti più o meno offensivi su Whatsapp, applicazione usata nella fattispecie come versione moderna della nostra cerbottana.
Alcuni genitori hanno preso le distanze da questa iniziativa. Non dei propri figli, no no: dei professori e della dirigente scolastica che hanno appioppato il provvedimento disciplinare. Per via della privacy, dicono: cioè quei professori non avevano nessun diritto di andare a sbirciare nei telefonini dei loro pargoletti.
A meno che quei genitori non siano tutti degli avvocati, e allora lodevolmente stiano cercando di educare i figli a cercare di individuare il cavillo nell’uovo ed al negare ogni evidenza, questa richiesta di rispetto del diritto alla riservatezza mi sembra eccessiva.
Voglio dire, fa un po’ ridere appellarsi alla privacy quando i loro figli, e magari loro stessi, mettono a nudo sul Librofaccia ogni aspetto della loro personalità, e spesso non solo quella, comprese le foto fatte in palestra. Ci siamo consegnati volontariamente al Grande Fratello, inteso non esclusivamente come sagra televisiva dei guardoni, e stiamo lì a sindacare sulla privacy di quattro ragazzini brufolosi.
Secondo me, poi ognuno è libero di fare come crede, sarebbe meglio mandarli a scuola senza smartphone, i propri figli; ma se proprio ce li volete mandare, almeno non difendeteli se la cerbottana fa cilecca.
(71. continua)