Olena regina d’Abissinia – 4

A Milano, tra la zona Buenos Aires con il famoso Corso e Porta Venezia, con il Museo di Scienze Naturali ed i giardini dedicati a Indro Montanelli, c’è un piccolo quartiere che si chiama Lazzaretto, che occupa lo spazio dell’antico Lazzaretto fatto costruire da Lodovico il Moro, ricordato da Manzoni nei suoi Promessi Sposi. Alla fine dell’800 quanto rimasto venne definitivamente demolito e al suo posto sorsero dei palazzi in stile per lo più eclettico; all’epoca un viadotto lo tagliava in due, dato che la stazione centrale era in Piazza della Repubblica (che si chiamava appunto Piazzale Stazione Centrale) dividendolo in una parte più nobiliare, quella verso Piazza Venezia, e un’altra più popolare. Dagli anni ’30 del novecento, quando la stazione centrale venne spostata nell’attuale posizione, il quartiere conobbe un progressivo degrado e cambiò anche la geografia dei suoi abitanti; si ebbe così una forte presenza di immigrati dal sud, e dagli anni ’70 arrivarono profughi eritrei ed etiopi, che costituirono una nutrita comunità. Oggi la zona, riqualificata con un susseguirsi di interventi, è decisamente multietnica e a testimoniarlo ci sono numerosi bar, ristoranti e ritrovi di tendenza ed è in uno di questi locali, più o meno al centro del quadrilatero, che si ritrovano delle nostre vecchie conoscenze¹.
«Porco mondo Attilio, ma c’era proprio bisogno di venire in questo posto? Già faccio fatica con i cinesi, ma la cucina africana proprio non mi ispira. Non potevamo andare a mangiare un bell’ossobuco col risotto?» protesta Luigi Cazzaniga detto Luisito Lenìn, Luisito in onore di Luisito Suarez regista della grande Inter e Lenìn in onore di Lenìn, leader degli Interisti per la Rivoluzione, con Attilio Trozzo segretario del COLAPARI, Comitato lavoratori pasta ripiena.
«Luisito te l’ho già spiegato: non possiamo farci trovare impreparati e fare la solita figura di provinciali. Il partito ci ha fatto l’onore di mandarci in viaggio di studio, serviti e riveriti, e noi mica possiamo metterci a fare gli schizzinosi!»
«Insomma, meglio sapere di che morte dovremo morire» commenta Alcide Remigi detto Memo, presidente del Mo.Di.Ca. movimento per la dignità del cane, guardando con apprensione il grande piatto al centro della tavola dove sopra pietanze sconosciute svolazza pigra qualche mosca.
«Memo non dire stronzate per favore» lo redarguisce Trozzo. «Se questa roba la mangiano loro possiamo benissimo mangiarla pure noi. Si tratta solo, ehm, di abituarsi» afferma non molto convinto il segretario.
«Non capisco perché il partito agli altri li manda a Cuba e a noi invece in Etiopia» protesta Ambrogio Cantaluppi , delegato del Sindacato Mimi di Strada e Falsi Bambini in Carrozzina «Che cavolo c’entra l’Etiopia? Non è nemmeno più comunista! Va bene essere internazionalisti e terzomondisti, ma lì non c’è niente, era meglio se ci mandavano in Corea del Nord!»
«Basta nostalgie, compagno! Dobbiamo stare al passo con i tempi. Qual è la più grande minaccia al proletariato, oggi?» chiede Trozzo, enfaticamente.
«Lo sfruttamento? L’ingiustizia? La voracità dei capitalisti? La globalizzazione? La finanziarizzazione dell’economia? La guerra per l’accaparramento delle risorse?» ipotizza Luisito, ortodosso marxista.
«Il riscaldamento globale! I cambiamenti climatici, che mettono a rischio la sopravvivenza di milioni di persone e della stessa madre terra. Come dice il Santo Padre nella sua Laudato Sii…»
«Cazzo, Attilio!» lo interrompe Luisito, stizzito. «Non mi sarai diventato anche tu un baciapile? Pensi di fermare il riscaldamento con una preghiera? La lotta di classe ci vuole, lotta dura, altro che paternoster!»
«Ma che padre nostro» lo corregge Trozzo «qui stiamo parlando di azioni fattive e concrete. Ma lo sapete che nel 2019 l’Etiopia per combattere la deforestazione ha piantato in un solo giorno 350 milioni di alberi²? Per raggiungere questo straordinario risultato si sono mobilitate milioni di persone. Questo dobbiamo andare a studiare!»
«Ma che c’entriamo noi?» obietta Memo «Noi siamo metalmeccanici, mica forestali! E poi dove li piantiamo tutti questi alberi in Brianza, che non c’è rimasto nemmeno un fazzoletto di terra libero. Comunque senti, io comincio ad avere fame… signorina?» grida il resistente, alzando un braccio.
La cameriera, una bellissima ragazza con lunghe gambe ed occhi da cerbiatta, lineamenti molto fini ed un gran cespo di capelli crespi in testa, si avvicina sorridendo.
«Signorina, ci può portare le posate per favore? Ha presente, forchetti, coltelli… » mimando l’uso delle suppellettili.
La ragazza sorride, indulgente.
«E’ la prima volta che venite in un ristorante etiope, è vero? Se preferite vi porto le posate, ma non volete provare a mangiare i nostri piatti alla nostra maniera? E’ facile, vedrete, si usano le mani, prendete un pezzo di questo pane, injera si chiama, con quello si raccoglie la pietanza, e si mangia tutto insieme. Provate, è divertente!» li invita sempre sorridendo.
«Se è la vostra usanza, ci adegueremo volentieri…» risponde Luisito, vincendo lo scetticismo «Lei parla molto bene l’italiano, da quanto tempo è qua?»
«Veramente io in Italia ci sono nata; sto per laurearmi in ingegneria dei materiali e delle nanotecnologie, e nel tempo libero vengo a dare una mano ai miei genitori. »
«Complimenti signorina, i suoi genitori saranno sicuramente orgogliosi di lei» la elogia Attilio, con una fitta di invidia dato che si ritrova un figlio della stessa età ma con una strana allergia al lavoro e allo studio. «Ci potrebbe dire in che cosa consistono questi piatti? Così, giusto per avere un’idea…»

E mentre la cameriera spiega ai curiosi clienti gli ingredienti e la cottura di wat, tibs e kifto, in un tavolo appartato due persone parlano a voce bassa tra di loro.
«Sarebbe una grossa perdita, tu capisci che si tratta di milioni, e la nostra società ne avrebbe un grosso danno» dice l’uomo, un bianco corpulento sulla cinquantina, con un completo grigio di buona fattura ed una paio di occhiali dalla montatura dorata, portando in avanti il busto per avvicinarsi all’interlocutore.
«Capisco che è un grosso fastidio per voi, diciamo pure un problema» risponde il commensale, un nero alto e atletico, con capelli cortissimi, naso schiacciato ed una cicatrice allo zigomo destro. «Ma non potete trovare qualche scappatoia legale? Lo dico contro i miei interessi, ma insomma, avete carrettate di avvocati, qualcosa si possono inventare, no?» chiede sarcastico.
«E’ escluso. Dal momento in cui il notaio aprirà il testamento e lo leggerà, la banca non potrà opporsi. Certo, e bada lo dico ipoteticamente, se gli eredi, come dire, sparissero, sarebbe un altro discorso»
«Sparissero, dici? E per quanto tempo?»
«Definitivamente» scandisce l’uomo d’affari.
«Capito. E, ipoteticamente, quanto ci guadagnerei?» chiede il bandito, con un sorriso beffardo.

¹ cfr. Niente sushi per Olena, 2018
² Il governo etiope, nell’ambito del progetto Green Legacy, si è posto l’obiettivo di piantumare in quattro anni, dal 2019 al 2022, 20 miliardi di alberi per combattere deforestazione e siccità. L’iniziativa, oltre a dare lavoro a centinaia di migliaia di persone, permetterà entro il 2030 di recuperare ben 22 milioni di ettari di terra degradata. Strano che i nostri media non se ne siano minimamente interessati.

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14 pensieri su “Olena regina d’Abissinia – 4

    • Confesso di saperne quanto i miei personaggi: non ho mai messo piede in un ristorante etiope, ma direi africano in genere. Però mi sono ripromesso di colmare presto la lacuna, proprio in uno di quei locali al Lazzaretto… 😁

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    • Yes Olivia you are right, Milano as many other cities is changed a lot, It was an industrial city, now Is the center of fashion, finance, services. Working classe abandoned the center, too much expensive. And tourists, many tourists. All change, not even for the best…

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    • Yes the center of Milan is plenty of fashion stores, Via Montenapoleone is perhaps the most famous. Really Milan Is full of culture, Museums, theaters, galleries of Art, and has a long story. And many restaurants… 😁

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