Qualche giorno fa, passeggiando sotto i portici in centro città, io e mia moglie ci siamo trovati a seguire due ragazzi con un grosso cane al guinzaglio. Ad un certo punto l’unico che del gruppo avrebbe avuto pieno diritto di fregiarsi del titolo di animale, stimolato dall’arietta lacustre, si è accucciato e abbastanza guardingo ha cominciato a farla; il padrone incurante dei legittimi bisogni ha continuato a tirarlo, costringendolo a lasciare una scia marrone di consistenza molliccia. Davanti a noi un papà ha additato al suo bambinetto i maleducati a due zampe e li ha redarguiti. Avesse parlato con un muro avrebbe ottenuto più soddisfazione per cui quando li ho affiancati, pervaso da spirito civico, è stata la mia volta di esprimere con garbo ma fermezza l’invito ai due barbari di raccogliere quanto lasciato dal loro cane.
Non mi sarei aspettato delle scuse ed ero pronto anche allo scontro nel caso mi avessero consigliato di farmi gli affari miei, mia moglie mi stava già guardando con un misto tra l’ammirazione per l’eroe e la preoccupazione per le coronarie, quando la risposta mi ha disarmato e affascinato: “Il cane non è mio”. Ho guardato negli occhi il ragazzo, cercando nel fondo di cogliervi il guizzo di quella sublime creatività necessaria per tale affermazione. Non l’ho trovato, purtroppo, e rammaricato me ne sono andato con la consapevolezza di aver incontrato un genio, ma a sua insaputa.
Certo niente in confronto al latino col machete che, dopo aver detto di aver voluto solo scherzare, il giorno dopo a totale sprezzo del ridicolo ha dichiarato che il machete non era suo: se l’è trovato in tasca per caso perché gliel’aveva affidato un amico. Come scusa mi è sembrata un po’ deboluccia; se fosse stato un rasoio probabilmente avrebbe detto che lo stava portando ad affilare, il suo avvocato deve essere un estimatore di De Filippo in l’Oro di Napoli.
A volte, quando proprio negare è impossibile, vale sempre la vecchia tattica dell’attaccare per primi.
Un mio collega di Parma ebbe un giorno un abbassamento di pressione, e dovette tornare a casa nel primo pomeriggio. Sentiti dei rumori affannosi al piano di sopra, salì silenziosamente le scale e trovò la moglie a letto con l’antennista. Per un attimo restò frastornato, e forse si chiese che canale il tecnico stesse cercando di regolare; ma poi fu risvegliato dalle rimostranze della moglie: “E tu, perché non sei al lavoro?”. Le persone bisogna saperle prendere per il verso giusto (anche l’antennista la pensava così); il grottesco della situazione non sfuggì al mio amico, che piuttosto che metter mano al cutieddu come si farebbe in zone di mentalità meno aperta, esplose in un “Mo va a caghèr!”.
Colpa anche sua comunque, un colpetto di telefono quando si rientra prima è sempre meglio farlo.
Del resto mi pare di aver sentito dire di un ministro della Repubblica ritrovatosi una casa intestata al Colosseo a sua insaputa, o di un presidente del Consiglio frequentante una certa signorina, minorenne ma a sua insaputa, convinto che fosse parente di Mubarak al punto tale da indurre più di metà del Parlamento a prestargli fiducia. Se ci hanno creduto loro ci credo anch’io, ci mancherebbe altro: però, qui lo dico e qui lo nego, la signorina era marocchina, non egiziana.
(52. continua)