Le sirene del ballo

Non penso di essere portato per il ballo. Non che manchi di senso del ritmo, ne di conoscenza rudimentale dei passi principali ma i miei movimenti risultano legati, legnosi, un po’ macchinosi diciamo. A mia parziale giustificazione potrei dire che nel periodo più adatto alla formazione ho potuto far poco per migliorare le mie doti: infatti suonando in un’orchestrina il nostro compito era quello di far ballare gli altri e nella fattispecie del mio strumento, il basso, quello che nello zum-pà-ppà del valzer fa lo zum per intenderci, l’assenza dal palco si sarebbe sentita. Il pà-ppà senza zum non funziona.

Tanto per farvi capire, mia sorella Cinzia già grandina si era iscritta ad un corso di boogie-woogie, accompagnata da un nostro cugino. Poiché questo non si distingueva per elasticità, Cinzia mi chiese di aiutarla a provare qualche passo. Come ho detto non sono un John Travolta ma mia sorella confidava che, dopo aver visto tanto ballare, qualcosina avessi imparato. Arrivammo così al punto in cui la ballerina salta in grembo al ballerino e poi, facendo una capriola all’indietro, gli si ritrova di fronte generalmente in piedi. Io sostengo ancora oggi che la ballerina dovrebbe darsi un minimo di slancio, lei che i ballerini non dovrebbero avere le mani di burro: insomma mi ritrovai con la sorella sottosopra, incapace di fare l’ultimo mezzo giro, e scivolandomi dalle mani atterrò sulla testa. Quella sera la sua fiducia in me venne meno e la passione per il boogie-woogie svanì.

Una delle più formidabili coppie di ballerini che abbia mai conosciuto era costituita dal maresciallo dei carabinieri del paese e la di lui signora. Lui era un omone all’apparenza burbero, tipo un Peppone, con una bella pancia e due piedini piccoli; lei una romagnola snella con in testa uno chignon o ciuccio, come si diceva da noi, che la faceva un po’ rassomigliare a Olivia di Braccio di Ferro. Vederli volteggiare per la pista era uno spettacolo, e se la battevano in maestria con i miei genitori.
Un Capodanno fummo ingaggiati da un locale dal nome pretenzioso, il Mulin (sic) Rouge, in precedenza denominato “da Catirbittu”: una rimessa adibita a sala da ballo, con un soffitto alto non più di tre metri. Al Park Hotel, fino ad allora nostro feudo incontrastato, avevano deciso di cambiare musica (e suonatori) costringendoci all’esilio; il tradimento ci aveva ferito, anche perché solitamente il Veglione era preceduto dalla sontuosa cena, parte integrante del cachet.

Mio padre ci raccontava di quando da giovane, nel periodo della raccolta del granturco, venisse invitato a partecipare alle feste che si svolgevano sull’aia di qualche casa colonica; la cerimonia era quella dello scartocciamento, ovvero del liberare le pannocchie, o tùtuli, dalle foglie che le avvolgevano, in modo da poter in seguito sgranare i chicchi di mais con comodità. A queste feste non mancava mai un organetto, come veniva chiamato, che in realtà era una fisarmonica con pochi tasti; poeti provetti improvvisavano stornelli e si ballava ovviamente con le prosperose ed a volte generose donzellette che tanto attizzavano Giacomino, il tormentato genio recanatese. La tecnica di questi suonatori, abituati del resto a maneggiare ben altri strumenti, non si potrebbe definire sopraffina: per questo il nostro maestro di banda, quando sentiva qualcosa non eseguito con grazia, ci chiedeva se per caso non stessimo scartocciando.

Non me ne vogliano i seguaci della teoria creazionista, ma mi sento più in sintonia con Darwin quando afferma che l’ambiente influenza l’evoluzione; ma anche l’involuzione, se è vero che quella sera da Catirbittu per adeguarci all’ambiente stavamo scartocciando. Ma la gente si divertiva, ed è quello che conta; anche se avevamo un po’ l’espressione di quell’attore che vorrebbe recitare Amleto, e dal pubblico si leva un “facce ride, facce ppà”.
Da poco passata la mezzanotte, dopo il conto alla rovescia e i brindisi di rito, nel bel mezzo di una raspa che in questo contesto non va intesa come grossa lima da legno vediamo con la coda dell’occhio un gruppetto di persone in abiti eleganti affacciarsi nella sala. Nel mucchio maresciallo e consorte; i miei ed altri ballerini. Fu una delle soddisfazioni più grandi della carriera: siamo venuti a ballare, lassù proprio non si riesce. Lasciammo finalmente stare le pannocchie di granturco, e iniziammo a suonare.

(49. continua)

boogiechicago

3 pensieri su “Le sirene del ballo

  1. Quel maresciallo e consorte mi fanno venire in mente la coppia De Sica e Sofia Loren nel ballo paesano del film ”Pane, amore, e…” di Dino Risi. Tutt’altra coppia certo ma come ambientazione mi pare ci siamo. E il momento del boogie-woogie con tua sorella penso sia stato una cosa esilarante da vedersi. Tu da gentiluomo mi scuserai se ne rido ancora. Un abbraccio contenta di leggerti. Isabella

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    • Parlavamo giusto l’altro giorno di “Pane amore e…” in effetti i marescialli dei carabinieri fino a qualche tempo fa erano delle autorità nei paesi, come i medici condotti, i farmacisti, i preti… avevano tutto sotto controllo! A questo sono affezionato particolarmente, perché sono sicuro che ci sia anche il suo zampino se sono stato preso a fare l’ufficiale invece di fare il soldato semplice. Non che avessi chissà quale smania di comandare, ma pensavo e lo penso ancora che se devo essere comandato da qualche coglione, è meglio che quel coglione sia io! Poi c’è sempre qualche coglione più in alto, comunque… eh, eh, con mia sorella ci ridiamo ancora, e ancora non abbiamo deciso di chi fu la colpa… eravamo entrambi negati, mi sa… ciao Isabella!

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      • E’ vero caro Giorgio. Peccato si siano perse nel tempo figure che caratterizzavano un paese nel bello e nel brutto. Era quel tocco ruspante che faceva del paese a differenza della città un luogo più a misura d’uomo, dove ci si conosceva tutti e tutti ci si aiutava in un modo o nell’altro. Ora purtroppo non è più così. Buona domenica caro Giorgio e salutami tua sorella. Isabella

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