La musica è l’arte dei suoni, per mezzo dei quali si esprimono i diversi sentimenti dell’animo umano. Questo il maestro ci dettava e faceva scrivere sulla prima pagina del quaderno di musica.
L’arte dei suoni, non dei rumori, per quanto a volte il confine sia piuttosto labile.
Come credo vi sia noto, il clacson non è uno strumento musicale. Tecnicamente è un “dispositivo di segnalazione acustica”. Non nego che esistano anche virtuosi del clacson, ma in genere non ispirano grossa simpatia.
I clacson delle automobili Fiat erano inconfondibili. Mio padre aveva una 124 familiare. Indistruttibile. Caricavamo sul portapacchi ringhiere e portoni; babbo l’aveva fatta mettere a metano, e la tenne fino a quando non cadde letteralmente a pezzi. Per sostituirla con una 131, ovviamente familiare.
Una volta, a Macerata, si ruppe il filo dell’acceleratore. Lui attaccò un fil di ferro, e accelerò a mano fino a casa. Con una mano accelerava, con l’altra guidava. Allora le auto erano mezzi di locomozione, non aree climatizzate o sale giochi.
Ero orgoglioso di quelle automobili. In fondo, come famiglia, avevamo dato il nostro contributo.
Tutti i fratelli di mio padre, infatti, erano emigrati a Torino per fabbricare macchine. Una sorella e tre fratelli, uno dopo l’altro, nel giro di poco tempo. E anche mia nonna. A babbo non passò mai per la testa di seguirli. Anzi, proprio non li approvava. Diventare dei numeri alla catena di montaggio in cambio di uno stipendio garantito. No, non lo concepiva. Meno male, me la sono scampata bella.
Chi se ne va lascia un vuoto, lo so bene io. A me rimase il vuoto di mio cugino Gianni, che aveva la mia età e col quale eravamo cresciuti insieme. Da allora odiai Torino. Città grigia, di smog, di casermoni, di gente sradicata dal vecchio paese e mai veramente accettata dal nuovo. Piemontesi falsi e cortesi, si diceva.
Mi decisi ad andare a visitare Torino solo dopo le Olimpiadi Invernali del 2006, in era post-industriale, e i miei zii o erano già in pensione o erano stati licenziati anni prima.
Mi ha fatto una bella impressione, tout est pardonné.
Gli zii, i genitori di Gianni, ci lasciarono la Vespa 125 e un cagnolino che si chiamava Rudy.
Ricordo ancora le feste che faceva quando, per le ferie estive, zio passava a salutare. E la delusione quando ripartiva. Dopo qualche anno capì, e di feste non ne fece più.
Aveva l’abitudine, d’estate, di fare il riposino in piazza, all’ombra di qualche macchina. Un giorno fu troppo lento a uscire, povero Rudy. Giurai di non prendere più cani in vita mia, ma fortunatamente non mantenni il giuramento.
Molto più tardi contribuii alla distruzione della 131 causando un incidente, e da allora finì la serie delle Fiat. Anche perché la Fiat nel frattempo aveva deciso di non costruire più macchine serie. Ritmo, Punto, robetta. Su quelle le ringhiere non le caricavi di sicuro. Così babbo prese un camioncino.
Una volta possedere un’auto straniera era una stranezza. Un tradimento, quasi.
Italianissima era la Bianchina, ad esempio, sulla quale salivamo in sette per andare a giocare a pallone a Villa Lauri. Ci caricava Adele, che era a servizio dai padroni di una fabbrichetta di mobili il cui figlio giocava con noi. Lo tolleravamo, anche se era un paio d’anni più piccolo. Come rivincita, è diventato il più bravo di tutti.
Questa Villa, all’epoca semidisabitata, aveva un parco enorme, con nel mezzo un campo quasi regolamentare; di solito non si chiedeva permesso per entrare, e si usava solo per sfide ufficiali.
A volte ci arbitrava Don Luigi, che non nego ci favorisse alquanto; del resto c’era buona parte dei suoi chierichetti, un occhio di riguardo doveva averlo. Una delle partite più memorabili finì sospesa per grandine, con i chicchi che rimbalzavano sulla sua pelata.
Quello che volevo dire, insomma, è che un clacson può emettere un suono o un rumore.
Non è il clacson che fa la differenza. E’ l’animo umano.
(6. continua)