Se osservate delle foto di vecchie bande musicali, noterete che non ci sono donne. E c’è un perché: le prove si facevano di sera, e le brave ragazze di sera non uscivano; le donne sposate avevano ben altro a cui pensare.
Ripensandoci, anche nella mia classe di avviamento musicale non c’erano ragazze. Non che fosse una novità per noi, eravamo in quinta elementare e fino ad allora vigeva l’apartheid. Classe maschile e classe femminile. Non si sconfinava. L’educazione sessuale era elargita da compagni più grandi, spesso ripetenti; le spiegazioni scientifiche davano adito a molte fantasie, che solo anni o decenni più tardi saremmo stati in grado di verificare.
L’istruzione era impartita dal maestro Sileoni, sarto. Un musicista formidabile, sapeva suonare tutto, trascriveva a mano le parti per tutti gli strumenti (pennino, inchiostro e lametta per cancellare gli errori). Padre dell’attuale maestro Sileoni, bravissimo anche lui, ma non sarto.
Il primo anno si passava tutto a solfeggiare. Semibreve, minima, semiminima… do-o-o-o, re-e, u-no (pausa) mi-i. Un anno di solfeggio stroncava i meno motivati; ma era un ottimo esercizio di vita. Chi ha solfeggiato per un anno, sa di cosa parlo.
Poi si passava allo strumento. La scelta dello strumento era così fatta: chi aveva i soldi se lo comprava. Non ho mai visto nessuno comprare bombardini o flicorni contralti, ad ogni modo.
A chi invece di soldi non ne aveva (la maggioranza) lo strumento veniva assegnato d’ufficio, in base alle esigenze della banda e alla disponibilità. Mai a caso, comunque: i ragazzi grandi e grossi venivano dirottati verso bombardini o bassi, quelli piccolini come me verso clarinetti e flauti; quelli vivaci verso tamburi e trombe. Grancassa e piatti non erano per noi, erano riservati a gente di grande esperienza.
La consegna dello strumento era un momento di grande emozione.
A me toccò il clarinetto. Per la precisione, clarinetto soprano in SI bemolle. Non fu del tutto una sorpresa, erano già trapelate indiscrezioni. E poi ben due miei zii paterni lo avevano già suonato. Mio padre invece non aveva potuto, a lui come fratello maschio maggiore era toccato andare a lavorare a 10 anni (oggi lo chiamiamo sfruttamento minorile, allora era sopravvivenza), e di tempo per suonare non ne aveva molto. Poi a sedici anni l’hanno cacciato in guerra, altra musica, quella.
Mia madre mi ha sempre spinto verso la musica. Verso tutto, a dire la verità. Grazie, mà.
Lo strumento si imparava in due anni. Due anni di scale, esercizi, ricerca dell’intonazione, lotte con chiavette che si rompevano (erano strumenti di cento anni…), ance da riciclare, cuscinetti da riattaccare. E calli al pollice che sorreggeva lo strumento e alle labbra che lo imboccavano.
In due anni veniva fatta un’altra bella scrematura; alla fine solo i più forti resistevano.
E infine, si debuttava. L’evento stabilito era la Processione del Venerdì Santo; marce funebri e inni lenti che qualche stonatura non avrebbe certo potuto rendere più strazianti.
La Processione del Venerdì Santo, a Pollenza, è un evento centrale. Partecipano tutti, dal paese e dalla campagna; il feretro viene portato in processione per la via principale e per le mura; le varie confraternite sfilano con le loro bandiere e gagliardetti, le pie donne vestite di nero con i moccoli accesi; i bambini portano i “misteri” (i più ambiti la frusta, la colonna e la lancia); il coro canta il “Miserere”, e infine messa solenne.
Poi lo struscio e, nella calca, individuare qualche bel sedere da toccare (in pieno clima penitenziale).
Dal clarinetto soprano al clarinetto contralto il passo è stato breve; e da questo al sassofono contralto (che ho suonato nella Banda Giuseppe Verdi di Parma… ma questa è un’altra storia ancora) ancora più breve. Oggi quando ascolto una banda ho sempre un pizzico di magone, ma non si sa mai, tra qualche anno la grancassa potrebbe essere mia.
(2. continua)